Discorso commemorativo su Giacinto Gallina

Raffaello Giovagnoli

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RAFFAELLO GIOVAGNOLI


DISCORSO COMMEMORATIVO

su

PRONUNCIATO



la sera del 4 marzo 1897



PER CURA


della Società degli autori drammatici e lirici italiani

residente in Roma



E. LOESCHER E C.

(BRETSCHNEIDER & REGENBERGER)


ROMA

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GIACINTO GALLINA


Conobbi Giacinto Gallina sul finire del 1877 e, per due anni, vissi in quotidiana intrinsechezza con lui e col compianto poeta e drammaturgo Vittorio Salmini, in quella dolce, orientale, bellissima Venezia, sulla quale, per dieci secoli, la storia diffuse un nimbo di gloriosi ricordi e l’arte profuse i suoi più ricchi e smaglianti tesori.

Giacinto Gallina aveva allora circa venticinque anni. Piccolo della persona, dal volto bruno, aveva fronte spaziosa e occhi neri, intelligenti, vivissimi, che scintillavano dietro le lenti dell’occhialino, che egli portava infisso perennemente sul naso. Vestiva assai dimessamente ed era, per naturale tendenza e per abitudine, trasandato nel suo abbigliamento.

Modesto, quasi timido ed impacciato nei primi incontri, scevro della vernice dei complimenti convenzionali, sdegnoso delle ipocrisie sociali, egli era piuttosto ruvidetto dei modi, franco, risoluto, leale, aperto nelle parole e negli atteggiamenti, facile a [p. 4 modifica]subire le impressioni della simpatia, pronto ad effondersi nell’abbandono dell’amicizia.

E allora egli non era più il giovane serio, taciturno, quasi burbero, che era sembrato a prima vista: l’uomo si trasformava allorché la confidenza gli spingeva sulle labbra il sorriso: il suo volto si irradiava e dalla sua bocca spicciava fresca e zampillante la vena inesauribile dei motti, dei frizzi, delle arguzie, spessissimo fatti più saporiti dalla forma dialettale della melodiosa e coloritrice favella veneziana.

Quando io lo conobbi, Giacinto Gallina aveva già dato al teatro tre gioielli: Le Baruffe in Famegia, La Famegia in rovina, Le serve al Pozzo e un capolavoro: El Moroso dela Nona.

Nel primo colloquio che ebbi con lui, io, che ero di già suo ammiratore, andavo cercando invano — in sul principio — nel suo viso le traccie del quell’ingegno così vivo, così festevole, così giocondo che avevo veduto risplendere nelle sue commedie: ma quando, due ore dopo, uscimmo affratellati dal Caffè degli Specchi, l’autore spigliato, il commediografo arguto, l’ingegno potente che io cercavo, l’avevo trovato.

E, da quel giorno, vivemmo stretti da vicendevole affetto: e il ricordo delle tante sere trascorse insieme in giulivi e spirituali ritrovi, in cui la visione dell’arte regnava sovrana, mi scende più melanconicamente dolce nell’anima, ora che la morte rapace ha spento, innanzi tempo, quel vigorosissimo intelletto, quel nobilissimo cuore.

A quel tempo il nome di Giacinto Gallina era già quasi salito in onore: ed egli era povero, e modesto, modesto fino all’umiltà; più tardi, le nuove sue commedie gli diedero una tenue agiatezza, la sua riputazione si era accresciuta, ed esso era sempre [p. 5 modifica]modesto ed umile; da ultimo la pubblica opinione, la coscienza nazionale assegnavano ormai a Giacinto Gallina un posto nel padiglione della fama ed egli, umile e modesto sempre, si considerava appena un operoso e coscienzioso artista. Pareva quasi che, in questi ultimi anni, egli si studiasse di rimpiccinirsi, di nascondersi per farsi perdonare la potenza del proprio ingegno e la gloria che veniva di sue ghirlande incoronando le bellissime sue artistiche produzioni.

E modestia vera e sentita era la sua; che in quell’anima mite, buona, generosa, verso tutti gli uomini amorosissima, non penetrarono mai nè i torbidi sussulti dell’invidia, nè i palpiti nervosi della vanità, nè i fumi inebrianti della superbia: come mai, in quella mente equilibrata, poderosa, vagheggiatrice sempre di un alto ideale artistico, non entrarono i calcoli interessati di una bassa speculazione.

Allorché egli si accinse a scrivere pel teatro, scarso era il corredo del suo sapere, limitati i suoi studii ed egli stesso ingenuamente lo confessava. Ma sull’arduo cammino lo illuminava, nei primi suoi passi, quella fiamma che gli alitava dentro. Quel finissimo spirito di osservazione, quella intuizione profonda, quella felice misura delle passioni, quella giusta contemperanza fra la impressione e la espressione, quell’equilibrio mirabile nella contemplazione della realtà e della idealità e nella lora riproduzione, tutte queste doti preziose, che egli possedette tutte in grado eminente, egli le sortì dalla natura e le affinò, da principio, solo nella lettura e nell’ammirazione delle commedie dell’immortale suo concittadino Carlo Goldoni.

Successivamente la esperienza ognor crescente della scena, gli studii ampliati, l’età più matura, poterono perfezionare ancora quelle doti naturali; ma da esse precipuamente derivò la maggior parte della [p. 6 modifica]genialità che splende nell’opera di lui, la maggior parte del successo continuo, durevole che le commedie del Gallina dovunque accompagna.

Mirabile temperamento di artista in cui si accordarono tutte le qualità in grado eccellente, senza eccessi di prevalenza! In lui la fantasia viva pari alla seria riflessione, l’impeto del sentimento uguale al lume della ragione hanno costituito quell’organismo sano, robusto, perfettamente umano, che vive e vuol vivere nel campo della naturalezza, aspirando, a pieni polmoni, l’aere puro e balsamico che suscita, in quel campo, il battito delle ali della verità.

E perciò su lui non esercitarono la benché minima influenza né il nevrotismo, né l’isterismo, né il sentimentalismo, che, da oltre venti anni, vanno, come ebriose baccanti, riddando nelle abbuiate e scompigliate regioni dell’arte italiana, suscitando mostruosi fantasmi — che di umano non hanno neppur le sembianze — e dando ad essi atteggiamenti, che dovrebbero esser nuovi e di singolare bellezza e che riescono bizantinamente grotteschi.

Onde la dimora dell’arte é divenuta un ospedale, ove, in omaggio al realismo, si analizzano e si mettono in mostra tutte le forme morbose che abbiano rinvenuto la patologia e la psichiatria, tutte le ulceri più ributtanti e cancrenose che la chirurgia abbia scoperto nella sempre crescente schiera dei degenerati; ove, in ossequio al naturalismo, si scrutano, fra miasmatiche esalazioni, i più luridi recessi delle fogne cittadine per illustrarvi il vibrione domestico, il microbo sociale, gli atteggiamenti più maialeschi della scimmia umana.

Da un lato scrittori i quali, per desiderio di esser detti novatori, spiritualizzando le cose inanimate, fan parlare gli alberi e le fontane, dànno fisonomia umana alle case, ai mobili, alle colonne, fanno aggrondate [p. 7 modifica]le porte, accigliate le seggiole, sorridenti le finestre e altro non rinnovano che il tanto detestato secentismo; dall’altro lato poeti, pittori e drammaturghi che, brancolando, come sonnambuli, fra le gelide brume di un vaporoso simbolismo, offrono alla scolastica sottigliezza dei loro ammiratori rebus incomprensibili da spiegare e ricascano nel mistico allegorismo medioevale.

E, attorno a tutte queste forme nevrotiche e morbose — e che pur costituiscono le più alte forme dell’arte nuova — non meno ammirate, non meno applaudite pullularono, come prolifica fungaia, in questo ventennio, le forme più volgari, più basse dell’operetta, della pochade, del Cafè chantant, squisiti e dignitosi sollazzi a cui attingevano nobiltà, di sentimenti, aspirazioni ad alte idealità, energie di opere grandi e virili le nuove generazioni.

Ora, in mezzo al frastuono di quelle diverse lingue e di quelle orribili favelle, proprio nel momento in cui la vecchiezza ammutoliva la musa di Paolo Ferrari e la morte spezzava, innanzi tempo, la penna poderosa di Pietro Cossa, mentre la letteratura sommarughiana faceva prova d’incretinire gl’Italiani, Giacinto Gallina sereno, securo, imperturbato, continuava a percorrere la sua via e, dopo quel mirabile Moroso de la nona, egli dava fuori La chitarra del papà, Zente refada, Teleri vechi, Gli oci del cor - un altro capolavoro - Mia fia, Amori in provincia, Niente de novo, La mama no mor mai, Così va il mondo, Esmeralda, Serenissima, Fora del mondo, La famegia del santolo, La base de tuto: quattordici commedie in venti anni.

Ad ogni nuova produzione un nuovo successo e non di applausi soltanto, ma lautissimo di danaro pei capo-comici.

Ma egli non torse mai il piede dalla via diritta, non esitò, non pencolò e - ciò che più importa - non [p. 8 modifica]dubitò; non valsero a smuoverlo nè i clamorosi successi dei novatori, nè i rauchi inni di sette o otto giovani critici - stretti in coraggiosa e redentrice società di assicurazione pel salvataggio degli aborti nè l’apparente favore del pubblico, nè l’aura della moda, che sembrava - in tanta confusione di idee, di criterii e di giudizii - spirar propizia alle nuove scuole naturalista e simbolista, benché opposte fra loro nei metodi e nel fine.

Tutti - anche i più valenti ed animosi fra i nostri giovani autori - vacillarono alquanto, tutti sacrificarono alla mutabile Dea cui il Parini dedicò il suo Poema satirico, tutti volsero, fosse pure per breve ora, la prora verso i remoti lidi di cui promettevano la scoperta i nuovi Vaselli di Gama e i nuovi Magellani: ma Giacinto Gallina no.

Egli rimase saldo nella sua fede e, in mezzo ai tanti smarriti fra i dedalei sentieri del laberinto dell’arte, esso avrebbe potuto dire di sè, ciò che il divino Michelangelo, in mezzo ai decadenti e ai baroccheggianti del proprio tempo, diceva di sè stesso:

“Io vo per vie non calpestate e solo. „

Egli non cercò e non vagheggiò che la verità nell’intreccio dei fatti, la umanità nei caratteri dei suoi personaggi, la naturalezza nella sceneggiatura... modestissime aspirazioni - come si vede - eppure tanto difficili ad attuare; finalità, semplicissime a prima vista, e tanto ardue a raggiungere, ma per mezzo delle quali soltanto l’opera d’arte consegue la perfezione e la durevole fama.

Egli, quindi, non cercò mai il tipo morboso, o il caso patologico, o il carattere eccezionale: persuaso che all’arte sia anche consentito di essere educatrice, convinto che l’arte, essendo l’espressione del pensiero e del sentimento di un popolo, non sia obbligata a [p. 9 modifica]volgersi soltanto ad una classe di pretesi intelligenti, o ad una consorteria di seguaci di una determinata scuola, ma possa indirizzarsi a tutto un popolo; mosso dalla certezza che - come osservò il sommo Macchiavelli - gli uomini non siano al tutto buoni o al tutto cattivi, Giacinto Gallina si volse al popolo, studiò sul popolo, e scrisse in dialetto veneziano quanto volete, signori - ma per tutto il popolo italiano. Anzi oserò dire di più: affermerò che scrisse per tutti gli uomini.

Perchè, se è vero che i casi, onde sono intrecciate le sue commedie avvengono quasi sempre a Venezia, non è meri vero che essi son casi universali, veri da per tutto, perchè derivati dall’urto delle passioni umane, che sono, su per giù, uguali da per tutto. E, se è vero pure che i personaggi delle commedie del Gallina parlano quasi tutti in veneziano, non è men vero che, nei loro moti, nei loro pensieri e sentimenti, essi sono non soltanto italiani, ma umani, rappresentanti i tipi di certe doti e di certe debolezze, di certi pregi e di certi difetti inerenti alla umana natura e che, date certe situazioni, si svolgono ovunque allo stesso modo.

E che la mia affermazione non sia esagerata lo prova il successo ottenuto dalle commedie del Gallina in Austria e in Ungheria.

Con le qualità rare di cui lo aveva fornito natura perchè egli potesse riuscire un grande commediografo — e che io dianzi ho accennato — il Gallina studiò ed osservò continuamente gli uomini in mezzo ai quali viveva, con analisi fine ed acuta; poi, con sintesi poderosa, riunì, raccolse, riassunse nel suo personaggio tutti i varii aspetti, le varie sfumature di quel dato vizio o di quella data virtù da lui riscontrate in dieci, in quindici, in venti diversi individui e si trovò delineati i caratteri di Malgari, di Menego, di Sior Anzolo, di Bortolo, di Momolo, [p. 10 modifica]di Nane, di Esmeralda, di Serenissima, del Zentilomo Vidal e via di seguito.

Ma oltre alla verità, alla umanità dei caratteri, talvolta tratteggiati con evidenza ed efficacia tizianesca, talora rilevati con le finezze dei ferri di Donatello, è il fondo del quadro, è l’intreccio degli avvenimenti, è l’urto naturale delle passioni e le emozioni potenti e soavissime che ne scaturiscono, sono queste le qualità più spiccate che conferiscono un fascino indefinibile e a cui non si resiste alle commedie del Gallina.

Non casi straordinarii ed eccezionali, non seduzioni, non rapimenti, non adulteri con i relativi duelli e suicidi che ne conseguono, non malattie atavistiche, non alcoolismi ereditari, non pazzie ragionanti e determinanti l’azione, non forze irresistibili, non nebulose visioni spettrali formano l’argomento delle azioni drammatiche del Gallina, ma avvenimenti semplici, ordinarii, comuni: discordie domestiche, abbassamenti di fortuna, amministrazioni disordinate, orgoglio di nuovi ricchi, amori contrastati, accecamenti d’amore paterno, cose che avvengono ogni giorno, insomma, e le quali sono nondimeno ritratte dall’autore con:

“L’arte che tutto fa nulla si scopre „

con tale evidenza di verità, in tale accuratezza di particolari, con tanta efficacia di colorito, con siffatta vivzeza, brio e festività di dialogo, con così sovrabbondante naturalezza di sceneggiatura che il quadro complessivo risulta magistrale e il godimento spirituale degli spettatori grandissimo.

Ma, oltre questi pregi inestimabili, v’ha quasi sempre, nelle commedie del Gallina, la mozione degli affetti, ottenuta, senza il minimo sforzo, naturalmente, per l’influenza della situazione, dalla quale [p. 11 modifica]non di rado risultano nell’animo degli uditori moti di soavissima tenerezza da trarre alla dolcezza delle lacrime.

E poi su quei casi veri, su quei personaggi vivi e reali l’arte del commediografo diffonde una mite azzurrognola quasi impercettibile luce di idealità, che sembra attenuare lievemente qualche troppo cruda asprezza della verità, la quale vi viene, talvolta, presentata come il principale personaggio in una grande azione coreografica, posto sotto il riflesso della luce elettrica; il personaggio è quello, è vivo, è reale, ma pure, sotto il riflesso speciale di luce in cui si trova, appare suffuso di una tinta più poetica e benigna.

Ma, anche in tutto ciò, il Gallina usò sempre tale e tanta misura da non potere essere accusato nè di sentimentalismo, nè di artificio.

Ora tutte queste bellezze splendevano nelle sue commedie; e nel raggiungere i massimi effetti possibili con minimi e semplicissimi mezzi consiste — a mio modesto avviso — il sommo dell’arte.

Allora, quando lo spettatore o l’uditore si trova dinanzi ad un’opera d’arte, il cui principale apparente fondamento stia nella semplicità e quando egli vede e sente che, non ostante l’apparente semplicità, quell’opera è bella, allora sorge nello spettatore o nell’uditore la difficoltà del rendersi e del rendere altrui ragione delle sue impressioni.

— Perchè è bella quell’opera d’arte?

— Mah!... Perchè è bella.

Recentemente entrai nella chiesa S. Maria del Popolo - dove torno, di tanto in tanto, ad ammirare i tesori artistici ivi profusi dal Pinturicchio, dal Sansovino e da Raffaello - il quale (e sia detto fra parentesi) non ostante gli isterici furori preraffaellistici resta sempre, come Omero del limbo Dantesco, [p. 12 modifica]Pittore sovrano - e mi soffermai a contemplare, quasi in estasi, per oltre un quarto d’ora, i due sepolcri dei cardinali Basso e Sforza. Quella purezza, quella semplicità di linee, leggiere, quasi volitanti, quasi aeree mi inebriavano e, pur compreso della bellezza di quei monumenti, mi domandai:

— E se qualcuno mi chiedesse: “perchè trovate voi tanto ammirabili quei due sepolcri, perchè li reputate tanto belli? „ che cosa risponderei io? come spiegherei le ragioni di questa bellezza?

E sentii che sarei stato imbarazzato nella dimostrazione; e mi parve che avrei goffamente concluso che quei monumenti eran belli perchè eran belli.

Perchè è sovranamente bella, indefinibilmente bella la musica delle Quattro Stagioni di Haydn, o del Matrimonio Segreto del Cimarosa?...

Perchè tutta quella grazia, tutta quella eleganza di armonie hanno il loro fondamento nella semplicità tematica di semplicissime melodie.

Perchè è bello il Ventaglio dell’immortale Goldoni?

Perchè rappresenta il più gaio, complicato e pur naturale intreccio comico che si possa immaginare, e originato da un nonnulla.

E altrettanto, per conto mio, dico delle commedie di Giacinto Gallina.

Perchè io sento che sono belle, indiscutibilmente belle la Famegia in rovina. FI moroso de la nona, Gli ochi del Cuor. Fsmeralda, Serenissima?...

Perchè in quei quadretti, così leggiadri, così eleganti, così puri nella semplicità delle loro linee, avvi un profumo soavissimo di ingenua verità che si sente, che vi attrae, che vi commuove e che non si definisce.

Qualcuno dei sette o otto giovani critici della [p. 13 modifica]società pel salvataggio degli aborti ha rimproverato al Gallina di essersi troppo inspirato al sommo Goldoni: accusa quanto falsa altrettanto sciocca.

Tutti i personaggi posti in scena da Giacinto Gallina hanno impronta nuova, fisonomia moderna e differiscono negli atti, nelle parole, nel costume - non nelle passioni, perchè quelle sono universali, immutabili, eterne - differiscono dai personaggi del grande Goldoni di tanto, di quanto i tempi beati della sonnolenza, dell’indolenza, dei nei e del minuetto in cui questi visse e scrisse, sono differenti dalla età agitata, febbrile, convulsa in cui noi viviamo.

E se, non ostante queste evidenti differenze, somiglianze ed analogie grandi intercedono fra il glorioso autore del Don Marzio e del Burbero benefico e il suo valorosissimo continuatore, di cui oggi amaramente deploriamo la perdita, queste fortuite rassomiglianze si hanno da ricercare, non nella.imitazione del Gallina - la quale non esiste - ma in due altre evidentissime cause: nell’avere cioè, l’autore del Moroso de la nona sortito da natura parecchie delle qualità osservatrici di cui fu pure così ricco il Goldoni; e nell’avere ambedue gli autori attinto le loro ispirazioni alla stessa inesauribile fonte, la natura.

Per tutte queste ragioni, e per molte altre che potrei addurre, ma che ommetto, perchè voi, o signori, le intendete e le seutite di per voi stessi, appar chiaro come vera, umana, sana, robusta, vitale, duratura sia Topera artistica di Giacinto Gallina, al quale non fu dato concorrere neppure ai prendi per l’arte drammatica assegnati dal Governo nazionale, perchè quei prendi eran destinati alle commedie scritte in italiano — e spesso, quale italiano! — e non potevano aspirarvi quelle scritte in dialetto!

Eppure quante commedie naturalistiche, realistiche, patologiche, fra quelle che ebbero il premio [p. 14 modifica]governativo, sono già morte, seppellite, dimenticate, quantunque scritte in italiano, mentre, molte delle commedie scritte in veneziano dal Gallina sono ancora fresche, belle, vive e vigorossime!

Quanti trionfi fatui ed effimeri ha veduto passare dinanzi a se, e dileguarsi e vanire il Moroso della nona! Le commedione a tesi sociali, che, non ostante il loro preteso verismo, eran false, artificiose, convenzionali, sono sparite, mentre esso sta, vegeto e robusto, sulla ribalta all’ammirazione non mai esaurita del pubblico italiano e forestiero.

Il popolo, che ha in se il sentimento complessivo della coscienza nazionale, intuisce, sente, comprende che in Giacinto Gallina non è morto soltanto un artista, un letterato, ma sente e comprende che è morto il suo poeta, colui che, immacolato da stranieri bastardumi, da convenzioni artificiose, seguendo la tradizione vera dell’arte italiana, conservò alla commedia la schietta e genuina sua impronta paesana, sente e comprende che è morto colui che dal seno del popolo traeva i suoi tipi, i suoi drammi e le aspirazioni dell’arte sua, spontanea e meravigliosa.

E’ un vero plebiscito di dolore e di affetto che prorompe da tutta l’Italia attorno alla bara dell’adorato commediografo: e a questo plebiscito partecipano pure, con amplissime e universali attestazioni di dolore tutte le genti italiane che da Trento, dall’Alpi Giulie, da Trieste, dall’Istria gioiscono delle nostre gioie, trepidano pei nostri perigli, gemono alle nostre angoscie, riaffermando continuamente la loro fratellanza di stirpe — consacrata dalla geografia, dalla lingua, dalla storia — con noi latin sangue gentile.

Ma pure, in questo lutto dell’arte nazionale, in questo movimento popolare di ammirazione e di affetto verso il grande commediografo, un pensiero cerca di farsi strada nell’animo mio e una voce, che viene [p. 15 modifica]dall’intimo del mio cuore, mi sussurra: eppure Giacinto Gallina non è morto. E quella voce sussurra il vero: egli non è morto.

Noi possiamo e dobbiamo piangere perchè non vediamo più fra noi l’uomo, l’amico: l’uomo buono, affabile, ingenuo, generoso, onestissimo; l’amico gaio, festevole, amoroso, dilettissimo; ma l’artista fine, potente, genialissimo, è rimasto con noi trasfuso nella valida, efficace, mirabile opera sua.

No, signori, Giacinto Gallina non è morto: egli vive nell’arte che è bellezza ideale, nell’esempio che è luce educatrice, nell’amore che è vita ed eternità.