Libro quarto - Capitolo 35
Poi che la reina tacque, e Menedon fu rimaso contento, un valoroso giovane chiamato Clonico, il quale appresso Menedon sedeva, così cominciò a parlare: - Grandissima reina, tanto è stata bella e lunga la novella di questo nobile giovane, che io, acciò che gli altri nel brieve tempo possano ad agio dire, quanto potrò, il mio intendimento brievemente vi narrerò: e dico che, con ciò fosse cosa che io ancora molto giovane conoscessi la vita de’ suggetti del nostro signore Amore piena di molte sollecitudini e d’angosciosi stimoli con poco diletto, lungamente a mio potere la fuggii, schernendo più tosto coloro che lui seguivano, che commendandoli e ben che io molte volte già fossi tentato, con forte animo resistetti cessando i tesi lacciuoli. Ma però che io a quella forza alla quale Febo non poté resistere, non era forte a contrastare, avendosi Cupido pur posto in cuore di recarmi nel numero de’ suoi suggetti, fui preso, né quasi m’accorsi come, però che un giorno già per lo rinnovellato tempo lieto andando io su per li salati liti, conche marine con diletto prendendo, avvenne che voltando io gli occhi verso le nitide onde, per quelle vidi subita venire una barchetta, nella quale quattro giovani con un solo marinaio veniano, tanto belle, che mirabile cosa il vederle sì belle mi parve. E essendosi esse già verso di me appropinquate assai, né io però avessi i miei occhi da’ loro visi levati, vidi in mezzo di loro un lustrore grandissimo, nel quale, secondo che la stimativa mi porse, mi parve vedere una figura d’uno angelo giovanissimo, e tanto bella quanto alcuna cosa mai da me veduta. Il quale rimirando io, mi parve ch’egli dicesse così verso di me con voce assai dalla nostra diversa: "O giovane, stolto perseguitore della nostra potenza, ora se’ giunto! Io sono qui con quattro belle giovinette venuto: piglia per donna quella che più piace agli occhi tuoi!". Io questa voce udendo, tutto rimasi stupefatto, e col cuore e con gli occhi cercava di fuggire quello che io molte volte già fuggito avea; ma ciò era niente, però che alle mie gambe era tolta la possa, e egli avea arco e ali da giugnermi assai tosto. Onde io tra quelle mirando, vidi l’una di loro tanto bella e graziosa nell’aspetto e ne’ sembianti pietosa, ch’io imaginai di volere lei per singulare donna, fra me dicendo: "Costei agli occhi miei sì umile si presenta, che fermamente ella non sarà a’ miei disii nimica, come molte altre sono a quelli i quali io, vedendoli pieni d’affanni, ho già scherniti, ma sarà delle mie noie cacciatrice". E questo pensato, subito risposi: "La graziosa bellezza di quella giovane che alla vostra destra siede, o signor mio, mi fa disiderare d’essere a voi e a lei fedelissimo servidore, e però io sono qui a’ vostri voleri presto: fate di me quello che a voi piace". Io non avea ancora compiuto di parlare, ch’io mi sentii il sinistro lato piagare d’una lucente saetta venuta dall’arco che egli portava, la quale io estimai che d’oro fosse. E certo io non vidi quando egli, voltato a lei, essa ferì d’una di piombo: e in questa maniera preso rimasi ne’ lacci da me lungamente fuggiti. Questa giovane piacque e piace tanto agli occhi miei, che ogni altro piacere fora per comparazione a questo scarso. Della qual cosa ella avedendosene, lungamente si mostrò contenta; ma poi ch’ella conobbe me sì preso del suo piacere, che impossibile mi sarebbe il non amarla, ella incontanente il suo inganno con non dovuto sdegno verso me scoperse, mostrandosi ne’ sembianti a me crudelissima nimica, sempre gli occhi torcendo in altra parte a quella contraria dove me veduto avesse, e con non dovute parole continuo dispregiandomi. Per la qual cosa, avendo io in molte maniere con prieghi e con umiltà ingegnatomi di raumiliare la sua acerbità, né pote’ mai, io sovente piango e dolgomi di tanto infortunio, né in maniera niuna posso d’amarla tirarmi indietro: anzi quanto più crudele verso di me la sento, tanto più pare che la fiamma del suo piacere m’accenda il tristo cuore. Delle quali cose dolendomi io un giorno tutto soletto in un giardino con infiniti sospiri accompagnati da molte lagrime, sopravenne un mio singulare amico, al quale parte de’ miei danni era palese, e quivi con pietose parole m’incominciò a volere riconfortare, i cui conforti non ascoltando io niente, ma rispondendogli che la mia miseria ogni altra passava, egli così mi disse: "Tanto è l’uomo misero quanto egli medesimo si fa o si riputa; ma certo io ho molto maggiore cagione di dolermi che tu non hai". Io allora quasi turbato mi rivolsi a lui, dicendo: "Come? Chi la può maggiore di me avere? Non ricevo io mal guiderdone per ben servire? Non sono io odiato per lealmente amare? Così come me può alcuno essere dolente, ma più no". "Certo" rispose l’amico "io ho maggiore cagione di dolermi che tu non hai, e odi come. A te non è occulto che io lungo tempo abbia una gentil donna amata e amo sì come tu fai, né mai niuna cosa fu che io credessi che a lei piacesse, che io con tutto il mio ingegno e potere non mi sia messo a farla. E certo essa di questo conoscente, di ciò che io più disiderava mi fece grazioso dono, il quale avendo io ricevuto, e ricevendo qualora mi piacea, per lunga stagione non mi parea alla mia vita avere in allegrezza pari. Solo uno stimolo avea, che io non le potea far credere quanto io perfettamente l’amava: ma di questo, sentendomi amarla com’io dicea, leggermente mi passava. Ma gl’iddii, che niuno bene mondano vogliono sanza alcuna amaritudine concedere, acciò che i celestiali siano più conosciuti, e per consequente più disiderati, a questo m’aggiunsero un altro a me sanza comparazione noioso; ch’elli avvenne che dimorando io un giorno soletto con lei in segreta parte, veggendo chi davanti a noi passava sanza essere veduti, un giovane grazioso e di piacevole aspetto passò per quella parte, il quale io vidi ch’ella riguardò e poi un pietoso sospiro gittò. La qual cosa vedendo, io dissi: "Oimè, sonvi io sì tosto rincresciuto, che per la bellezza d’altro giovane sospiriate?". Ella tornata nel viso di nuova rossezza dipinta, con molte scuse, giurando per la potenza de’ sommi iddii, s’incominciò ad ingegnare di farmi scredere ciò che io per lo sospirare avea pensato: ma ciò fu niente, però che nel cuore mi s’accese una ira sì ferocissima, che quasi con lei non mi fece allora crucciare, ma pur mi ritenni. E certamente mai dell’animo partire non mi si poté che costei colui o altrui non amasse più di me: e tutti quelli pensieri, i quali altra volta in mio aiuto recava, cioè ch’ella più ch’altro me amasse, ora tutti in contrario li estimo, imaginando che fittiziamente abbia detto e fatto ciò che per adietro ha operato; di che dolore intollerabile sostengo. Né a ciò alcuno conforto vale; ma però che vergogna sovente raffrena il volere ch’io ho di dolermi più che di rallegrarmi, non continuo il mio dolore sì ch’io ne faccia alcuni avedere, ma, brievemente, io mai sanza sollecitudine e pensieri non sono, i quali molta più noia mi danno ch’io non vorrei. Adunque appara a sostenere le minori cose, poi che a me le maggiori vedi con forte animo portare nascose". Al quale io risposi che non mi parea che in niuno modo il suo dolore, ben che fosse grande, si potesse al mio agguagliare. E egli mi rispondea il contrario: e così in lunga quistione dimorammo, partendoci poi sanza niuna diffinizione. Priegovi ne diciate quello che di questo voi terreste -.