Nacque contesa fra gli uccelli un giorno
per invidia di Marte, a cui sorrise
i sereni turbar campi dell’aria.
Non parlo io già dei teneri uccellini
che riconduce a noi marzo od aprile,
e che nelle ombre dei boschetti ameni
coll’esempio e col canto a noi maestri
sono d’amor. Nemmen parlo di quelli
che la Madre d’Amor aggioga al carro,
ma canto gli Avvoltoi, torbido popolo,
dal becco adunco e dagli unghiuti artigli,
che per cagion di un cane, si racconta,
fecer la terra del lor sangue rossa.
S’io volessi narrar ad uno ad uno
di quella guerra gli accidenti e i casi,
chi voce mi darìa? molti perirono
dei capi e tanti eroi morser la polvere
che Prometeo sperò dall’alto Caucaso
che fosse per finir la lunga pena.
Bello e triste a veder era la lotta
delle due parti e il numero dei morti
e il valor e l’inganno e la sicura
arte di guerra, onde cercâr le schiere
di farsi danno e che infinite all’Orco
generose travolse alme d’eroi.
A mille a mille dal sereno giorno
piovean gli spirti in quel rinchiuso e nero
regno dell’ombre, in fin che di pietade
si strinse il cor a un popolo vicino,
popol gentil dal collo iridescente
e dai teneri affetti. A metter pace
uscirono i Colombi messaggieri,
e sì ben adoprarono, che i patti
firmaron gli Avvoltoi dai becchi adunchi.
Ahimè! la pace ritornò di danno
ai Colombi pacifici, che stretti
dal comune nemico, a cento a cento
perîr nell’unghie e in becco agli Avvoltoi.
Infelici e imprudenti, a cui dei tristi
piacque aggiustare le selvagge imprese!
Dividi i tristi ed avrà pace il mondo,
o vedrai, se concordia li assicura,
credilo a me, sempre soffrirne i buoni.