Edgar Poe/Parte quarta
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Poe è, dunque, di nuovo nella miseria. Il suo carattere irrequieto e impulsivo non gli fa trovar requie nè sosta in alcun luogo e lo spinge di città in città, assieme a Maria Clemm, fida consolatrice, e alla delicata Virginia, più che moglie, amante ideale, immortalata, poi, nella lirica Annabel Lee.
Brevi sprazzi di fortuna illuminan l’ombre tetre di quegli anni di vagabondaggio allucinato. Un manuale di conchigliologia, raffazzonato per trarne un pò di guadagno, ottiene un esito editoriale, che nessun libro di Poe avrà, lui vivente. Una lunga serie di articoli, ora irruenti e feroci, ora entusiastici e gonfi di elogi, desta la curiosità americana e procura allo scrittore il titolo di "principe della critica". Una sfida criptografica sbalordisce il pubblico, mettendo in rilievo le formidabili facoltà mentali del decifratore. La collaborazione in una rassegna di Filadelfia aumenta la tiratura di questa da ottomila a cinquantamila copie. Infine, il poema Il corvo rende celebre, di colpo, Edgar Poe e lo fa diventare, per qualche tempo, l’autore preferito e vezzeggiato della società new-yorkese.
Nonostante tutto ciò, Poe è messo alla porta dalla rassegna, che a lui doveva il miracoloso sviluppo, e sostituito, per colmo di scherno, dal bieco pennaiolo Rufus W. Griswold. E l’altra rassegna, quella, ch’egli vorrebbe fondare, vagheggiata da anni come un gran sogno da tradurre in realtà, non trova appoggi, se non letterarii. E i volumi di Poe non si vendono. E le sue conferenze raccolgono solo un pubblico incuriosito dalla bizzarra esistenza e nomea dell’oratore; e fruttano, allo stringer dei conti, molte amarezze, ma ben poco denaro. Ah, poeta incorreggibile, che ti ostini a parlare di poesia e di cosmogonia a una folla d’uomini d’affari!
Anche la speranza di un impiego governativo dilegua con la rapidità, con cui è sorta. Quale e quanta speranza! "Ciò, ch’ella mi dice dell’impiego nelle dogane", scrive Poe a un patrocinatore, "mi rimette in vita. Nulla potrebbe corrispondere meglio ai miei desiderii. Se riuscissi a ottenere un simile posto, sarei in grado di condurre a termine tutti i miei ambiziosi progetti. Esso mi libererebbe da ogni preoccupazione per i mezzi d’esistenza e mi darebbe il tempo di pensare, cioè di agire." Ingenuamente, egli crede che le persone, con le quali deve mettersi a contatto per sollecitare l’impiego, siano illuminate dal criterio superiore, indispensabile a vagliare le azioni altrui e a far indulgere ai difetti, se compensati da pregi. E pomposo e, a volte, un po’ ebro (oh, poco poco: quel poco necessario perchè la fisionomia assuma un’espressione meno triste, meno repulsiva per gli uomini normali, così pronti a subire il fascino della disinvoltura e della gaiezza!) si presenta innanzi agli individui autorevoli, che potrebber difendere la sua causa e ottenergli un posto comodo e uno stipendio, unico mezzo per vivere e scrivere senza l’assillo del bisogno. Nobil poeta illuso, egli crede di aver prodotta una forte impressione: e non sa che i personaggi autorevoli, dopo averlo trattato con benigna condiscendenza e accomiatato con una stretta di mano, torceranno il grifo con nausea e rideranno dei suoi panni lucidi e delle sue arie di principe spodestato!
Ma il cruccio più amaro è dovuto alla difficoltà di far accettare dalle rassegne i lavori letterarii e, se anche questi siano accolti, di ricavarne un compenso non umiliante. Oggi, un manoscritto di Poe vale somme rilevantissime. E, tuttavia, lo stesso Corvo gli fu pagato, in vita, dieci dollari. E nessuna rassegna di Londra volle stampare la novella Gli occhiali, se ben presentata ed elogiata da Dickens. E una rassegna americana, ricevuto Il cuore rivelatore, scrisse: "Se il signor Poe accondiscendesse a inviare articoli più pacati, sarebbe un collaboratore desiderabilissimo."
Sì, veramente! Nel martirologio di Edgar Poe (messia, che non ha lasciato nessun testamento per la semplice ragione che non aveva soldi neanche per pagare il notaio), si narra di un editore, il quale, dopo aver amichevolmente rimprocciato all’autor di Ligeia la sua testarda e insanabile originalità, gli preconizzava fior di quattrini purchè si acconciasse a fare della letteratura usuale, secondo il gusto e le bramosie del pubblico grosso. Sì, veramente: l’eterna questione eternamente affiora. Oggi, come ieri. Anche oggi, Edgar Poe, rinascendo, salirebbe lo stesso calvario: e le rassegne dell’un mondo e dell’altro continuerebbero ad accogliere i suoi lavori come un dabben uomo accoglie un pugno in un occhio. Bisogna ubbidire alla moda, han sempre detto e diranno sempre le rassegne, adattarsi alle consuetudini e, sovra tutto, non sventolar mai, innanzi all’ombroso lettore, il fazzoletto rosso del genio. Sistema comodissimo per chi, senza ingegno nè arte, maneggi la penna del letterato come taglierebbe stoffe nelle botteghe o peserebbe il chinino con le bilance esatte delle farmacie. E comodissimo, anche, per i direttori di rassegne e per gli editori, i quali, seguendolo, non devono lambiccarsi il cerebro per giudicare sul merito di una novella o di un libro, ma possono sparagnar tempo e fatica annusando semplicemente la merce e poi, se essa odori di letteratura di moda, gettandola, senz’altra formalità, nella macchina distributrice non di godimenti estetici, bensì di salsicce e salami.
Com’è buffa, sempre, la moda! Quella odierna, per esempio, ricorda La bottega da caffè di Goldoni. Non è, il pubblico, un don Marzio seduto innanzi al piccolo caffè veneziano? I suoi sguardi si sollevano fino agli sporgenti tetti delle case, ma ignorano quel che c’è al di sopra: il cielo. Il suo pensiero sfarfalleggia attorno agli omettini e alle donnette, che trotterellan per la strada o s’affacciano alle finestre, ma diverrebbe irto come un porco-spino se udisse qualcuno affermare che quei fantoccetti, vestiti da maschi o da femmine, son pieni solo di crusca e, a pungerli, si svuotano in un batter di ciglia. Insomma, questo pubblico, don Marzio redivivo, non s’interessa se non delle piccole gesta di piccole creature umane, che rappresentano, di fronte all’umanità, quel che rappresenterebbe un effimero volo di bolle di sapone paragonato con la vertiginosa eterna corsa delle sfere celesti. E, anzichè mostrarsi stufo arcistufo, non è mai stanco di sentirsi raccontare e ripetere che la signorina tale ha messo tre anni, tre mesi e tre giorni, poveretta, per comprendere che l’amore è come il pane imburrato, al quale, se fai tanto di dargli due buoni colpi di lingua, non rimangono più nè sapore nè burro, e che la signora talaltra ha il cuoricino simile a una spugnetta avida d’imbeversi non di passione (la passione, per carità!), ma di carnali esperienze e di succolenti capriccetti.