Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo XXXVI
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XXXVI.
Raccontasi la strana e non prima immaginata ventura della matrona Dolorida, detta altrimenti la contessa Trifaldi; e si leggerà una lettera scritta da Sancio Panza a sua moglie Teresa Panza.
“Se buone frustate mi davano, io me ne stava bravamente a cavallo; se buon governo io tengo, buone frustate mi costa. Questa cosa tu non la capirai bene, Teresa mia, per adesso, ma la intenderai a puntino in altra occasione.
“Devi sapere, Teresa, che ho stabilito che tu vada in cocchio, che è quello che importa; perchè ogni altra maniera di andare è come andare carpone. Sei moglie di un governatore.
“Oh guarda un poco se vi sarà più chi ti taglierà i panni addosso! Ti mando colla presente lettera un casaccone verde da cacciatore che mi fu regalato dalla mia signora duchessa: assettalo in maniera che possa servire di zimarra e di busto alla nostra figliuola.
“Don Chisciotte mio padrone, per quanto ho inteso dire in questo paese, è un pazzo savio, e un balordone grazioso, nè io sono da manco di lui.
“Siamo stati nella grotta di Montèsino, ed il savio Merlino s’è valso di me per disincantare Dulcinea del Toboso che in codeste nostre bande si chiama Aldonza Lorenzo. Con tremila e trecento frustate da darmi, meno cinque che già mi ho date, resterà Dulcinea disincantata come la madre che l’ha partorita. Bada bene di non dir niente di questo a persona viva, perchè se metti la cosa nell’altrui giudizio altri diranno ch’è bianca, altri ch’è nera. Fra pochi giorni partirò pel mio governo, dove mi porto con grandissimo desiderio di far danari, perchè mi viene detto che tutti i governatori nuovi vi vanno con questo proposito. Io tasterò il polso ai miei amministrati, e ti darò avviso se tu debba o no venire a startene meco. L’asino sta bene, ed a te si raccomanda caldamente, ed io fo il mio conto di non iscostarmi da lui, quando anche mi facessero diventare il Gran Turco. La duchessa mia signora ti bacia mille volte le mani, e tu rendi ad essa il contraccambio con duemila; che non vi è cosa più a buon mercato, dice il mio padrone, e che meno costi, del procedere con creanza con tutti.
“Non è piaciuto a Dio di farmi inciampare in qualche altro valigiotto con altri cento scudi, come fu la volta passata, ma non te ne pigliare fastidio, Teresa mia, chè non l’andrà male: non la perde chi batte e ribatte, e tutto uscirà in bene col colatoio del governo.
“Mi dà molto imbarazzo quello che ho inteso dire, che se una volta mi ci metto dentro me ne mangerò, per gran diletto, le dita; se la faccenda andasse così non lo avrei a troppo buon mercato, ma già anche gli storpiati ed i monchi hanno il loro canonicato nella limosina che vanno accattando; e perciò in un modo o nell’altro tu hai ad essere ricca e di buona ventura. Dio te la conceda in ogni retto modo, e custodisca me per servirti.
„ Da questo castello, ai 20 di luglio 1614.
La duchessa, com’ebbe terminato di leggere la lettera, disse a Sancio: — In due cose esce del seminato il nostro buon governatore: consiste l’una nell’asserire o nel dare ad intendere che gli sia conferito questo governo per le frustate che si deve dare, mentre sa bene, nè può negarlo, che quando quello gli è stato promesso dal duca, mio signore, egli neppure sognavasi che i fossero frustate al mondo; l’altra si è che spiega un carattere di grande avarizia, ed io non vorrei che nascesse qualche disordine, perchè il soverchio rompe il coperchio, ed il governatore avaro fa che la giustizia resti svergognata. — Le mie parole non mirano a questo fine, rispose Sancio: e se a vossignoria pare che la mia lettera non vada a dovere, costa poca fatica lo stracciarla, e lo scriverne una nuova, la quale per altro sarebbe facile che riuscisse peggiore se si lasciasse fare al mio cervellaccio. — No no, replicò la duchessa, sta bene così, e voglio che il duca la vegga„.
Si recarono allora in un giardino dove aveano deliberato di pranzare in quel giorno, e la duchessa mostrò la lettera di Sancio al duca, il quale si mostrò molto persuaso del suo contenuto. Desinarono, e dopo levate le tovaglie e dopo essersi trattenati per buono spazio di tempo colla saporita conversazione di Sancio, si udì inaspettatamente il mestissimo suono di un piffero e di uno scordato tamburo. Tutti fecero mostra di mettersi in agitazione, attesa quella confusa, guerriera e malinconica armonia, e don Chisciotte singolarmente, il quale vedeasi che non poteva più star saldo nella sua sedia pel grande rimescolamento della persona. Non occorre parlare di Sancio, chè la paura lo trasse al suo consueto rifugio, ch’era il mettersi accanto o sulle falde del vestito della duchessa; e in realtà era quanto si può dire tetro e lugubre il suono che udivasi. Stando tutti così sospesi videro avanzarsi pel giardino due uomini in abito bruno, sì lungo e disteso che andavano strascicandolo per terra, e procedevano suonando due grandissimi tamburi, coperti egualmente di nero, tenendo a lato il suonatore di piffero, bruno e nero anch’egli. Erano questi tre seguitati da un personaggio di gigantesca statura, rivestito e coperto tutto di nerissima zimarra la cui falda era pure di smisurata grandezza. La zimarra era cinta nella parte superiore da largo armacollo, nero pur esso, e da cui pendeva smisurata scimitarra con fornimenti e con fodero nero. Anche il viso era nascosto da nero velo trasparente che lasciava scoprire lunghissima barba, bianca come la neve; e con molta gravità e posatamente moveva il passo al suono dei tamburi: in fine la sua grandezza, l’attitudine, la nerezza ed il suo accompagnamento potevano incutere terrore a tutti quelli che senza conoscerlo lo guardavano. Giunse dunque con quelle forme, e con quella prosopopea a mettersi ginocchioni dinanzi al duca; il quale ritto attendevate cogli altri circostanti, e non volle a patto alcuno che movesse parola se prima non si levasse. Così fece quel prodigioso spauracchio; e quando fu in piedi alzò il velo, e diè a divedere la più langa, la più bianca e la più folta barba che occhio umano fino allora avesse ravvisato; poscia trasse fuori dal dilatato suo petto, grossa e sonora voce, e posti gli occhi sul duca si fece a dire: — Altissimo e potente signore, io sono denominato Trifaldino dalla barba bianca. Io sono lo scudiere della contessa Trifaldi chiamata con altro nome la matrona Dolorida, da parte di cui porto un’imbasciata alla grandezza vostra, ed è che piaccia alla vostra magnificenza di darle facoltà e licenza che possa presentarsi a narrare la sua grande sventura, ch’è una delle più straordinarie e maravigliose che possa mai entrare in pensiere. E prima di altro vuol ella sapere se trovasi in questo vostro castello il valoroso e non mai vinto cavaliere don Chisciotte della Mancia, in traccia di cui viene a piedi, avendo digiunato dal regno di Candaia sino a questo vostro stato: cosa che ascrivere si può a miracolo od a forza d’incantamento. Ora ella è rimasta alla porta di questa fortezza o villa, nè altro attende per entrarvi fuorchè la vostra permissione„. Disse, tossì, portò le mani alla barba dimenandosela, e con sussiego stava aspettando la risposta del duca, che fu questa: — Corrono già, mio buono scudiere Trifaldino dalla bianca barba, molti giorni da che mi è nota la disgrazia della contessa Trifaldi, signora mia, dagl’incantatori chiamata la matrona Dolorida. Potete dirle, o maraviglioso scudiere, ch’entri, e che sta qui appunto il gagliardo cavaliere don Chisciotte della Mancia, dal cui generoso animo può promettersi con certezza ogni difesa ed aiuto; e potete dirle ancora da parte mia che se avrà bisogno del mio avere questo non le mancherà, chè mi tiene obbligato l’essere cavaliere, a cui è debito assoluto di proteggere ogni sorta di donne, ed in ispeciale modo le matrone vedove povere e afflitte, come debb’esserlo la contessa„. Ciò udendo Trifaldino piegò il ginocchio sino a terra, e poscia dando segno al piffero ed al tamburino che suonassero allo stesso suono e allo stesso passo con cui egli era entrato, uscì dal giardino, lasciando tutti trasecolati del suo trasfiguramento.
Voltossi il duca a don Chisciotte, e gli disse: — Non può rivocarsi in dubbio, o celebratissimo cavaliere, che lo splendore della virtù non può essere oscurato dalle tenebre della malizia e della ignoranza. Così mi esprimo, perchè non conta appena la bontà vostra la dimora di soli sei giorni in questo mio castello, che già viene gente in traccia di voi da lontani e rimoti paesi; nè si valgono di carrozze o di dromedarii, ma viaggiano a piedi e digiuni i dogliosi e gli afflitti, confidati di trovare nel vostro fortissimo braccio rimedio alle loro sciagure ed ai loro travagli: e tutto questo la mercè delle sublimi imprese vostre le quali riempiono e sbalordiscono tutta la terra scoperta. — Io vorrei, signor duca, rispose don Chisciotte, che qui presente si trovasse ora quel buon religioso che l’altro giorno alla vostra tavola spiegò sì mal talento e sì mal animo contro i cavalieri erranti; e vedrebbe egli adesso cogli occhi suoi proprii se il mondo abbia necessità o non l’abbia di noi cavalieri; toccherebbe con mano che gli oppressi da straordinarie traversie ed afflizioni nei casi importanti e nell’enormi disdette, non vanno già a mendicare sovvenimento alle abitazioni dei letterati, nè agli alberghi dei sagrestani dei contadi, nè al cavaliere che non trovò mai la via di uscire dai confini del suo paese, nè al cortigiano infingardo avido di novelle per divulgarle, anzi che di accingersi a fatti ed a prodezze meritevoli di essere da altri raccontate e descritte. Il porgere rimedio alle sventure, soccorso alle indigenze, protezioni alle donzelle, consolazione alle vedove in verun ordine di persone non trovasi meglio che nei cavalieri erranti. Non finirò mai di rendere grazie al cielo che mi diede di potermi vantare di questo nome, ed avrei per venturosi e ben sofferti i travagli e le disgrazie che in avvenire potesse mai cagionarmi sì onorato esercizio. Vengane pur avanti questa matrona, e mi significhi ciò che brama mentre io le farò trovare ogni salvezza nel valore del mio braccio e nella intrepida risoluzione dell’animoso mio spirito.