Favole (La Fontaine)/Libro decimosecondo/I - I compagni di Ulisse

Libro decimosecondo

I - I compagni di Ulisse

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Jean de La Fontaine - Favole (1669)
Traduzione dal francese di Emilio De Marchi (XIX secolo)
Libro decimosecondo

I - I compagni di Ulisse
Libro decimosecondo Libro decimosecondo - II - Il Gatto e i due Passeri

 
(Al signor duca di Borgogna)

O dei Numi immortali unico oggetto
e cura e amor, a me date ch’io possa
i vostri altari, o Principe, quest’oggi
di qualche profumar nobile incenso.
È un poco tardi e a me scendono gli anni
ahimè! già troppi, onde il mio spirto giace
languido e stanco, mentre in voi ribolle
e cresce e grida giovinezza e vola
come avesse cent’ali.
Il grand’Eroe,
dal qual traeste qualità sì belle,
non arde men, quando lo chiama il suono
della bellica tromba, e a lunghi passi
andrebbe solo a stringer la vittoria
entro la man, ove non fosse un dio
(il gran Luigi, io dico, avolo vostro)
che il trattenesse. Vincitor del Reno
in un breve girar di soli il mondo
lo vide, quando fulmine di guerra
scese con arte, che sarebbe ardita
oggi, e fu bella al minacciar dei mali.
Ma basta, Signor mio. Riso ed Amore,
che in casa vostra sono i tutelari
geni e vi seguon sempre ombre fedeli,
non aman le noiose litanie.
Altri Dèi favorevoli governano
le cose vostre, io dico la Ragione
ed il Buonsenso con sicuro impero.
Se voi li consultate, a voi diranno
qual senso ascoso si rimpiatti in fondo
di quel racconto, in cui detto è dei Greci
che, pazzi ed imprudenti, entro condotti
alle vane lusinghe, in sozze e cieche
bestie cangiaron l’immortal natura.

Dopo dieci anni di sofferti affanni
i compagni d’Ulisse in preda al vento
ivan perduti e di lor sorte incerti;
quando approdâr ove sua corte tiene
con lusinghieri inganni
Circe, figlia del Sol. In un momento
per opra di velen dolce e sottile
a lor guastò le vene
e tolse il lume di ragion. Ed ecco
non molto tempo dopo,
a qual spuntan le corna, a quale il becco,
chi diventa elefante, orso o leone,
e chi ridotto in picciola misura
ti piglia la figura
d’una talpa, d’un rettile, d’un topo.

Soltanto Ulisse, al qual diede natura
astuto accorgimento,
sfuggì della malvagia al tradimento.
E poi che unisce a saggio accorgimento
alto valore e nobile figura,
a veleno opponendo altro veleno,
trasse la maga in quel soave ardore
che sforza a favellar voci d’amore.
Nessuna dea, si dice, può nascondere
la fiamma ch’ha nel core.

Ulisse prese la parola al volo
e comperò il riscatto facilmente
di tutta la sua gente.
- Vorran essi tornar, - dicea la diva, -
alla sembianza loro primitiva?
Per me poco lo credo,
ma di farlo, se credi, lo concedo -.

Subito Ulisse vola
dove sen stanno come porci in brago
i suoi compagni e dice: - Ogni veleno
ha il suo rimedio e questo io tengo in mano.
Di voi, se alcuno è vago
di ripigliar l’antico volto umano,
parli, ché ridonata è la parola .
Parla il Leon, credendo di ruggire:
- Per me non son sì matto,
e rinunciar non voglio ad ogni patto
ai beni che acquistai nel divenire
Leon con ugne e denti,
che fan tanta paura ai prepotenti.
Oggi son re; ma se si cangia il fato,
e torno ancora cittadino d’Itaca,
il re ritorna un umile soldato -.

Ulisse allora si rivolge all’Orso
e: - Amico, - esclama, - o amico poveretto,
quanto mutato d’animo e d’aspetto!
- Qual male? - all’uomo saggio
rispondeva il buon Orso in suo linguaggio.
- Per orso son ben fatto,
né devi giudicar che il bello sia
soltanto in una forma e in armonia
col tuo giudizio ovver col tuo ritratto.
Che se non credi ancora,
dimandalo a quest’orsa che mi adora.
Se ti dispiace, va’,
lascia ch’io goda in pace
il mio far nulla e la mia libertà.
È bello quel che piace -.

Ulisse, il greco principe, si volta
al Lupo e, prevenendo la risposta:
- Fratello, - dice, - ah! quanto al cor mi costa
che tu sia così tristo doventato.
Tu fosti valentuomo un’altra volta
pronto a salvar gli armenti,
ed ora, Lupo cieco ed arrabbiato,
le pecore spaventi,
e di tue stragi fai pianger la bella
gentile pastorella.

- E ciò che importa a me, padrone Ulisse? -
il tristo Lupo disse. .
- E tu chi sei, che a me parli d’amore
e sensi di pietà?
Senza di me non vedo forse gli uomini
mangiar montoni e pecore
e nei villaggi spargere il dolore?
Uomo posso tornar, ma non umano,
per la mia fe’, s’io miro
come in fraterne stragi l’uom deliro
insanguina la mano,
e Lupo di se stesso anche diviene.
Tutto sommato adunque il male e il bene,
visto, considerato
che scellerato vale scellerato,
e che d’essere Lupo ancor conviene,
non voglio cangiar stato -.

A quanti Ulisse fece la proposta
non ebbe altra risposta.
Grandi e piccini tutti preferivano
la libertà, l’aperta
aria dei boschi e il far quel che più pare
alla gloria difficile ed incerta
delle belle virtù.
E mentre si credean dai ceppi liberi,
cadevan di se stessi in servitù.

Avrei voluto, o Principe, un felice
argomento inventar, nel qual commisto
fosse l’utile al dolce: ma vi è noto,
Signore, come forma non si accorda
molte fiate all’intenzion dell’arte.
Ben venga Ulisse co’ compagni suoi,
io dissi alfin, di cui l’esempio è vivo
ancor nel mondo; questi stolti (e sono
molti i seguaci) avran nell’alto e santo
sdegno del vostro cor giusto castigo.