Fermo e Lucia/Tomo Quarto/Cap I
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Dalla fine dell’anno 1628 alla quale siamo pervenuti con la narrazione, in sino alla metà del 1630, i nostri personaggi, quale per elezione, e quale per necessità si rimasero a un dipresso nello stato, in cui gli abbiamo lasciati; e la loro vita non offre in questo tempo quasi un avvenimento che ci sembri degno di menzione. Qualche fatto, benché molto grave per taluno dei nostri eroi, non produsse però mutazione nello stato degli altri. Pare quindi che noi dovremmo saltare a piè pari al punto in cui la nostra storia ripiglia un movimento, e un progresso generale.
La storia pubblica però di quell’anno e mezzo è piena di successi; e noi non possiamo dispensarci dal riferirli, da essi e con essi nacquero gli eventi privati che formeranno la materia ulteriore del nostro racconto. Quei successi varii e moltiplici si riducono a tre principali: fame, guerra, e peste: lo dichiariamo sul bel principio, affinché quei lettori che amano cose allegre, possano gettar tosto il libro, e non abbiano poi a lagnarsi di non essere stati avvisati in tempo.
Dopo la bella spedizione del giorno di San Martino, parve per qualche tempo che l’abbondanza invocata da una parte con tanti urli, promessa dall’altra con tanta sicurezza, fosse venuta davvero. Il pane a quel modico prezzo che abbiam detto; e questa volta non per una ipotesi violenta, ma per un compenso che i Decurioni coi denari della città avevano stabilito ai fornaj: i forni sempre ben provveduti: tutto sarebbe andato bene, se le cose avessero potuto durare così fino al raccolto: vale a dire se l’impossibile fosse divenuto possibile.
È cosa istruttiva e curiosa l’osservare per quali modi i disegni assurdi vadano a male, le volontà insipienti sieno frustrate, notare i principj, i progressi, la varietà degli inciampi e delle resistenze, gli effetti non premeditati nel disegno, e che nascono necessariamente ad impedire l’effetto voluto e promesso. Noi abbiamo fatte molte ricerche negli atti pubblici e nelle memorie degli scrittori, per tener dietro alla storia di quei provvedimenti annonarj; ma il filo che a gran fatica abbiam potuto prendere da quella matassa scompigliata appena ci ha condotti per un breve tratto, ci ha fatti raccappezzare gli effetti più prossimi. Ed eccoli quali risultano da autentici documenti.
Quelli che avevano denari oltre il bisogno quotidiano, correvano in folla ai forni a comperar e ricomperare pane, ai mercati a comperar e a ricomperare farine, per farne provvigioni. Appariva quindi manifestamente che il ribasso del prezzo fatto ad intendimento di dare pane ai poveri, tendeva invece a farlo tutto venire in potere dei facoltosi. Grida dei 15 novembre, che proibisce il comperar pane e farine per più che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali ad arbitrio di S.E., ordine agli anziani, insinuazione a tutti di denunziare i contravventori, ordine ai giudici di fare perquisizioni per le case. Come si facciano denunzie e perquisizioni è cosa facile da capirsi; ma quello che nessuno potrà capire davvero né immaginare, si è come con questi mezzi si potesse colpire tanti contravventori da impedire, o da diminuire sensibilmente quella tendenza a fare scorta per l’avvenire.
Un consumo così straordinario in tempi di grande scarsezza doveva rendere difficile a rinvenirsi la materia prima sufficiente: quindi la grida del 23 di novembre che sequestrava in mano degli affittuarj e di chi che altri fosse la metà del riso da essi posseduto (il riso allora entrava nella composizione del pane comune) e la riteneva agli ordini del Vicario e dei dodeci di Provvisione per l’uso della città. Ma questa città che aveva assunto l’impegno di mantenere il pane al prezzo d’un soldo per otto once, pagando la differenza tra il prezzo reale dei grani, non possedeva tesori inesausti, era anzi imbrattata di debiti, e non sapeva dove darsi di capo per aver danari: perché dunque essa potesse mantenere l’impegno, Grida dei 7 dicembre, che obbliga i possessori del riso a venderlo, non brillato, al prezzo di L. 12, a chi avrà ordine dal Tribunale di provvisione. A chi ne vendesse a maggior prezzo pena la perdita del riso, una multa di altrettanto valore e maggior pena pecuniaria, ed anche corporale sino alla galera all’arbitrio di S.E. secondo le qualità dei casi e delle persone. Così si era provveduto all’abbondanza della città. Ma i foresi sono essi pure soggetti alla legge di mangiare per vivere: e giacché le gride tiravano per forza da tutte le parti tanto pane in città, era cosa troppo naturale che i foresi accorressero alla città a provvedersene. Questa cosa naturale, è chiamata un inconveniente dalla grida dei 15 di dicembre, la quale vieta il portar fuori della città pane pel valore di più di venti soldi per volta, sotto pena della perdita del pane, di scudi venticinque, ed in caso d’inabilità, di due tratti di corda in publico, e maggior pena ancora all’arbitrio di S.E. per ogni volta. Ai ventidue dello stesso mese la stessa proibizione fu estesa ai grani ed alle farine.
A questo punto, con nostro rammarico, e forse con un maligno piacere dei lettori, ci mancano ad un tratto gli atti autentici; e tutte le memorie storiche che ci è stato possibile di consultare non hanno più nulla né sul prezzo del pane, né sugli altri regolamenti dell’annona. Fanno soltanto il quadro dello stato del paese in quell’anno 1629, fino al raccolto; ed ecco la copia di quel tristo quadro.
Chiuse o deserte le botteghe, e le officine; gli operaj vaganti per le vie, smunti, scarnati, tendendo la mano ad accattare, o esitando ancora tra il bisogno e la verecondia. Misti agli operaj i contadini venuti alla città, traendo i vecchj e le donne coi fanciulli in collo, e mostrandoli ai passaggeri, e chiedendo che si desse loro da vivere con una querimonia impaziente, con isguardi abbattuti e pur torvi. Misti agli operaj e ai contadini molti di quei bravi, già rilucenti d’arme e spiranti una leziosaggine ardimentosa, ora abbandonati dai loro signori, erravano mezzo coperti d’un resto dei loro abiti sfarzosi, domandando supplichevolmente, e guardando con sospetto per non tendere inavvertentemente la mano disarmata e tremante a tale su cui l’avessero altre volte levata repentina a ferire. Spettacolo che avrebbe rallegrate molte ire, se il sentimento di tutti non fosse stato assorto nella miseria e nel patimento comune.
Nè questi soli, ma di altra varia origine nuovi mendichi confusi coi mendichi di mestiere si aggiravano, o si strascinavano per la città, e nell’abito, e nei modi mostravano indizj dell’antica condizione e della professione che altre volte procuravano loro un vitto certo e a molti agevole. Da per tutto cenci e lezzo; da per tutto un ronzio continuo di voci supplichevoli, come se si fosse camminato in mezzo ad una processione. Qua e là a canto ai muri, sotto le gronde, mucchj di paglia, e di stoppie peste, trite, fetenti, miste d’immondo ciarpame, che avevano servito nella notte come di canile ai mendichi cacciati dalla fame alla città, dove non avevano un asilo da posare il capo. Molti si vedevano rodere con uno sforzo ripugnante erbe, radici, cortecce, che avevano raccolte nei prati, nei boschi, come un viatico fino alla città dove speravano di trovar pure un vitto più umano. Di tratto in tratto alcuno di quegli infelici si vedeva ristare, vacillare, tendere dinanzi a sè le mani aperte come per cercare un appoggio, e cadere; ed erano talora madri coi bamboli in collo. Rari, costernati, in silenzio, raccogliendo gli sguardi a sè, quasi per non vedere, abbassando la fronte come se provassero vergogna di tanta miseria, turandosi le narici giravano fra quella turba coloro che altre volte eran chiamati ricchi, ed ora pure davano invidia perché avevano ancor tanto da preservarsi se non dal disagio, almeno dalla penuria mortale. Altri di essi che poco innanzi passeggiavano con un fasto minaccioso, con un corteggio insolente di spadaccini, ora soletti, in abito negletto e come da corruccio, con gli sguardi depressi, coi volti non avresti saputo dire se storditi o compunti, attraversavano in fretta le vie, e sparivano. Altri esaurito già il contante che avevano destinato al soccorso dei poverelli, vinti dalla crescente misericordia, aprivano di nuovo lo scrigno, intaccavano le scorte riserbate ai loro bisogni, e uscivano; e assaliti da richieste superiori alla liberalità ed alle facoltà loro, guatavano, per discernere tra miseria e miseria, tra angoscia e angoscia quelle a cui era dovuto più pronto il sovvenimento. Appena il muovere della mano manifestava una intenzione di liberalità, una gara tumultuosa e incalzante di grida, di sospinte, di mani levate si faceva intorno a loro; gli estenuati e stupidi dall’inedia pigliavano come una forza istantanea dalla nuova speranza, e si pignevano innanzi con violenza; i più robusti gli rigettavano con furore, alle preghiere alla invocazione dei nomi più santi si mescevano le bestemmie della disperazione; i vecchj rispinti tendevano da lontano le palme scarne; le madri alzavano i fanciulli scolorati, male ravvolti nelle fasce stracciate, e ripiegati per languore nelle loro mani. Quei caritevoli dovevano lasciarsi rapire più tosto che distribuire i soccorsi; e spogliati in un momento di ciò che avevano portato con sè, fra le benedizioni, e le rampogne, rovesciando le tasche vuote, uscivano a stento dalla folla più contristati del male irrimediabile, che soddisfatti del poco bene che avevan potuto fare; e se ne tornavano non avendo più altro da dare in risposta a nuove richieste che un aspetto di commiserazione, un cenno delle mani che esprimeva una buona volontà inutile, una ripulsa dolente.
In mezzo ad una tanta confusione di guaj, e ad una tanta insufficienza d’ajuti, si mostrava però a luogo a luogo un ajuto più generale e più ordinato che annunziava una grande copia di mezzi, e una mano avvezza a profondere con sapienza. Era la mano del nostro Federigo. Oltre le elemosine in vitto e in danaro, ch’egli distribuiva (il Tadino afferma che nel suo palazzo due mila poveri ricevevano ogni giorno una capace scodella di riso) aveva l’ingegnoso compassionatore deputati sei preti che girassero a coppia per pigliar cura dei poveri sfiniti per le vie. Ad ogni coppia aveva assegnato un quartiere della città tripartita; ogni coppia era seguita da facchini che portavano grandi corbe con pane, vino, minestra, uova fresche, brodi stillati, aceto medicato d’aromi. S’accostavano quei preti ai poverelli che giacevano abbandonati sul pavimento, e soccorrevano ad essi secondo il bisogno: a questo esinanito dal digiuno il cibo era il più necessario ed efficace rimedio: quell’altro svenuto per più antica inedia, e già presso al morire, non avrebbe avuto vigore abbastanza per patire né per prendere il cibo; e faceva mestieri di più sottili e potenti ristorativi per richiamarlo alla vita, e rendergli a poco a poco le forze. Quando alcuno d’essi era rinvenuto o riconfortato, uno dei preti gli amministrava i sacramenti, e le consolazioni della religione, quindi guardava intorno a sè per vedere in qual casa del vicinato avrebbe potuto procurargli un ricovero, trovatolo ve lo faceva portare. Se il padrone era dovizioso, il prete in nome del Cardinale lo supplicava che volesse ricettare, collocare in qualche angolo della casa, nutrire quel derelitto che Dio gli mandava; ma quando il languente era portato in una casa, dove non sembrasse che in un tale anno potessero sovrabbondare provvisioni per usi di carità, quivi il prete pregava il padrone a ricogliere e ad ospiziare per prezzo colui che vi era presentato; e sborsava il prezzo generoso anticipatamente. Notava poi il luogo, e tornava a visitare il raccomandato, a curare che nulla gli mancasse; così mentre l’un prete soccorreva i giacenti nella via, l’altro percorreva le case dove erano raccolti quegli altri. La riverenza dell’abito sacerdotale, l’autorità di Federigo come presente a quegli uficj prestati per suo ordine, e la santità degli uficj stessi, contenevano la folla tumultuosa, in modo che quei preti potessero esercitarli tranquillamente e ordinatamente. Era questo per certo un alleggiamento ai pubblici mali, e grande se si consideri che veniva da un solo avere e da una sola volontà, ma rispetto ai bisogni scarso e inadeguato. Intanto che in tre angoli della città alcuni pochi erano levati da terra, e ravvivati, in cento parti cadevano le centinaja, e molti per non esser più rialzati che sulle spalle dei sotterratori. Nè le morti continue diradavano quella folla miserabile, la fame incalzava da tutte le parti del territorio nuova folla alla città; le vie che vi conducono qua e là segnate di cadaveri, brulicavano sempre di nuovi pellegrini che dal piano circostante, dai colli meno vicini, dai monti lontani venivano strascinandosi; diversi d’abito, e di pronunzia, oggetto l’uno all’altro non più di pietà ma di orrore, luridi tutti, ognuno più sbigottito dal trovarsi in mezzo a tanti compagni di disperazione, a tanti rivali d’accatto. Attraverso costoro passavano pure altri non meno luridi pellegrini che fuggivano dalla città, non già sperando di trovare in altra parte più facile sostentamento, ma per morire altrove, per mutare un cielo divenuto odioso, per non veder più quei luoghi dove avevano tanto patito. Così crescendo sempre il numero dei poveri a misura che la popolazione s’andava scemando era trascorso l’inverno e già avanzata la primavera. E quei poveri si andavano sempre più condensando nella città; accorrevano la più parte negli alberghi; e avrebbe dovuto essere bene spietato, ma anche ben sicuro il padrone che negasse loro quella ospitalità: quivi giacevano le notti ammucchiati su la paglia, sul letame: le case, le vie si riempivano di malati, di cadaveri, di cenci, e di puzzo: dimodoché si cominciò a temere che alla fame tenesse dietro la contagione. Il tribunale della Sanità instava presso quello della Provvisione perché si antivenisse questa nuova sciagura; e proponeva che seguendo l’esempio e dilatando l’opera di Federigo, raccolto tutto ciò che poteva esser destinato al pubblico soccorso, si distribuisse nutrimento a quelli che ne mancavano, e gl’infermi si raccogliessero, e si collocassero in diversi ospizj per rendere più facile il servizio, e per evitare i pericoli di una troppo grande riunione. Ma nella Provvisione prevalse il partito di raccattare tutti gli accattoni validi e infermi nella fabbrica del Lazzeretto.
I medici conservatori del Tribunale della Sanità, protestarono contra questo disegno, allegando che in una tanta turba ammassata in un luogo e costretta in picciole stanze l’epidemia sarebbe stata inevitabile; ma alle proteste non si diede retta, come afferma il Tadino uno di quei medici. E se vogliamo credergli in tutto, la cagione principale di far prevalere quel partito fu il desiderio di servire ad un interesse privato, o a quello che alcuni privati credevano il loro interesse. Erano nel Lazzeretto deposte molte merci venute da paesi sospetti di peste, e si ritenevano quivi per le purghe e per le prove; coloro a cui quelle merci appartenevano brigarono perché il Lazzeretto fosse destinato ad un altro uso, e con questo pretesto le merci fossero loro rilasciate: e furono esauditi.
Il Lazzeretto (se mai questa storia venisse alle mani di chi non sia mai stato a Milano) è una fabbrica quasi quadrata: i due lati maggiori tirano a un di presso cinquecento passi andanti; gli altri due poco meno; un fossato scorre e volta intorno all’edificio: ogni lato ha nel mezzo una porta, e un ponte sul fossato: tutti i lati dell’edificio nella parte rivolta al di fuori sono divisi in camerette, che sono in tutto 296: nell’interno gira per tre lati un porticato: lo spazio interiore è sgombro; fuorché nel mezzo, dove sorge un tempietto ottangolare. All’aprirsi dell’estate il Lazzeretto fu sgombro dalle merci, disposto pel nuovo uso, ed aperto ai mendicanti. Da principio vi accorsero volonterosi i più famelici e desolati: ma altri, che dal trovarsi in più picciol numero ad accattare speravano più frequenti soccorsi, e ai quali ad ogni modo era meno amaro lo stentare in libertà che campacchiare rinchiusi, non risposero all’invito. Dall’invito, come è l’uso, si venne alla forza, si mandarono birri che agguatassero chi mendicava, e chi dall’aspetto appariva un pezzente, lo legassero pel suo migliore, e lo trasportassero a forza al Lazzeretto: e per ognuna di queste prede era stato assegnato al predatore una ricompensa di dieci soldi: tanto è vero che anche nelle più grandi strettezze non mancano mai danari per fare delle minchionerie. In poco tempo il Lazzeretto tra volontarj e sforzati rinchiuse poco meno di dieci mila poverelli, d’ogni età, e d’ogni sesso, della città, del contado, di più lontane regioni; uomini che avevano passata la loro vita in una operosa semplicità; e scherani pasciuti in una scioperaggine facinorosa; donne, fanciulle, giovanetti nutriti nella verecondia e nella inesperienza del tugurio, dei campi, della officina domestica, nelle consuetudini della pietà; altri fino dall’infanzia disciplinati nella scola del trivio, all’accatto, alla ruba, alla buffoneria, alla truffa, al dileggio; non sapendo né ricordandosi di Dio, se non quel tanto ch’era necessario per bestemmiare il suo nome. Si trattava di allogare, di alimentare, e di contenere con una eguale disciplina un raccozzamento così numeroso di tali e d’altri più diversi e moltiplici elementi; e la cosa sarebbe riuscita ottimamente, se la buona intenzione, lo zelo, e l’affaccendamento di alcuni potessero bastare ad ogni impresa.
Il numero dei ragunati nel Lazzeretto fece che fossero stivati a venti a trenta per ogni cella, ove si giacevano prostrati come bestie, dice il Tadino, sopra una paglia imputridita. Il pane che si distribuiva ad essi avrebbe dovuto, secondo gli ordini della Provvisione esser buono; perché quale amministratore ha mai ordinato che si faccia e si distribuisca pane cattivo? Ma si tenne da tutti che quel pane fosse adulterato con sostanze insalubri, non nutritive; cosa più che probabile in tanta scarsezza; e con tanta difficoltà d’invigilare.
Quanto al governo di quella brigata, v’erano pure ordini perché ognuno si contenesse con modestia, si lasciassero i vizj, e l’ozio che ne è il padre, perché quegli che potevano esercitassero quivi l’arte loro, e gli altri almeno non mettessero scompiglio. A malgrado però degli ordini, mirabil cosa! coloro che erano stati vagabondi prima d’entrare nel Lazzeretto, vagabondavano quivi come potevano; e attendevano a molestare gli occupati: quegli che v’erano stati cacciati a forza riempivano tutto di querele, di bestemmie, di tumulto. In somma l’angustia, la sporcizia, la caldura, il cibo malsano, le acque stagnanti, la noja, l’accoramento, il furore, la sfrenatezza d’ogni genere fecero ivi tanto sperpero, che in poco tempo la mortalità si manifestò più grande fra quei poveri a cui si era così provveduto che non fosse stata nei dispersi e abbandonati. In alcuni giorni il numero dei morti in alcune camerette oltrepassò la decina.
Il Tribunale della sanità rimostrava, indefessamente, tutta la città mormorava, la confusione e la strage cresceva ogni giorno, la cosa era divenuta insopportabile a quelli che la facevano, a quelli per cui era fatta, i deputati non avevan più testa; si tenne consulta, e il partito il più savio, il più ovvio, il partito indeclinabile parve a tutti di disfare ciò che s’era fatto con tanta fiducia e con tanto apparato; il Lazzeretto fu aperto, e i poveri lasciati all’antica licenza di errare mendicando. S’affoltarono ai cancelli con un tripudio iracondo; una gioja furente e spensierata si dipingeva come a forza in quegli sguardi foschi e mezzo estinti, su quei tratti indurati nella espressione del dolore: il sentimento della libertà racquistata suppliva in quel primo momento a tutte le speranze, a tutti i bisogni.
La città tornò a risuonare dell’antico clamore, ma più interrotto e più fievole; rivide quella turba più rada, ma più ancora miserevole, più sformata, più orrenda per la diminuzione stessa; la quale faceva risovvenire ad ogni pensiero che dei tanti scomparsi nessuno era uscito da quella gramezza che per la morte.
Questo fu nell’estate: il raccolto venne finalmente a salvare coloro nei quali l’inedia non era degenerata in morbo incurabile; la mortalità si andò a poco a poco scemando; quegli che erano stati sospinti dalle necessità al mendicare ritornarono alle antiche loro occupazioni.
Si cominciava a respirare, e i mali già consumati nel passato divenivano un soggetto di commemorazione e di trattenimento, grave sì ma non senza qualche dolcezza pel pensiero di averli varcati, non senza qualche fiducia di miglior tempo, parendo agli uomini di avere esauriti in breve spazio i patimenti che avrebbero dovuto diffondersi in una lunga durata, di aver quasi pagata una gran parte di tributo anticipato alla sventura; quando nuovi mali richiamarono sul presente l’attenzione e il terrore di tutti.
Non la guerra propriamente detta, ma un passaggio di truppe, più funesto agli abitanti che nessuna guerra più accanita, desolò una parte del Milanese; e condusse la peste dalla quale nessun angolo di quel paese fu salvo.
Ci conviene ora accennare brevemente le origini di tanta rovina. Vincenzo I Gonzaga duca di Mantova era morto nel 1612, lasciando tre figli. Il primo Francesco morì nello stesso anno, e non rimase di lui che una figlia per nome Maria; Ferdinando che dopo di lui tenne lo stato morì senza prole legittima nel 1626; Vincenzo II l’ultimo dei fratelli gli succedette in età di 32 anni già consumato dagli stravizzj, senza speranza di prole, e manifestamente vicino al sepolcro. Già molte ambizioni, molte cupidigie, molti sospetti stavano all’erta aspettando ch’egli vi scendesse. Ma egli aveva instituito erede per testamento Carlo Gonzaga Duca di Nevers, del resto suo parente il più prossimo. E per assicurare l’effetto di questa disposizione, aveva segretamente fatto scrivere al Nevers che mandasse a Mantova il figlio, pur egli Carlo Duca di Rethel affinché al momento che il Ducato verrebbe a vacare, potesse pigliarne il possesso in nome del padre. Ma oltre il Ducato di Mantova, dalla successione del quale erano per investitura escluse le femine, Vincenzo lasciava pur quello del Monferrato, al quale, pel complicato, confuso, incerto, variamente applicabile diritto pubblico d’allora, Maria, nipote di Vincenzo poteva aver qualche ragione. Per togliere ogni soggetto ed ogni pretesto di dissensioni, pensò il Duca Vincenzo, o chi pensava per lui, a dare quella Maria in moglie al Duca di Rethel che aveva fatto chiamare. L’aspettato giovane arrivò che il Duca Vincenzo era agli estremi: le nozze che questi aveva proposto si fecero nella notte dopo il 25 Dicembre 1628, mentre egli moriva.
La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del teatro; ma danno sovente principio alle tragedie e alle commedie della vita reale. Al mattino lo sposo comparve in grande abito da lutto, assunse il titolo di Principe di Mantova, e padrone delle armi e della Cittadella, fu senza difficoltà riconosciuto dagli abitanti. Ma v’era altri a questo mondo che avevano qualche cosa da dire in quella faccenda.
Luigi XIII re di Francia, o per dir meglio il Cardinale di Richelieu sosteneva il Nevers, uomo d’origine italiana, ma nato francese; anzi aveva egli il cardinale, per mezzo di legati avuta gran parte nel testamento del Duca Vincenzo.
Don Filippo IV, o per dir meglio il Duca d’Olivares, non poteva patire che un principe francese venisse a stabilirsi in Italia, e sosteneva le pretensioni di Don Ferrante Gonzaga parente più lontano del Duca Vincenzo.
Carlo Emmanuele Duca di Savoja aveva pure antiche pretensioni sul Monferrato; i Veneziani ai quali dava ombra la grande potenza spagnuola in Italia favorivano il Duca di Rethel ma con trattati, con promesse e con minacce; e Urbano VIII inclinato a quel Duca e sopra tutto alla pace, ajutava come poteva queste due cause con raccomandazioni, e con proposte di accomodamenti.
Finalmente l’imperatore Ferdinando II pretendeva che il Duca di Nevers erede trasversale, non aveva potuto senza il suo consenso impossessarsi di feudi dell’impero la successione ai quali era rivendicata da altri. Richiedeva quindi che il possesso degli stati fosse depositato presso di lui, finch’egli gli aggiudicasse per sentenza, e citò il Duca di Nevers con tutte le formalità allora in uso. V’erano poi altre pretensioni secondarie e più intralciate che passiamo sotto silenzio per non annojare il lettore, il quale comincia forse a mormorare; e certamente non saprà abbastanza apprezzare la fatica che facciamo per ristringere in brevi parole tutta questa parte di storia.
Il Duca d’Olivares, istigato continuamente dal Cordova governatore di Milano, strinse un trattato col Duca di Savoja contra il novello Duca di Mantova. Questi si pose sulla difesa, si venne alle mani, Carlo Emmanuele invase il Monferrato, e Cordova pose l’assedio a Casale. Il Duca di Mantova stretto da due nemici potenti invocava gli amici; ma i Veneziani non volevano muoversi se il re di Francia non mandava un esercito in Italia, e il re di Francia o il Card. di Richelieu, era impegnato nell’assedio della Rocella. Presa questa, parati o vinti certi intrighi imbrogliatissimi di Corte, il re e il cardinale s’affacciarono all’Italia con un esercito, chiesero il passo al Duca di Savoja; si trattò, non si conchiuse, si venne alle mani, i Francesi superarono, e acquistarono terreno, si trattò di nuovo, il passo fu accordato, il re e il Cardinale s’avanzarono, trassero agli accordi il Cordova spaventato, gli fecero levare l’assedio di Casale, vi posero guernigione francese, e tornarono a casa trionfanti, e accompagnati da due sonetti dell’Achillini. Il primo, quello che comincia col famoso verso:
Sudate o fochi a preparar metalli,
è tutto di lode; l’altro è di consiglio; perché la poesia ha sempre avuto questo nobile privilegio di ravvolgere avvisi sapientissimi, e insegnamenti reconditi negli idoli lusinghieri della fantasia, e nella magica armonia dei numeri.
L’Achillini consigliava il re di Francia vincitore della Rocella e liberatore di Casale di tentare l’impresa del Santo Sepolcro, né più né meno. Però il Cardinale di Richelieu non ne fece nulla: convien dire che avesse altro in testa.
Ma i Veneziani che allo scendere dei Francesi, s’erano dichiarati e mossi, istavano per legati e per lettere presso il Cardinale perché l’esercito da lui condotto non tornasse indietro, e adducevano mille ragioni per provare che non era da far conto su quei trattati; ma il Cardinale badò alla prosa dei Veneziani come ai versi dell’Achillini. La guerra continuò infatti contra il Duca di Mantova. Questi aveva fatte e andava facendo tutte le sommessioni immaginabili all’imperatore affine di placarlo, e di piegarlo ad accordargli l’investitura. Ma Ferdinando stava fermo in esigere che i Ducati fossero a lui ceduti in deposito; e irritato dalle ripulse del duca più che ammansato dalle sue riverenze; irritato di più dell’aver questi domandato il soccorso francese, stimolato dalla corte di Madrid, si dichiarò anch’egli nemico del Duca di Mantova.
L’esercito Alemanno di circa trentasei mila uomini, ragunato sotto il comando del Conte di Colalto, ebbe ordine di portarsi all’impresa di Mantova: la vanguardia che già da qualche tempo aveva occupato ostilmente il paese de’ Grigioni, si diffuse per la Valtellina, e ai 20 di settembre entrò nello Stato di Milano.
La milizia a quei tempi era ancora in molte parti d’Europa composta in gran parte di venturieri che si ponevano al soldo di condottieri di professione, i quali andavano poi coi loro drappelli al servizio di questo o di quel principe. Oltre le paghe sulle quali non era da fare assegnamento certo, quello che determinava gli uomini ad arruolarsi era la speranza del saccheggio e tutte le vaghezze della licenza. Disciplina generale non v’era in un esercito, né avrebbe potuto conciliarsi con le varie autorità private dei condottieri: e questi, prima di tutto non si curavano di mantenere una disciplina particolare nei loro reggimenti, perché non avevano per questa parte responsabilità verso nessuno; e quand’anche alcuno di essi a cose pari avesse pur desiderato di contenere i suoi soldati in un qualche rispetto per le proprietà e per le persone degli abitanti, questo disegno sarebbe stato per lo più o contrario ai suoi interessi, o superiore alle sue forze. Perché soldati di quella sorte o si sarebbero rivoltati, o avrebbero tosto deserte le bandiere di un comandante nemico della violenza e del saccheggio. Oltre di che siccome i principi nel comperare i soldati pensavano più ad averne in gran numero per assicurare le imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, la quale era ordinariamente molto scarsa, così le paghe erano per lo più ritardate e mancanti; e le spoglie dei paesi dove passava l’esercito divenivano come un supplemento tacitamente convenuto degli stipendj. Quindi i soldati di quel tempo e per le tendenze che gli avevano tratti a scegliere quella professione, e per le abitudini di essa erano come una collezione di tutte le nequizie che può dare la natura umana nel suo maggior grado di pervertimento. Ma quelli che allora scendevano nel Milanese erano poi il più bel fiore di quella farina; erano in gran parte gli stessi che guidati dall’atroce Wallenstein avevano poco prima desolata la Germania, in quelle guerre, tanto impropriamente chiamate di religione, poiché queste stesse masnade che avevano combattuto per la parte che pretestava di sostenere la religione cattolica erano composte in parte di Luterani.
L’annunzio della venuta di costoro portò il terrore nei distretti per dove avevano a passare: nelle altre parti si diceva: «povera gente! stanno freschi: chi sa come gli acconciano coloro! vedrete che non lasceranno loro altro che gli occhi per piangere; sia lodato Dio che non passeranno per di qua». Ma chi sapeva che quell’esercito portava la peste con sè, e l’aveva già disseminata nei luoghi dove aveva stanziato, sentiva qualche cosa di più che una fredda pietà per altrui. La maggior parte però degli abitanti del Milanese o non lo voleva credere, o non se ne curava, o con quella fiducia senza motivi così strana, e così comune, diceva: «Poh! che ha da venire la peste da noi?»
Colico sulle rive del lago di Como presso alla foce dell’Adda, fu la prima terra che toccarono quei demonj; e, dopo d’averla messa a sacco l’arsero addirittura, se per rabbia di non avervi trovato abbastanza bottino, o pel diletto di fare una baldoria, non si sa. Di là, senza curarsi d’itinerario né di poste assegnate, ma guardando solo dove fosse più da sperarsi bottino, si gettarono sopra Bellano, lieto paese sulle falde d’un monte e alla riva del lago. Gli abitanti ammoniti dall’esempio recente e dalla prossima ruina avevano o nascoste sotterra, o trasportate in fretta sui monti le cose più preziose, e le più facili a trasportarsi; e molti di essi s’erano appiattati lassù, abbandonando le case. Con tanto più di furore v’entrarono quelle masnade, e delle cose lasciate, presero tutto ciò che poteva loro servire e sperperarono ed arsero il resto, mobili, botti, travi. Quegli che erano rimasti colla speranza di preservare i loro averi, ne videro la distruzione, videro l’abominevole sfrenatezza, e per sopra più soggiacquero agli strapazzi, alle percosse e alle ferite. Nè i campi all’intorno furono risparmiati; la vendemmia, somma speranza dei terrazzani in quell’anno calamitoso sparve in un momento, coll’uve furono sterpate le viti, gli alberi abbattuti col frutto, molti casali incendiati. Appena cessavano di farsi udire le trombe che avevan sonata la partenza d’un reggimento, un nuovo squillo dall’altra parte annunziava terribilmente l’arrivo di altra simile, anzi peggiore brigata. I sopravvegnenti, trovando la distruzione dove avrebbero voluto portarla, si vendicavano su le cose e su le persone che capitavano loro alle mani, come di un furto che fosse stato loro fatto: e tanta cupidigia frustrata tornava tutta in furore. Qualche memoria del guasto di quel paese ci rimane in alcune lettere di Sigismondo Boldoni scrittore riputatissimo ai suoi tempi, e che forse avrebbe acquistato un nome più esteso e più autorevole anche presso ai posteri se non fosse morto all’uscire della giovinezza, e sopra tutto se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo, in cui fosse stato possibile concepire nuove idee d’una precisione e d’una importanza perpetua, e per esporle, trovare quello stile che vive. Questi sulle prime non aveva voluto fuggire, e parte cercando di avere ad alloggio ufiziali, parte chiamando soccorso di soldati italiani ivi stanziati era venuto a capo di preservare la sua casa, e di difenderla poi quando fu minacciata: e racconta agli amici i suoi pericoli, e gli altrui disastri. V’è pure in una di quelle sue lettere un tratto singolare che merita d’esser ricordato. Il tenente del colonnello Merode, il cui reggimento era venuto pel primo, entrato nel giardino di Sigismondo, accennò un boschetto, e domandò che razza di piante fossero quelle, e che frutto portassero. — Ahi barbaro! — pensò il Boldoni: — non conosce l’alloro, — e conchiuse fra sè che da tal gente non era da sperarsi misericordia.
Desolato quel territorio, le feroci locuste si gettarono nella Valsassina. È un gruppo di montagne e di valli, paese poco visitato dal sole, intersecato da torrenti, petroso e selvatico negli accessi, ma per entro rivestito in gran parte di ricchi pascoli, e più fertile che non l’annunzi il suo nome: ha varie terre, quale sul pendio, quale nel fondo a luogo a luogo assai vasto perché si possa chiamarlo pianura: e sur alcuni monti più erbosi sono sparse bianche e picciole casette, che da lontano raffigurano quasi un gregge sbandato al pascolo. Non vi mancavano possessori agiati, ma la più parte degli abitanti erano e sono tuttavia mandriani i quali vi dimorano nelle stagioni più miti, e passano al piano i mesi più rigidi. La fama spaventosa della sorte di Bellano precedeva le truppe, e i valligiani s’erano presso che tutti rifuggiti sulle somme alture lasciando deposte sotterra presso le case le loro ricchezze, e cacciando dinanzi a sè le mandrie che sono la principale. Ma i saccheggiatori, ai quali non bastava quello che era stato loro abbandonato e a cui le arti di preservazione degli abitanti avevano suggerite nuove arti di offesa e di depredazione, si diedero a rintracciarli. Quelli che erano stati più lenti a fuggire, o che furono sorpresi nei loro nascondigli, strascinati giù pei greppi a minacce, a percosse, ricondotti nei villaggi, erano quivi sottoposti alle torture, che può inventare la cupidigia più crudele, perché rivelassero i tesori nascosti. Due passioni ben diverse, ma egualmente potenti, l’avidità e il terrore supplivano alle convenzioni del linguaggio, e si spiegavano fra di loro in un rapido e terribile dialogo. I gemiti, le voci supplichevoli, le mani giunte al petto, o stese al cielo non impetravano che nuovi strazj: l’infelice che si prostrava ad abbracciare le ginocchia dei suoi oppressori, era rialzato a forza di percosse. Colui che aveva riposto sotterra o danaro o suppellettile, o a cui il vicino per far pompa di previdenza e di sicurezza nei suoi ripieghi aveva confidato il luogo del suo deposito, si stimava felice di avere con che acchetare quella perversità; accennava premurosamente, con aria di sommessa e quasi amichevole intelligenza ai soldati che lo seguissero, e mostrava loro la terra di recente smossa, o l’armadio murato di fresco; e cercava di sguizzare fra mezzo i saccheggiatori che ciechi per ingordigia si gettavano a gara sulla preda.
Dalla Valsassina il temporale discese nel territorio di Lecco.