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Galileo Galilei (Favaro) II


CHI entra in Santa Croce di Firenze dalla porta maggiore, mossi pochi passi, si trova sotto i piedi un lastrone di marmo con l’effigie, mezzo consunta dallo scalpiccio irriverente dei fedeli, d’un "Magister Galilaeus de Galilaeis". Nato nel 1370, era salito in riputazione di gran medico; Lettore ed uno degli ufficiali dello Studio, aveva anche nobilmente servito la patria nelle più alte magistrature; e quando circa ottantenne venne a morte, fu sotto quel lastrone composto dalla pietà del figlio Benedetto.

In quella tomba, accanto a lui ed ai suoi discendenti, avrebbe voluto essere deposto il suo grande omonimo, nato circa due secoli più tardi e che della famiglia doveva essere il maggior lustro; poichè questa era la "sepoltura dei suoi antenati" nella quale aveva nel testamento ordinato di essere deposto. Ma la pietà dell’ultimo suo discepolo, dopo l’empietà di chi alla gran salma aveva persino osato di contendere la sepoltura in luogo sacro, impedì che questo atto della sua ultima volontà venisse adempiuto; e le sue ossa, profanate da sacrileghe mutilazioni, riposano ormai, bensì in Santa Croce, ma fuori dal tumulo di sua famiglia.

E la famiglia era stata cospicua, se non per grandi ricchezze, per gli uffici dei quali parecchi tra i suoi membri erano stati investiti; ma quando da Vincenzio di Michelangiolo Galilei e da Giulia del casato degli Ammannati, dal quale nel secolo XV era uscito il cardinale Iacopo, egli nacque il 15 febbraio 1564 e nella primaziale di Pisa fu battezzato col nome di Galileo, ogni splendore era da lungo tempo scomparso e ne rimaneva appena la tradizione. Il padre, uomo di grandissimo valore, versato nelle matematiche, ma soprattutto nelle dottrine musicali, era ridotto a mantenere la famiglia che andava rapidamente aumentando, con dare lezioni di liuto ed ingegnandosi fors’anco con la mercatura. Nella mente giovinetta del suo primogenito deve però aver saputo leggere il padre intelligentissimo se, ad onta delle disagiate condizioni, nulla risparmiò per la compiuta istruzione di lui, e dopo avervi contribuito egli stesso fin dove poteva nelle discipline letterarie e musicali, apprendendogli inoltre il disegno e la prospettiva, gli fece udire da un padre Vallombrosano i precetti di logica, cioè di quella parte elementare della filosofia che, secondo il costume del tempo, intendeva ad addestrare piuttosto nell’arte del discutere che in quella del ragionare. Pare anzi, e costituisce tal nota singolare nella biografia di Galileo da non potersi passare sotto silenzio, che questi insegnamenti di logica egli li abbia ricevuti proprio nel monastero di Santa Maria di Vallombrosa, dove, e certamente contro la paterna volontà, avrebbe anche vestito l’abito di novizio. Lo depose ad ogni modo poco più che quindicenne, nè, per quanto ci è noto, a questo episodio accennò mai in alcuna circostanza della sua vita; sicchè noi ne saremmo completamente all’oscuro se il fatto non fosse affermato in una cronaca di quell’ordine religioso, e soprattutto non ne trovassimo espressa menzione in un processo svoltosi pochi anni dopo e nella occasione del quale un anonimo che, a quanto sembra, aveva motivo di dolersi delle disposizioni testimoniali di lui, esce a dargli del "frate sfratato".

Ma assai più che qualsiasi istruzione dovette giovare a Galileo la convivenza col padre, che seppe istillargli quella indipendenza di giudizio e quel disprezzo per il principio di autorità allora imperante nelle scuole, i quali brillano di così vivida luce in tutti gli scritti di lui infino a noi pervenuti, e che dovevano costituire una tra le più forti caratteristiche dell’opera scientifica del figliuolo. Perchè nel Dialogo della musica antica e moderna Vincenzio Galilei si scaglia contro coloro che a sostegno d’una affermazione si contentano del solo peso dell’autorità senza curarsi di ricorrere ad altri argomenti: e quando vuole le questioni liberamente poste e discusse, come si conviene a chiunque si accinge alla sincera ricerca del vero, par di leggere una di quelle invettive nelle quali doveva, e così di frequente, uscire più tardi l’immortale suo figlio.

Forse la tradizione del gran medico che era già stato lustro della famiglia, congiunta col pensiero che il seguirne l’esempio avrebbe condotto all’esercizio di un’arte a quel tempo tra le più lucrose, influì a decidere il padre a mandarlo allo Studio di Pisa, a farlo colà inscrivere fra gli Artisti ed a mantenervelo, non ostante che venisse ripetutamente respinta l’istanza per ottenergli un luogo nel Collegio di Sapienza nel quale erano ospitati e spesati quasi gratuitamente quaranta scolari dello Studio.

Educato dal padre a libertà di pensiero, mal poteva il giovane studente piegarsi a dogmatizzare coi suoi maestri ora nel nome di Aristotele ed ora in quelli di Platone e di San Tommaso, mentre con la propria ragione, con l’osservazione dei fatti, con esperienze sensibili poteva appagare il suo spirito, studiare i fenomeni e porgerne la vera spiegazione. E queste relazioni di Galileo coi suoi insegnanti pisani ben rileva il Viviani, scrivendo nel racconto istorico della vita del suo Maestro che "fu sempre contrario alli più rigorosi difensori d'ogni detto aristotelico, acquistandosi nome tra quelli di spirito della contraddizione e, in premio delle scoperte novità, l'odio loro, non potendo essi soffrire che da un giovanetto studente, e che pur ancora, secondo un loro detto volgare, non aveva fatto il corso delle scienze, quelle dottrine da loro imbevute, si può dire, con il latte, gli avessero ad essere con nuovi modi e con tanta evidenza così facilmente rigettate e convinte".

Qual parte in ciò che si narra a proposito di queste verità scoperte da Galileo, e che costituirebbero il risultato dei suoi primi studi, debba esser fatta alla leggenda e quale alla storia, sarebbe assai malagevole di stabilire in modo assoluto. Sulla infanzia e sulla gioventù degli uomini grandi la attenzione è in generale richiamata troppo tardi perchè intorno a quei primi anni possano essere raccolti sicuri elementi per la storia; e quando se ne istituisce la ricerca, la leggenda ha già incominciato a formarsi. La critica moderna vorrebbe ogni asserzione confortata da documenti, i quali in alcuni casi non si sa nemmeno quali potrebbero essere; e le affermazioni personali oppure le dichiarazioni di altri, per quanto meritevoli di fede, vengono revocate in dubbio con una sottigliezza d’analisi quale si farebbe d’un testo notarile col codice alla mano, anzi con uno scetticismo che nulla vale a scuotere ed a disarmare. Eppure anche allo storico più scrupoloso ripugna di relegare addirittura tra le leggende alcune narrazioni alle quali il nome di Galileo è così strettamente connesso da sembrare quasi sacrilegio il sentenziare senz’altro che si tratta poco meno che di favole.

Tra queste sarebbe anzitutto la celeberrima scoperta da lui fatta dell’isocronismo delle oscillazioni del pendolo, dedotta dalla uguaglianza delle vibrazioni d’una lampada sospesa alla vôlta del duomo di Pisa; osservazione da riferirsi al tempo in cui egli era scolaro dello Studio, anzi, come sembra potersi fissare con maggior precisione, intorno all’anno 1583. Nel duomo di Pisa si vede, ed è tenuta con grandissima venerazione, la lampada che, abbandonata a sè medesima dallo scaccino che l’aveva accesa, avrebbe col suo oscillare dato motivo all’osservazione del giovanetto studente, anzi non altrimenti che col nome di "Lampada di Galileo" viene comunemente indicata. Ma ecco che i frugatori di archivi vengono fuori con un documento a provare che proprio quella lampada, modellata da Battista di Domenico Lorenzi ed eseguita da Vincenzio di Domenico Possenti, fu messa a posto il 20 dicembre 1587, e quindi subito altri a negare la tradizione costante e l’autenticità della osservazione, come se in duomo non fossero state prima altre lampade, oppure avessero potuto diversamente da quella oscillare. Or bene, a quella tradizione noi prestiamo fede, e crediamo col Viviani, che siccome Galileo allora, di buona o di mala voglia, pur seguiva gli studi di medicina, gli sia sovvenuto subito che in questi la avvertita egualità delle vibrazioni d’un dondolo avrebbe trovata utile applicazione nel misurare la frequenza del polso, del quale, a quanto si narra, erasi servito per notare l’isocronismo. È sommamente probabile che, con quella sua innata valentia nell’ideare ed eseguire congegni meccanici, egli costruisse anche a tal fine un apparecchio: fatto sta che il procedimento suggerito da lui, allora appena diciottenne, fu accolto con grande favore dai pratici, trovò chi caritatevolmente lo adottò e lo fece proprio, e rimase poi lungamente in uso. E tale fu l’invenzione cosiddetta del pendolo, della quale Galileo si valse poi in varie esperienze di misure e di tempi e di moti, e fu il primo che l’applicasse alle osservazioni celesti con incredibile acquisto dell’astronomia e della geografia.

Quando quella storica osservazione si affacciò alla mente di Galileo, era ancora completamente digiuno di studi matematici, e quantunque, considerando l’ordinamento delle Università di quel tempo, si duri fatica a comprendere com’egli abbia potuto compiere due anni di studio e parte del terzo senza esservi almeno iniziato, il fatto della assoluta ignoranza di matematiche, nella quale sarebbe rimasto fin verso i vent’anni, è così concordemente asserito dai suoi biografi, e da lui stesso così recisamente e ripetutamente confermato, da non potersi revocarlo in dubbio. Non appena però vi fu, e, a quanto si narra, contro la volontà del padre, introdotto, così prepotente si manifestò in lui la inclinazione per questi studi e tal saggio ne diede che ottenne di poter abbandonare quelli di medicina, e fatto ritorno definitivo in Firenze, ad essi completamente si dedicò. Allo studio degli Elementi di Euclide fe’ seguire quello degli scritti di Archimede, la cui opera egli era destinato a continuare, ed in alcuni argomenti quasi immediatamente, come se tra loro non fossero passati diciotto secoli e mezzo: da essi fu condotto a riprendere la soluzione che del famoso problema della corona aveva data il geometra siracusano e da questa alla invenzione della bilancetta, cioè di quello strumento che fu poi detto bilancia idrostatica e che sotto nuove e varie forme fu adoperato col nome di Idrostammo degli Accademici del Cimento. Ed ancora dallo studio delle opere di Archimede fu egli avviato a quella determinazione dei baricentri dei solidi che lo fece fin d’allora favorevolmente conoscere dai più illustri matematici del tempo, e della quale tanto si compiacque da pubblicarla più di mezzo secolo dopo in appendice alla sua opera capitale delle Nuove Scienze.