Elogio catodico del quotidiano/Cap. 4
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Cap. 4 - Oltre Portobello, alcune esperienze di partecipazione del pubblico ai programmi tv degli anni ottanta.
«Un caso interessante è quello della Corrida- scrive Maria Pia Pozzato [1992, 133]- dove non si ha affatto un effetto di “verità del soggetto” ma una sorta di effetto comico da incompetenza che è tipico del clown». In occasione del ventennale della trasmissione che ebbe come primo conduttore l’indimenticato Corrado, il quotidiano La Repubblica scrisse “C'è un’Italia che compra chilometri di tulle per l'abito della vita, quello per presentarsi in tv, genere nuvola di zucchero filato, un’Italia felice di ballare fuori tempo e fiera di farsi fischiare «perché comunque mi sono divertita e in fabbrica mi hanno visto tutti»”. Sempre Maria Pia Pozzato [1992, 45] propone un distinguo tra trasmissioni come Paperissima e Blob che
Conducono il personaggio famoso dall’altare alla polvere, [e] un programma come La corrida [che] gioca sul ridicolo della via opposta, quella che dovrebbe condurre virtualmente dall’anonimato al successo. Qui è la mancanza di competenza spettacolare, unita a una sostanziale mancanza di legittimazione di ruolo, a fare spettacolo.[…]E’ chiaro infatti che l’attempato signore che canta la Tosca può aspirare al massimo ad un successo effimero che dura lo spazio di una battuta di mani per quanto fragorosa.[…] La mancanza di competenza esibita qui non è né occasionale, né limitata a una sfera specifica a una sfera specifica, bensì generale e senza possibilità alcuna di riscatto. Questo conferisce una dimensione tragica alle persone comuni coinvolte in questi programmi e una particolare ferocia[…].
Il concorrente, per quanto fondamentale per lo svolgimento del gioco, -osserva Caprettini [1996, 101-102]-si rivela essere una figura esterna, marginale: c’è una tangibile differenza di status fra lui i presentatori, le vallette e i giudici, che provengono dal mondo della televisione; i due mondi distinti- quello del concorrente, e quello della televisione- si incontrano felicemente nel quiz, ma fatalmente si devono separare al suo termine.
Lo stesso Caprettini [2001, 48-49] qualche anno dopo nel suo libro “Totem e tv” offre un interessante spunto di riflessione sul rapporto tra conduttore e personaggio non televisivo ospite in trasmissione.
Al personaggio mediatore Televisivo, medium in tutti i sensi, è d’altra parte affidato il ruolo importante e non di rado ingombrante, di stimolare una buona visibilità, di far sì cioè che la sfera individuale e la relativa presentazione di casi affidandosi al mezzo di massa, trovi e inventi un contesto e una risonanza pubblica e di utilità sociale senza perdere i caratteri della propria originalità e, nello stesso tempo, senza essere violata nella sua intimità (a meno che questa “violazione” non faccia parte come si è visto, del patto enunciazionale della trasmissione). Il conduttore televisivo, colui che parla con le persone presenti in studio sarà dunque necessariamente un personaggio polimorfo, un portavoce sia della collettività che è in ascolto sia dei sentimenti del proprio interlocutore, ma anche un provocatore che tenta di far avvicinare sempre di più i propri ospiti e i propri spettatori ai limiti preventivamente tracciati dai contenuti del discorso che egli stesso ha preso in carico. Il suo compito di alfabetizzatore dei sentimenti e delle opinioni può diventare un ruolo manipolatore, soprattutto se egli vorrà attribuire un qualche forte piano razionale al discorso di chi è invitato a parlare, il quale discorre anche in modo sconnesso, magari poco coerente, ma autentico. Di qui la formula di un mediatore televisivo che ammicchi, alluda dissenta scetticamente insinui con humour, rispetto a chi invece voglia, sempre e comunque, argomentare, dimostrare, persuadere; la ragione del successo d’ascolto può dipendere dunque anche da una adeguata scelta di registro discorsivo: è questione di metodo, di stile più che di contenuti.
Sullo stessa tematica della figura del conduttore Casetti [1988, 33] osserva
Costui è in realtà la più perfetta incarnazione dei meccanismi della mediazione: una mediazione volta a fare incontrare emittente e recettore; e una mediazione che si realizza grazie alla confluenza in una stessa persona delle esigenze delle due parti. Il conduttore infatti rappresenta il broadcaster: in qualche caso coincide con la filosofia o con l’etichetta di chi emette. Ma egli è anche il rappresentante delle ragioni del pubblico: non solo perché ne raccoglie direttamente le richieste, ma anche perché si fa garante che queste ultime vengano esaudite. Aggiungiamo che la mediazione può assumere due forme: o quella della ricerca ad ogni costo di un punto di incontro, pagata con lo svuotamento della proposta; o quella di una collocazione al di sopra delle parti, facendosi forza della propria individualità.
Grasso [2000, 87] sottolinea che
Spesso poi l’impronta semantica del conduttore segue le strade demagogiche del sapere “comune” e la sanzione dell’ anchorman viene operata in virtù del suo ruolo di portavoce simbolico del pubblico, in base a un sapere “generalista” prodotto di considerazioni banali, facilmente condivisibili. Attingendo al sapere “comune” del pubblico, assunto in questo modo a principio regolatore del discorso, il conduttore suscita l’identificazione fiduciaria del telespettatore; il tutto suona, per via di sillogismo, come un suadente monito: «faccio e dico le cose che faresti e diresti tu, sono come te, puoi fidarti di me». Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia- per riecheggiare il profetico refrain di Canale 5 in cui le fantasmatiche presenze televisive si confondono con quelle reali, perlomeno in virtù di un’etica condivisa. La dimensione di familiarità è essenziale all’instaurarsi di una relazione fiduciaria, finalità ultima della neotelevisione. Nessuno si muove nella confidenzialità il talk show man: crea un clima intimo e raccolto, chiede fiducia per raccogliere confessioni,. Si insinua nel privato. Il conduttore instaura un clima di convivialità nel quale lo spettatore (e con lui il telespettatore) è invitato ad entrare: come un buon padrone di casa ci apre il suo salotto televisivo per entrare nel nostro, in una sorta di do ut des elettronico. L’invito è rivolto a tutti: al telespettatore a casa e alla sua rappresentazione simulacrale, il pubblico in studio.
Dal canto suo, invece Maria Pia Pozzato [1992, 14] ricorda che “Vi sono casi in cui è problematico stabilire una netta differenziazione fra il ruolo di spettatore e quello di rappresentante della televisione […] per esempio quando persone comuni vengono invitate ad avere un ruolo attivo nella trasmissione. Anche Casetti [1988, 147] afferma che “Lo spettatore partecipante è infatti uno dei ruoli più tipici delle trasmissioni della neotelevisione”. Pozzato [1992, 14] arriverà addirittura ad affermare che “Nella tv contemporanea si nota un’alta frequenza di episodi in cui il ruolo di spettatore si capovolge in quello di conduttore o di co-conduttore”. Sulla stessa linea di frequenza anche Caprettini [1996, 69] osserva come
A livello di stili di interazione tra i personaggi televisivi non si ritrova più una rigidità di ruoli conduttore-ospite o conduttore-concorrente, quanto piuttosto una interscambiabilità di parti e funzioni, all’insegna della convivialità e della complicità
Le ragazze di “Non è la Rai” sono a tutti gli effetti sia pubblico sia conduttrici della trasmissione; e sempre più il pubblico è parte integrante della conduzione dello spettacolo, a partire da “Indietro Tutta”, sino a trasmissioni come “Ok, il prezzo è giusto!”, “ La Corrida”, “Stasera mi butto”, “Telemike”, e molti altri, attraverso il tifo sfegatato, la ritualizzazione dei gesti, l’intervento verbale sotto forma di proposte o di proteste. Il caso più puro è rappresentato tuttavia da “La Corrida”, dove una persona del pubblico, spesso una signora di mezz’età, è chiamata da Corrado a fare le presentazioni ai concorrenti lungo l’intera puntata. Queste estemporanee collaboratrici svolgono un vero e proprio ruolo di conduzione e di solito lo fanno in modo inappuntabile [Pozzato 1992, 91].
Casetti [1988b, 54] suggerisce di fare alcuni distinguo:
Ora è ben vero che il suo peso è variabile: lo spettatore può essere qualcuno cui semplicemente “Stare insieme e farsi compagnia” (festival) qualcuno che ha a disposizione spazi di intervento che gli permettono di esprimere un’individualità (le telefonate in Pronto è la Rai?, Fantastico, Linea rovente, Telefono Giallo); o qualcuno che può divenire il grande protagonista della serata portando alla ribalta le proprie avventure o disavventure pubbliche o private (Maurizio Costanzo Show). Ma in ogni caso lo spettatore è presente in maniera quasi ossessiva (gli spazi ingolfati di spettatori in campo fino alla saturazione, ben parodiati in Indietro tutta); ed è presente con una irriducibile carica di individualità (negli spettacoli della neotelevisione non c’è mai massa ma sempre e solo agglomerati di individui).
Anche Grasso a proposito propone un’interessante riflessione
E’ cambiata, negli anni, la fisionomia, del pubblico in studio: se nella paleotelevisione rappresentava lo spettatore puro, muto figurante- raramente coinvolto- di una messa in scena che si svolgeva indipendentemente da lui, la platea della neotelevisione acquista la parola, partecipa attivamente alla rappresentazione, talvolta ne è protagonista. Un tempo inquadrato per lo più da panoramiche, il pubblico in studio si va affermando attraverso i primi piani: da entità indifferenziata si trasforma in un insieme di singole individualità. E’ la riscossa dell’uomo comune, il quale viene invitato a far parte della rappresentazione televisiva, a volte diventandone l’eroe: Agenzia matrimoniale, scrupoli, Stranamore, Amici, Caro Diario, celebrano le vicende dell’ordinary people ogni cosa confluisce in quell’unico spazio simbolico collettivo che mescola la dimensione della realtà e la dimensione della televisività elidendo così simbolicamente gli ostacoli tecnologici, le barriere elettroniche- che è la ribalta neotelevisiva [Grasso 2000, 87].
”Dentro e fuori i programmi la presenza del pubblico non manca: il feedback è continuo (telefonate in studio, posta, controllo degli indici di ascolto, reazioni dei giornali ecc.) scrive Francesco Casetti [1988, 16] nella sua opera già significativa nel suo stesso titolo “Tra me e te: strategie di coinvolgimento del pubblico nei programmi della neotelevisione” Sempre nella collana Rai Vqpt (Verifica Qualità Programmi Trasmessi), uscirà anche il testo “Cittadini, giudici e giocatori, le forme di partecipazione del pubblico nella neotelevisione” scritto da Marturano, Villa e Vittadini. Per conto dell’editore Donzelli invece, Renato Stella darà alle stampe “Box Populi, il sapere e il fare della neotelevisione”giocando quindi sull’assonanza con l’espressione latina “Vox populi” che vuole sottolineare la caratteristica principale della neotv: il dar voce alla gente comune. Tale coinvolgimento del pubblico nelle trasmissioni appare quindi come il comune denominatore di programmi che si differenziano per contenuti, autori, titoli emittenti su cui sono in onda ecc. A trent’anni di distanza dai primi esperimenti di partecipazione del pubblico ai programmi televisivi, si è osservato, quasi paradossalmente un curioso fenomeno involutivo, che ha portato alla deriva dei reality show e dei talent show, che vedono come protagonista ancora una volta la gente comune. Per commentare sulle colonne del quotidiano di via Solferino la prima puntata del programma Mediaset “Italia’s Got Talent” Aldo Grasso, in un significativo articolo intitolato “Talenti all’italiana (come alla Corrida)” scrive:
Niente di nuovo sotto il sole. Nonostante l' apparato terminologico facesse pensare a nuove frontiere della tv - «format», «talent», «brand» - c’era un'aria antica da fiera di paese, da primo applauso, da dilettanti allo sbaraglio che metteva una certa briosa malinconia: il ventriloquo, il ballerino forsennato, il percussionista corporeo, lo scultore con motosega, la danzatrice di burlesque, l'illusionista, il culturista che fa scoppiare la boule dell' acqua calda […] Il talent show è la nuova frontiera del reality e la rete ha pensato di acquisire un prodotto che si collochi a metà strada tra Amici e La Corrida.
Nel 1975 all’inizio di questo fenomeno fece scalpore l’intervento di Umberto Eco nel suo microsaggio “Fenomenologia di Mike Bongiorno” il quale sostiene che anche quello che potrebbe apparire come il presentatore per antonomasia, essendo stato conduttore di trasmissioni di successo, su tutte “Lascia o raddoppia”, si comporta in realtà come un uomo comune, ponendosi sullo stesso piano del pubblico.
[…]La TV non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l'everyman. La TV presenta come ideale l'uomo assolutamente medio.[…] Il caso più vistoso di riduzione del superman all'everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest'uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (questa è l'unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti. Per capire questo straordinario potere di Mike Bongiorno occorrerà procedere a una analisi dei suoi comportamenti, ad una vera e propria "Fenomenologia di Mike Bongiorno", dove, si intende, con questo nome è indicato non l'uomo, ma il personaggio. […]Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi.[…] Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a tendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avventura mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è rigorosamente referenziale e farebbe la gioia di un neo-positivista. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all'occasione, egli potrebbe essere più facondo di lui. […]Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti [Eco 1975, 31-35].
Trentatre anni dopo il prof. Eco, intervistato dalla televisione svizzera a questo proposito, è tornato su questa riflessione sostenendo che nella tv odierna al pubblico non si propone più come modello un uomo simile allo spettatore medio, “adesso è successo che gli si dà l’inferiore; il modello ormai del trash tv è la Corrida, dove l’eroe è l’ultimo livello di sviluppo umano, si può solo prenderlo in giro… quindi Mike Bongiorno rappresentava l’uomo uguale a te, questi rappresentano l’uomo inferiore a te, quindi fanno scattare delle fasi di sadismo ecc. in confronto Mike Bongiorno era il rinascimento.