Fede e bellezza/Libro secondo
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Ad esprimere quel che Giovanni sentisse fra il dir di Maria, ogni parola era poco. Perché le parole significano alla meglio i sentimenti a uno a uno; non il complesso loro, il contrasto: e in quel complesso è la vita, in quel contrasto il mistero dell’anima. Ond’egli taceva: e con gli occhi intenti e pur timidi, con la fronte serena e dimessa, intendeva rispondere alla donna; che, incerta di sé (come i buoni, e gli erranti non tristi sogliono, come suole chi comincia ad amare davvero), traeva quel silenzio a senso di disistima, e si tormentava dentro, ma senza pentirsi dell’avere parlato. Più volte fu lì lì per aprire la bocca, e o ragionare di tutt’altra cosa, o riandar sulle dette: ma l’istinto di donna, e l’abito del crucciarsi in cuore senza parola, la tenne. Alla fine e’ cominciò:
"S’i’ avessi a dirvi la mia vita, o Maria, trovereste men dolori e più colpe, meno passioni e più vizi; germi di virtù soffocati, affetti generosi trarotti: ma sotto a questi quasi frammenti di vita vedreste un sentimento continovo, che, quieto, invincibile, mi solleva al mio fine. Una sottile e ampia tela m’aveva data a lavorare Iddio, trapunta d’ardito e gentile disegno: io la insudiciai, la stracciai; e, là dov’era intatta, la colorii d’imagini invereconde; e, quasi a mia condanna, ad esse intramischiai qualche forma delicata, delineatami in cuore dalla mano degli Angeli. Un po’ del mio bene, e un po’ del male (ma di questo più poco) affidai a un giornaluccio, tenuto a sbalzi, dal trentuno al trentacinque, dal ventotto al trentadue di mia vita. Lo leggerete: il resto confesserò di viva voce, quando il cuore (ch’ha i suoi giorni anch’egli) lo soffra o comandi. Leggerete senza disprezzo, io spero, Maria. Chi patì, compatisce".
Due giorni dopo ell’ebbe il quaderno, e lesse:
1831, Milano. L’Epifania.
Ero a Padova: dal prato della Valle ammiravo, di là delle aperte finestre d’un vecchio palazzo, le calde tinte del sole occidente nell’aria estiva: e in quella prima impressione di queta voluttà cominciò la natura a rivelarsi a me giovanetto. Chi m’avesse detto che in quel palazzo i’ sarei dimorato: e che, passando da quella sala che m’era quasi traguardo a vagheggiare il cielo, i’ non avrei più sentito quel che da lontano sentii! E che dalle finestre vicine alle mie si sarebbe volto a me il primo sguardo d’amore, non chiesto, non noto; e che la giovanetta desiosa avrebbe a me, ancor bambino dell’anima, mandato con una viola in dono se stessa! E ch’io quel fiore lascerei languire sul mio caminetto, e ritormelo! Virtù non era, non innocenza la semplicità mia; era un de’ tanti misteri dell’annebbiata mia vita. E ora, tagliato il viso dal vento frizzante del verno, veggo il rosseggiare modesto di quel cielo estivo e quel fiore; ricerco, rimedito la fanciulla smarrita. Poi penso: ma se quel fiore accettato, e l’amore concesso, mi fossero stati ritolti poi? Che dolore in quegli anni vogliosi e gracili! E Dio me l’ha risparmiato: e in cambio di un diletto volgare che, forse non compreso, forse trovato minor dell’idea, m’avrebbe addolorato e corrotto, mi lasciò la memoria pura d’un lieto occaso, d’una cortese giovanetta, e d’un fiore.
Crema.
Uomo forse non visse più ricco ad amici, di me. Non parlo delle amistanze del mondo, né delle famigliarità tra ceremoniose e amorevoli, né delle benevolenze tiepide e inerti, né di quella stima confidente che dall’affetto incomincia e mette ad esso: parlo dell’amicizia tenera, ardente, pensata, pietosa. A me nell’adolescenza e nella gioventù prima, l’amicizia era simpatia prepotente; e mi faceva piacere o il pallore o il rossore d’un viso, o il suon di voce non nota, o il fanciullo la cui compagnia mi fosse interdetta. E il senso in sul primo confondeva la roca sua voce al gemito indistinto del cuore; e quei desideri, tra timidi e baldi, e, quasi serpe, ravviluppati in se stessi, m’aiutarono a indovinare molti tristi secreti. Rammento ancora il sito, il punto de’ luoghi dove que’ giovanetti commossero l’anima mia; rammento la verdura de’ campi passeggiata con essi. Parecchi già morti!
Bergamo.
Calunniare una donna, e per vanità! Altri lo fanno maturi, e se ne lavan la bocca: io a diciassett’anni, e negli orecchi d’un solo. Non rinnovai più, che una volta a vent’anni, questo vile peccato: né allora ne sentivo la crudeltà e la stoltezza. Ella sì tenera del marito, e sì pia! Sensualmente s’amavano, ed eran pii. Troppi pensieri di lei s’aggiravano intorno alla persona propria, giovane e desiderata; ma quand’ella pregava, non pensava che a Dio. Calunniarla! Favoleggiare a lungo il disonor suo!
Brescia.
Strano che l’uomo debba in quasi ogni cosa parere o migliore o peggiore di quel ch’egli è. E io peggiore, se ci metto punto del mio. A diciott’anni scrissi:
- E il bello intero dell’auguste membra.
A ventiquattro recitando questa cosetta a un poeta vero, dimenticato il mio verso, mi venne detto:
- E dal candor delle divine membra:'
roba foscolesca e pagana e carnale; dove l’altro più giovane era spiritualissimo, e mio.
La luna rosseggiante al basso, candida in su, stendeva sul mare commosso da un principio di vento, la sua colonna di luce lunga più miglia: una stella solitaria spuntava timida nel sereno, come sposa che prega in tempio deserto; poi una, poi una, qua e là rade per l’immenso. Un rusignolo sospira tra gli alberi irradiati dalla luna; un altro di lontano risponde: l’un canto s’accorda e si discerne nell’altro, come colori simili di varia tinta. Il cielo or mi pare innamorato specchiarsi in quest’atomo, or quasi mano immensa che minacci serrarsi e schiacciare la terra.
Verona.
Quando penso a tre o quattro azionacce della mia gioventù, n’ho paurosa vergogna: e conforto unico mi è il credere che l’anima umana, or in male or in bene, s’immuti di pianta. Tale che nel pieno delle sue facoltà sarà buono, nel crescere, ad ora ad ora, par tristo: fanciulla malata a quattordici anni; indonnita, imbellisce.
Penso a una povera serva contadina, ch’i’ ho fatta cacciare di casa nostra, perché onesta meco. Meco e con tutti. Le forme e l’andare già matronali, e pur di vergine: gli occhi soavi, delicata la voce, l’anima lieta. I miei che le sapean grado del contegno suo meco, credettero poterla tenere in casa, e nasconderla a me giovanetto. Me n’avvidi; richiesi, o lei fuora o me. I miei temendo dell’umor mio vagabondo, la congedarono con rammarico grande. La si partì lagrimando. Odo tuttavia la sua voce modesta dappiè della scala piangere addio: e quando penso alla mia patrizia freddezza in quel punto, sento che non ho diritto di condannare veruna delle più dispregevoli umane malvagità.
Servire altrove non volle: ma noi serviva di fuori in più duri servigi. Un giorno, nell’alzare un peso maggior delle grandi sue forze, e’ le cascò addosso, e le ruppe il fil delle reni. Gli è come se di mia mano l’avessi fracassata io. Forse ne’ suoi dolori, ella ripensa a me sua rovina, imprecando. Quali ambasce potranno espiare sì vile delitto?
La vidi poi patita, e bella tuttavia: moglie e madre. Per amore de’ miei la mi salutava con rispetto amorevole: e forse la m’avrà perdonato.
Ella mi vide partire di casa mia (l’ultima volta: da quel giorno più non rividi mia madre); e vide un’altra giovane serva di casa farmi le sue dipartenze piangendo: ed ella m’osservava fredda e severa. Quello sguardo, che valse per molti rimproveri, mi rimarrà memorabile.
Noi scrivacchianti vantiamo, e ci crediam forse, d’avere il cuor buono, perché abbiam piagnona la penna. Non c’è gente più grossolana della gente sensibile: non badano che a se stessi. Dopo straziato per vezzo il cuore altrui, quand’e’ sentono scalfitto il proprio, belano. Mi par di vedere una baronessa attempata che, mostrando le sue bellezze, si fa scarrozzare di galoppo per le vie fitte di gente, e desta il desiderio d’un collegiale, l’invidia d’una mercante, il sogghigno d’una marchesa; fa fuggire i bambini, spaventa le donne, rompe le gambe ad un vecchio; poi torna a casa per piangere con misericordia molta un suo canino morto d’indigestione di chicche.
Duomo di Pisa.
In questo tempio mi giova imaginare un concilio tenuto da uomini somiglianti a te (pari, è impossibile), o gloria eterna d’Italia, Tommaso d’Aquino. Quante rimembranze, quante bellezze qui entro disposte, fitte, ammontate! La memoria e l’occhio confusi corrono or su questa, or su quella; il pensiero le accoglie con gioia: ma la gioia, come liquore in vaso non sano, infortisce in dolore. Oh maraviglie dell’arti e della fede, quanto pochi v’intendono! Ma fosse un solo, quel solo è l’erede e il trasmettitore di feconda ricchezza. Dalle colonne, dagli archi, dagli altari, dalle statue, da’ dipinti, dalle tombe, si spande, come di molti e possenti strumenti, piena, pacata armonia. Ed eran pure guerrieri forti coloro che ispirarono e fecero così miti bellezze. Da tutti gli angoli della terra accorrete, o voi quanti amate le cose grandi, innanzi che questo tempio rovini scalzato dai peccati degli uomini. Appena di mirarlo siam degni. E io temo a ogni tratto ch’e’ non dispaia. Oh potess’io in questo tempio, comunicatomi all’Amico mio, in un sospiro di possente interceditrice speranza, morire!
Prato.
Molti si dolgono che il cuor loro non è bene inteso. Voglion dire, adulato. Che importa essere intesi? Ci si guadagnerebbe egli sempre? Meglio sovente non essere.
Allora, quand’altri v’indovina a mezzo, la gioia è più viva perché non solita. E chi, indovinandovi, v’abbellisce; e il comento talvolta è meglio del testo. Poi il dubbio di non esser bene intesi fa studiare il modo più acconcio, ed è scuola al cuore e all’ingegno. Per me, le donne ch’io desiderai mi capissero, m’hanno quasi sempre capito. Fin troppo. Il difficile a questo mondo non è già essere conosciuto; è conoscere. Non degnate d’un guardo gli altri; e pretendete che gli altri si cavino gli occhi a studiare in voi.
Firenze. 1832.
Più lungo lo scandalo del peccato: ma anche il peccato ben lungo! Non fu merito, fu miracolo di quell’Amore che sì dolcemente fa forza all’anima umana, s’io vissi puro tre anni accanto a donna non mia, e già appropriatami, e sempre affettuosa, e benemerita della vita e dell’ingegno e dell’animo mio. Ella li esercitò al modo suo; ben altro da quel delle scuole e de’ libri: e me mondò della buccia letteraria che mi rendeva aspro ad altri e a me stesso: mi insegnò ad onorare il popolo in atti e in parole com’io l’amavo ne’ chiusi pensieri. Ma dir poche cose di lei mi pare ingiustizia, e tutte non posso. Meglio tacerne.
Ell’era marchesa: prosa mal verseggiata. E aveva, quanto a prosa è lecito, amato d’amore; e me adesso diceva somigliante all’amor suo già morto. Una donna le era accanto men ricca di memorie gentilizie e amorose, e di debiti e di parole; che più mi piacque, a cui meglio piacqui.
Luglio. Padova.
Su questo tempo, anni sono, i’ bruciavo. Una donna, passata i trentatré, ma pur bella, s’intendeva molto materialmente in me giovanetto che molto spiritualmente l’andavo considerando: e non m’accorgevo de’ suoi consumati ma pure schietti artifizi, né discernevo le tenerezze ch’ella mi scoccava tratte da’ libri, e volevo a forza adorarla com’angelo: e lei che prima posava la sua sulla mia mano, e mi si abbandonava in provocatrici attitudini, non capivo e con lunghissimi abbracciamenti, a me quasi puri, ferocemente la tormentavo e la rimandavo delusa, ma non disperata di vincermi, e maledicente in cuore i letterati matterugi e le meteore platoniche. Io, distaccatomi da quegli amplessi, me n’andavo a leggere Bartolomeo frate da san Concordio, e notare i suoi modi, e inzepparli nella mia prosa amorosa. Della qual prosa amorosa leggevo all’idolo mio qualcosa.
E pure il frate pisano e la padovana non soddisfatta, poterono sul mio stile: qual più, non saprei. Né a tuffarmi a gola nel pantano, avrei tanto imparato né di stile né d’amore quanto a tenermene fuori, per semplicioneria, non per merito. Molte volte poscia richiamai quegli amplessi, e li rinsudiciai col pensiero. Dunque tutte le gioie ch’io provai sul primo sì calde, erano sogni di fanciullo inesperto? E tutti i dolori ch’ebbi da lei delusa e uggita di me, io non n’ho indovinato il mistero se non anni e anni dopo passati? Povero cuore dell’uomo, di che tante volte gioisce, di che sospira!
Il teatro dov’io la sapevo, la imaginavo, era un tempio per me. Di lei sola vivevo.
Non l’ho più riveduta: meglio. Ma nell’idea la riveggo qual era, grande la persona, e le forme in pieno rilievo: ignude le braccia bellissime, e sul collo ignudo una pezzolina non distesa ma attorta, illecebra di pudore: e il sorriso intendente, e modesta la voce; e candida tutta: ma il viso tinto d’un timido rosseggiar di viola, raggio della bellezza che lenta e a malincuore tramonta da un corpo ancor pieno di lei.
Sett’anni quasi, intorbidati da brighe letterarie, pure a me d’odio, non di disprezzo! Oh disprezzare è ben più acerbo dell’essere disprezzato. E fin nell’abbaruffarmi, amai; ma d’amore ombroso, immite; battagliai, il più per difendere persone a me care; ma meglio era abbracciarle nell’anima vereconda, e tacere.
- Qui sapit, in tacito gaudeat ille sinu.
Vero non pur dell’amore, ma e d’ogni gioia.
Baia presso Lussino. 1833.
La spiaggia pietrosa e deserta, e senza il concento dell’onde; i poggi erti senza grandezza, senz’orrore disameni: barchetti fradici di pesci saltellanti, e orridi delle branche tenaci delle ariuste ammontate: bonaccia torba, pioggia tediosa. Oh potessi ora, superando quel sentiero tristo, giunto in cima, vedere non la terricciuola di Lussino, ma, seduta nella ricca pianura, te, madre d’anime sincere, Milano! E scendere nell’ampie tue vie, e rivedere gli aspetti noti; e ragionando rifare il passato, e domandare e rispondere e fare scuse.
Scuse a te, buona, che, non badata, mi amasti. Altri amori forse, e più caldi e non più lieti, hanno esercitata nei più giovani anni la vita tua: ed eri schiva, e fredda a studio, e quasi velata nel cuore, quand’io ti conobbi. A poco a poco venisti: e le parole mie ch’erano di pietà, a te sonarono non so che più forte, o anima desiderosa e romita. Né mai mi sorse pensiero che a pochi passi da me forse era una moglie amorosa, forse la pace della vita mia: ho io mai pensato a aver pace?
Vistomi in casa freddo, provò fuori; e cercava rincontrarmi per vie che sapeva a me solite: ma io, orbo e distratto, non m’avvedevo di lei. Un giorno parlando co’ miei pensieri, sorrisi; ed ella passava, e la vidi, che quel sorriso credendo di scherno, si cambiò tutta. Non mi disamò pertanto: ma ridivenne schiva e fredda a studio, e si raccolse più alto nella vergine solitudine del cuore vedovato.
Che vita stagnante! che lunga vecchiaia! Nutrisca Iddio delle tacite sue rugiade la sitibonda, e non arida, anima tua.
Passeggio sotto cielo piovoso una pianura biancheggiante di sassi, gialleggiante di cardi: due medici meco, che si tengono per gente trincata, e guardano me con pietà, che non so fare complimenti alle signore, e passo daccanto a quelle a capo basso. Disputavano, qual più potente, il sorriso o lo sguardo; e se l’uno aiutasse all’altro, o indebolisse: sguazzavano in quel tema con maraviglioso diletto. Domandano in aria di canzonatura il parer mio; risposi: non me ne intendo.
Calen di maggio 1834. Firenze.
Lieto giorno era questo, Firenze, a te. Ora le tue gentildonne non ballano in sulla piazza di santa Trinita: e fanno bene. Perché le lumiere del casino vicino costano più che il sole: e trista ombra sulle danzanti cadrebbe dalla colonna di Cosimo.
Marsiglia. 1834.
Nel correre col pensiero al viso e alla voce e alle parole e all’andare di donne che mi riguardarono affettuose, (confesso) mi buttai talvolta all’amplesso degl’idoli lontani, belli perché lontani e perch’intatti.
Cette. 1834.
I Francesi (e più quelli che non l’hanno punto provata) dicono l’infinita abbracciabilità delle donne d’Italia. Io, entrato a pena in Francia, ritrovo in vettura una signora francese, che mi si mostra a chiari segni abbracciabile: e perch’io, per buone ragioni, non le do retta, ed ella si butta a un altro Italiano lì accosto, e scende seco la notte a contemplare il firmamento de’ cieli. Io non conchiusi da questo che le Francesi fossero tutte dirottamente amorose: ma conoscendole meglio, vidi che in Francia è men che in Italia il merito del resistere, e più la colpa del cedere; che la Francese, naturalmente più fredda, ha più veli da gettar via per ignudarsi, e quindi più tempo al ravvedimento. L’Italiana non riscalduccica col pensiero gli amori suoi, non ne fa teoria. Merito grande innanzi a Dio e innanzi agli uomini. Taccio che in Francia l’amore è, più sovente che da noi, un’acqua lenta e buia a cui non dispiace nascondere tra la melma qualche pagliucola d’oro. In Italia l’amore si sente, si patisce; in Francia si disserta, si computa. Non già che qui pure non s’ami: la donna è una bontà inesauribile, un candore impossibile a contaminar tutto quanto. Ma s’ama meno che in Italia, e s’abbraccia... "Più?" Voglio largheggiare: non meno.
Gli amplessi colpevoli miei furon forse lungo dolore: e chi sa per quante vite quel vergognoso dolore si propagò? Gl’incerti ed ignoti, e non pure i veri ma i possibili patimenti altrui, pesano sulla coscienza mia. E questo male, appetto al contagio degli esempi rei, delle molli o sprezzanti parole, è nulla. Vero è che qualch’esempio diedi anco di bene, che qualche parola dissi d’amore: ma chi sa da qual parte penderà la bilancia? Affrettiamoci, anima, con ansiosa pace ad espiare; affrettiamoci.
Ella sedeva rimpetto a me, e con lo sguardo intento e discernitore cercava il mio spensierato e quasi errante. Non pura, ma buona; ignara del vincere, ma devota in cuore a essere vinta, cercavi a che braccia non dure e non ingrate abbandonarti. E lo sguardo umile tuo, Luisa, e caldo di rispettosa fiducia, m’onorava. Ma io non badai: meglio forse per te.
Lasciò la casa dov’io la conobbi: né più seppi di lei. Povera Luisa, anche tu delle tante che mi passaron dinanzi per iscuotermi, come baleno che mostra ampiamente schiarate dalla fiamma breve le nubi fonde e la lunga campagna.
Il pensier mio da più dì è muto, sordo. Sogni orgogliosi o sozzi fantasmi lo intorbidano: non isfonda, non sale. La preghiera è languida, leggera; sento venir meno la virtù dell’affetto: i fratelli giudico con disprezzo o con ira. Qualche caduta è vicina. Oh meglio morire!
Parigi, aprile 1834.
Il tamburo chiama all’arme soldati e cittadini: in queste contrade ogni cosa quieto; in altre forse si comincia a morire. Rivoluzione? o tumulto? Chi sa? che frutterà questo sangue? altro certamente da quel che si spera o si teme.
Lascio la casa del Lamartine (questa voce canora esc’ella del cuore? o della fantasia?); passo il ponte rimpetto al palazzo del re: silenzio minaccioso. Armati a cavallo caracollano per la piazza del Carosello; o si celano le schiere nell’ombra; se non che scivolando fra tetto e tetto, la luna fa luccicare le corazze e i cimieri.
In quel palazzo sì splendido di lumiere, che batticuori! come aspettati i messaggi! Il timore lascia egli luogo all’amore? Che si domanda egli a Dio? C’è chi prega pe’ vivi: ma per gli uccisi? per gli agonizzanti nelle abbarrate vie, sotto la zampa ferrata, sotto una carretta riversa? Quante coscienze in bilico! Il sol di domani darà loro il tracollo. Le esclamazioni son pronte: i nomi in bianco. Dicono molti svegliandosi: "Son io un altr’uomo? Il giornale me lo annunzierà. Un sonnellino ancora". E aspettano dal portinaio l’ispirazione fresca di torchio, e fradicia.
Quando non sai se la donna desideri a’ tuoi pochi quattrini o a te, gli è un imbroglio. All’affetto vorrebbe unirsi la stima, e non sempre può. Ma può più spesso che taluno non creda. E quand’anco desideri ad altro che all’uomo, la donna più volte desidera l’uomo. Tale è questa ch’io penso. Ardita, e ardente, e profferentesi a me: la persona alta, roca la voce, le fattezze ora composte a bellezza, ora turbate, e quasi rimpastate in forma tutt’altra. Io la vidi piangere: né sapeva ch’i’ la vedessi; e non badava s’altri guardassero a lei. Piangeva in chiesa una donna morta.
Costei forse m’avrebbe veramente amato. Ma io delle quattro mie casigliane, di me più giovani, e non abborrenti da me, diedi nella meno gentile e meno amorosa. Due di loro vagheggiai ne’ versi (ad esse, com’io soglio, celati); e la morta n’ebbe anch’essa; ma questa ch’io vidi piangere, non ebbe né versi né desiderii. Sgomberando, mi disse dove tornava: non curai rivederla.
1835.
Amav’io in essa l’affetto che a quando a quando traspariva dalle parole delicatamente lusinghevoli e dagli occhi vaganti? Amavo io l’ingegno agile, aperto? Amavo io il nome? e l’esile persona schiettamente adorna, e la casa riccamente addobbata, e la frequenza elegante poteva anco in me? Non credo. I suoi titoli a lei negai con reticenza affettata, e la trattai ora con famigliarità, or con durezza; e al suo sorriso feci più volte cipiglio. Ma pur mi sedetti alla sua mensa: e un giorno, perch’io disavvedutamente pigliavo il posto d’un conte, ella sollecita m’additò il mio minore. E io soffersi: né quello fu l’ultimo pranzo accettato da me. Fu bene il penultimo.
M’amava ella? No. M’avrebbe annoverato fra i tanti a cui non si diede ma si permise. E io volevo meglio di lei: volevo cosa che il cuor suo non poteva dare né a me né a uomo del mondo. Perché ne’ desideri languidamente soddisfatti l’anima, come il corpo, infiacchisce. Bellezza vuole battaglia: e di battaglia esce amore. Troppo stimava io lei, ella me.
Lei, la donna ch’io penso, signoreggiare avrei voluto, tutta: ma come maneggiar francamente vaso incrinato? Gli era pur bello e lavorato con arte! Mente serena: ma faceva sovente il cuor severo, e freddo cercatore de’ difetti altrui. Chi sa qual vecchiaia l’attende? I piaceri, incautamente agitati, lasciano feccia di dolore: e io lo so.
1835.
Una tomba lontana pens’io, e dentrovi te che lasciai viva, o Teresa, e vidi nel partir mio commossa correre a celare le lagrime. Tu m’amavi d’amore ultimo e combattuto; e mel dicesti in linguaggio degno di te, facendomiti un giorno vedere inginocchiata a un’imagine cara, e chiedente vittoria sul cuor tuo. Nessun uomo forse ebbe dichiarazione d’amore più pura; pochi rimprovero più potente. Quanto devota a’ servigi miei! Quanto riverente della mia povertà! Perché povera tu pure; e non sempre stata così: e bella un tempo, e pur non amata, e dal disamore altrui forse tratta a fallire. Come mi parlavi accorata e modesta del tempo passato! Che gioia ne’ tuoi sguardi al vedermi, che pietà nel tuo viso, e che sublime sommissione di donna ne’ tuoi silenzi!
Sul morire si rammentò la dolorosa di me, da dieci anni lontano, e pregò mi scrivessero ch’ell’era morta.
Quel primo moto d’affetto, di gioia, di stima confidente, che brilla in viso di donna al primo vederti, comeché si dilegui poi, riman tuttavia memorabile. Perché l’uomo conosce meglio la donna col tempo; ma ella meglio indovina lui sin dal primo; e se esperta, prerapisce col pensiero l’amore; se novella, divien più modesta, e si svoglia delle gioie usate, e nella nuova mestizia da quelle riposa.
Vedere negli occhi ardenti e profondi, nel lieve sorriso di donna, l’amore; vederlo nelle cure di lei tacite e trepide, nell’incerto prolungare de’ rotti colloqui; veder l’amore, e pur dubitarne, e ondeggiar tra il rimorso, l’orgoglio, la timidezza, il rispetto; e svogliatamente combattendo, eccitare le proprie voglie e le altrui; dolce e reo tormento, che intreccia con la colpa la pena.
1835.
Ripenso a quelle ch’io conobbi men gaie, e che più piacquero agli occhi miei. Una tra tutte memorabile per la dolce pietà degli sguardi, e il sorriso socchiuso, e la voce del cuore, e gli atti tra confidenti e supplichevoli, ma non servili né baldanzosi mai; e le parole brevi e quasi gremite d’affetto, e l’aria della testa raffaellesca. Il corpo, bersaglio ai desideri insultatori della gente che passa, nell’anima ancora una fiammella eterea che tremola incerta, e sparge intorno un bagliore mesto, non sai se timida o vogliosa di spegnersi. Ell’aveva lasciati già dietro a sé gli anni più sconsigliati; e il venticinquesimo, primavera ad altre, er’a lei quasi autunno. A lei scorreva nel sangue la pena del suo fallire: ell’era a me, senz’avvedersene, ministra e di gastigo lungo e di ravvedimento, e di nuove esperienze salutari d’ignominioso dolore. Oh misere membra contaminate, chi sa se la vita e il dolore serpeggino ancora per voi? o se il dolore si sia già mangiata la vita coi lenti suoi morsi? Ella mi diceva, infelice: "Pregar Dio? L’ho pregato tanto quand’ero più giovanetta: e nondimeno!" — Ma tu l’avrai ripregato, e lo ripregherai se tu vivi, quel Dio che creò i fiori a te amati tanto, che sì graziosa ti fece, o donna, e sì mansueta.
1835.
Raccolgo nella memoria le donne, non amate a me, ma piacenti, o che a me guardarono con affetto. Pur lieta schiera a vederla, e pure infelice! E sotto a que’ visi arridenti, come sotto maschera fine ma opaca, altri visi si nascondono (gli aspetti dell’anime) assecchiti, contratti, grondanti di pianto. Oh chi potesse in un punto vedere quant’arie e quante cere e quante fisonomie fece aspetto di donna dalla pubertà all’agonia! Varietà tremenda, tremenda unità.
Lieta schiera a vederla! Candide nel pallore, candide nel rossore, pallide nel bruno bramoso; gracili e forti, alte o poche della persona, ardite fattezze o tenere; di città, di campagna; sull’erta, sul pendio della vita; da’ suoi spregiate o dilette; beate di povertà monda o afflitte di grave ricchezza; in Dio raccolte, di lui non curanti; significanti l’amore con lode lontana, con lunghi sguardi, con brevi parole, con domestichezza procace, con l’ebbre attitudini della sciolta persona. Non lunga schiera, e pur troppa! E già i nomi delle più mi fuggirono; e i visi, riflessi quasi in acqua commossa, tremolano nel pensiero, e l’un nell’altro si confondono; e da quell’ondeggiare contraffatti per poco, si ricompongono più gentili che mai.
Se alla catena de’ vostri falli e de’ dolori io aggiunsi un anello, o sventurate, perdono. E poiché già nel pensier mio non vivete distinte vita propria; siate tutte, o affetti senza nome, in un affetto rinvolti e in un pentimento.
1835, 8 ottobre.
Compiti i trentadue anni della mia languida vita. L’ingegno si schiara in lume più nobile, più sicuro; ma forse più ardente a’ miei danni. Sento di salire; ma veggo insieme spazio immenso ch’è tra miei passi e la meta. L’ingegno sale; ma l’anima? Aleggia a momenti, poi s’accascia, e grufola più bestialmente che mai. Quante volte sorto, e quante caduto! Che vergogna dell’essere sì fiacco e sì spensierato! Che gioia dell’essere sì caro a Dio!
Sono io degno d’annunziare agli uomini il vero? O anni avvenire, rispondete al desiderio della umiliata, e pur balda, anima mia.
Finita dunque la mia gioventù! Addio speranze d’amore e di pace. Come passati quest’anni! In languore affannoso, in solitudine profana, in voluttà senza piaceri, in sacrifizii senza virtù. O gioventù disgraziata mia, addio per sempre! Come al vedere il sole alto, l’uomo spegne un lume fioco che muor fumicando, così vegg’io te finire.
La nuova giornata sarà ella non dico felice, ma tranquilla, ma pura? Potrò io resistere alla battaglia continova delle cose e del cuor mio? Potrò io vivere solo nel mondo? Abbandonata la famiglia che t’ha data Iddio, potrai tu creartene un’altra? La merito io? E che recare in comune? Un’anima sgannata, un corpo stanco, e la mia povertà. — Dimenticavo l’ingegno. Oh buon mantello contro il freddo, bella consolazione per una donna, l’ingegno!
26 dicembre.
Sempre combattere fino all’estrema vecchiaia! E serbarsi puro fin de’ pensieri! Non aver chi t’assista infermo, scorato ti rinfranchi; pagare a contanti quei servigi che mia madre sarebbe lieta di profondermi, e me ne saprebbe grado, e piange a calde lagrime di non lo potere. O madre mia, il tuo dolore non m’è così acuto come dovrebbe. Io non soffro, non amo abbastanza.
Ma se non lieta la vita mia, passi almeno non vile. Il vero al quale ella è sacra, esca franco e vestito di nette parole. A giorni la mente anch’essa tentenna: e le bellezze della santa natura mi si velano agli occhi, come ad uomo assonnato. Dio del nobile amore, pietà di me.
Quimper 1836.
Conosco Maria.
Qui finiva. Maria lesse compiangendo, esultando, arrossendo: altre cose non intese, altre troppo, e col proprio cuore abbellì; altre frantese, ma le più in bene. Molti sentimenti le vennero da quella lettura, commisti insieme, nessuno ben chiaro: confidenza con timore, pietà con rispetto, coscienza di somigliarli ma in meno e con differenze, al parer suo, troppe; e ciò le doleva. Far giudizio dell’uomo intero né poteva né voleva: ché sempre nell’affetto è una parte indeterminata, misteriosa; e quella è il fomite dell’affetto.