Discorsi della Società Nazionale per la Confederazione Italiana/Broglio
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- Signori,
Io debbo trattenervi, o Signori, della utilità somma della Confederazione Italiana nei rapporti economici: che è quanto dire dei vantaggi che debbono dalla Confederazione derivare ai singoli stati, dell’aumento di ricchezza pubblica e privata che ne sarà l’immediata conseguenza, e della nuova sorgente di prosperità che sua mercè sarà per sgorgare e diffondersi su tutto il bel paese. Niuno è che non veda l’ampiezza di questo argomento, e come a svolgerlo degnamente si richiederebbe maturità di meditazione, copia di dati statistici, sicurezza di confronti storici, tutte cose per le quali sarebbe pur necessario, oltre l’ingegno che mi manca, una lunga, e scritta, e riposata esposizione. Ma chi potrebbe, fra le amare incertezze dell’esiglio, lontano dai libri e dalle care consuetudini de’ proprii studii, con tutte le facoltà dell’intelletto e del cuore mortificato dai mali presenti, e dalla trepidante aspettazione del futuro, chi potrebbe abbandonarsi a lunghe ricerche e a profonde meditazioni? Io non mi sento questa forza, o Signori; e però vi prego di volermi tenere per iscusato se dovrò limitarmi ad una improvvisa, epperò disadorna esposizione di poche idee generiche, necessariamente superficiali, le quali sfioreranno appena la gravissima importanza del tema che mi assunsi a trattare: bene m’accorgo che questo sarà un troppo male corrispondere alla legittima vostra aspettazione; ma d’altra parte mi rassicura la cortese benevolenza degli animi vostri, o Signori; ché bene v’immaginerete non essere certamente per mia colpa o per imperdonabile presunzione ch’io mi trovo adesso costretto a raccomandarmi alla somma vostra benignità.
Se noi gettiamo uno sguardo nella storia, le nazioni dei secoli passati ci appajono povere e infelici, assai più povere e più infelici di quelle che ci stanno adesso innanzi agli occhi, e che tuttavia ci commovono a così profonda compassione. Non è sicuramente in Italia, nel paese di Genova e Venezia, le grandi città mercantili, nel paese di Firenze e Milano, le città famose per industria agricola e manifatturiera, nel paese insomma delle cento Repubbliche rivali ma splendide che illustrarono il medio-evo, non è dico in Italia né a bocca italiana che sarà concesso di lodare il presente a spese del passato; ma in tutto il resto d’Europa se noi alziamo un lembo del manto funerario che copre le defunte generazioni; che squallore, che orribile squallore non ci offende la vista! Un’agricoltura, priva di capitali, digiuna di nozioni scientifiche, senza marnature e senza irrigazioni, in mezzo a paludi e a boschi che coprivano la faccia del suolo, dava poche e miserabili derrate in compenso di lunghi sudori: o se la straordinaria fecondità naturale della terra dava abbondanti e spontanei prodotti ai felici abitatori di poche plaghe privilegiate, la mancanza di strade e canali, che è quanto dire d’ogni possibilità di considerevoli trasporti, faceva sì che l’abbondanza d’un luogo non potesse punto sopperire alla dolorosa deficienza degli altri. Di qui le orribili e frequenti carestie che funestano ad ogni tratto le cronache degli avi nostri, mentre oggidì malgrado tanto aumento di popolazione si fanno sempre più rare e difficili nella civile Europa, e appena una lagrimevole traccia ancor ne rimane in quella povera, e non mai abbastanza compianta isola d’Irlanda.
Una manifattura casalinga e femminile, senza macchine, senza divisione di lavori, senza commercio che ne permutasse i prodotti, doveva necessariamente restringersi alla grossolana fabbricazione delle poche cose che pure occorrono al soddisfacimento dei più urgenti bisogni della vita.
Finalmente un commercio senza capitali, senza sicurezza, senza strade, senza canali, senza varietà di prodotti da permutare, senza pesi, e misure, e monete, e leggi comuni, si limitava a tenere ogni anno fornita di merci qualche rinomata fiera dove le popolazioni accorrevano ad approvigionarsi come a s. Elena o al capo di Buona Speranza si approvigiona ai dì nostri un vascello pei lunghi mesi d’avventurosa navigazione. Così che la vivacità e l’antico splendore delle fiere, tanto ammirato e rimpianto dai padri nostri, era prova evidentissima di una semibarbara povertà nelle popolazioni. La quale appare indirettamente anche da questo, che la scienza della pubblica economia, la scienza che appunto si occupa della produzione, distribuzione e consumazione della pubblica ricchezza, è scienza di recentissima formazione, e forse l’ultima nata delle scienze.
Di questo deplorabile stato di cose molte furono le cause: ma a nessuna seconda l’enorme moltitudine di stati in cui era divisa l’Europa: delle nostre divisioni italiane è vano il far cenno quando ogni città porta l’impronta d’una particolare dominazione, S. Marco a Venezia, i Carrara a Padova, gli Scaligeri a Verona, i Gonzaga a Mantova, gli Estensi a Ferrara, e così discorrendo: delle divisioni Germaniche sarebbe troppo lunga, ed aspra anche troppo e disgustosa la nomenclatura: sicchè basti il dire che prima della pace di Vestfaglia e delle guerre Napoleoniche forse 500 erano gli stati Germanici; e le città libere, adesso ridotte a sole 4, erano allora più di 50. Se non che le divisioni economiche erano maggiori ancora, maggiori assai delle politiche, però che ogni stato si suddividesse in varie provincie aventi leggi e dogane particolari: e la stessa Francia alla quale naturalmente ricorre sempre il pensiero quando va in traccia di esempi straordinari d’unità, la stessa Francia anche dopo il ferreo giogo di Luigi XI e di Richelieu che non perdonarono nè a tradimenti nè a crudeltà per conseguire il grande scopo della fusione nazionale, pure fino alle riforme di Turgot, o a dirittura fino alla grande rivoluzione del 1789 andò divisa in tante provincie quali erano la Bretagna, la Normandia, la Linguadoca, la Guascogna, la Borgogna, ed altre molte, aventi tutte una esistenza economica a parte.
Or vedete, o Signori, quanti mondi, o piuttosto quante monadi economiche ci presentava la vecchia Europa: e tutte dovevano bastare a sè stesse, per la mancanza di permutazioni commerciali: e quand’anche non avessero dovuto, volevano: perchè il comperare dagli altri ciò che abbisogna a noi fu per un tempo lunghissimo, ed è ancora da molti che si credono dotti, denominato un pagamento di tributo allo straniero: e non è a dire con quanto studio di proibizioni e di doganieri s’impedisse ogni commercio tra gente e gente, anzi pure tra paese e paese. Sicchè ogni singola popolazione era forzata a produrre contro natura e contro buon senso, e contro il noto adagio non omnis fert omnia tellus, era, dico, forzata a produrre tutte le masse delle cose necessarie. Ora io non credo che mente umana possa immaginarsi l’orribile sciupo di capitali, le somme favolose sprecate che furono la necessaria conseguenza d’una così assurda posizione di cose durata per secoli. A porgerne una lontana idea basti un esempio. L’India ci si presenta sempre nelle storie come la terra delle manifatture: abitata da una popolazione densa, laboriosa, parca, paziente: la mano d’opera vi è a prezzo assai vile, ed il lavoro vi riesce perfettissimo; così che sino dai tempi di Augusto, Roma traeva dalle Indie le stoffe più fine è preziose, alle quali i preti davano il nome di vento tessuto (ventum textilem). Or bene; surta la grande potenza industriale inglese, trovato il carbon fossile ed il vapore, l’India non potè più sostenere la concorrenza sopra i mercati del mondo: che anzi il buon mercato del lavorìo inglese giunse a tal punto, che adesso le navi dell’Inghilterra caricano il cotone a Calcutta, lo trasportano a casa loro, dov’è filato e tessuto, e d’onde, riportano le stoffe a Calcutta, dove sono vendute a prezzo inferiore delle stoffe tessute in paese, malgrado l’immenso mare interposto, e la spesa del doppio viaggio: e così a poco a poco l’industria britannica soffoca e spegne col buon mercato l’indiana, ch’era pure antica come il mondo, e surta spontanea come un fatto naturale: ma l’arte prevalse alla natura: ora quanta non sarà la sproporzione dei prezzi, e la perdita conseguente dei capitali, ogni qual volta un’arte rozza trapiantata per forza di capriccio umano in mezzo ad un’avara natura, si pretende farla lottare contro un’arte perfetta e gigante, spuntata, quasi direi, dal suolo stesso che la nutrica, e per espressa volontà della natura, come una palma nel deserto: allora si hanno le famose tariffe doganali che proibiscono a centinaia di rubriche le manifatture straniere, o che proteggono con dazii doppii del valore primitivo della merce: allora si hanno questi assurdi economici, che una tonnellata di ferro che potrebbe valere 250 franchi tratta dall’Inghilterra o dal Belgio, si deve pagare 700 nel regno Lombardo-Veneto, costretto dall’Austria mediante le proibizioni a ricorrere alle ferriere germaniche.
La pazza cecità di tal sistema fu messa in evidenza nella seconda metà del secolo scorso per opera di Adamo Smith e dei nostri famosi Economisti; i teoremi della scienza rimasero, come suole avvenire, per molti anni confinati nel recinto delle scuole e nelle pagine dei libri condannati ad una lunga infecondità per opera dei sapienti politiconi, i quali solevano trattare come sogni tutte le nuove idee ch’essi non avevano o l’attitudine o la voglia di capire; ma finalmente i privati interessi se ne impadronirono, ed il commercio gridò anch’esso libertà! Questo grido in nessun luogo era tanto legittimo come in Germania, dove era appunto eccessiva la divisione del territorio: i Principi si scossero e si spaventarono a questo nuovo fenomeno degl’interessi materiali cospiranti, per una strana combinazione, colle più nobili e più entusiastiche idee di patriotismo in favore dell’unità nazionale: conobbero l’assoluta necessità di scindere subito questa lega terribile della materia collo spirito, cercarono il modo di disinteressare nella questione il commercio, e l’ebbero trovato nel famoso Zollverein o Associazione doganale germanica, in forza della quale vennero ad un tratto soppresse tutte le linee doganali interne fra stato e stato germanico, ed i confini per così dire economici, furono trasportati all’estremo lembo del territorio confederato. Così andò la cosa per forse dodici anni, finchè l’idea nazionale, abbandonata a sè stessa dal commercio soddisfatto, volle e potè avere anch’essa il suo trionfo e la sua lega, onde nacque il nuovo Francoforte ed il nuovo Impero Germanico: sui cui destini sarebbe difficile il profetare, e sarebbe d’altronde un allontanarsi troppo dal tema che ci siamo proposto.
Quello che avvenne così opportunamente in Germania collo Zollverein avverrà pure non meno opportunamente in Italia colla Confederazione. Spariranno le linee interne doganali fra stato e stato: tutta Italia sarà una sola famiglia economica: i prodotti diversi della nostra ubertosa e svariata natura si permuteranno con universale utilità: gli olii, gli aranci, la manna di Sicilia si baratteranno nel cacio di Lombardia e coi velluti di Piemonte: molte migliaja di miglia di confini saranno soppressi, e tornerà quindi inutile quell’esercito di doganieri che gli stati mantengono a combattere un altro esercito di contrabbandieri con tanto danno della pubblica e privata moralità: non sarà più azione indifferente o anche gloriosa il frodare lo stato perchè le pessime legislazioni non pervertiranno più il senso morale naturalmente così retto nei popoli italiani: l’agricoltura, le manifatture e il commercio, tutta insomma l’attività e l’industria umana dilatandosi sopra un campo maggiore darà frutti più abbondanti e più sicuri, perchè l’estensione del mercato fa la sicurezza e l’abbondanza dei guadagni, le strade ferrate solcheranno da un capo all’altro la penisola; nuova fonte di ricchezza e nello stesso tempo legame di fratellanza: sorgerà una numerosa marina mercantile protetta da una forte e gloriosa armata che percorrerà gli ampi mari in traccia di scoperte commerciali e scientifiche, guardandosi dagli errori della Germania dove la lega daziaria ebbe lo strano effetto di esagerare la protezione contro ogni teoria ed ogni buon senso; l’Italia troverà invece nel libero scambio di prodotti con tutte le nazioni della terra una sorgente di agiatezza generale e diffusa, e nello stesso tempo un vincolo d’alleanza e di pace, e potrà forse ancora una volta aspirare ad una nuova fase di primato: tutti i popoli tendono da secoli all’unità: la natura italiana, più d’ogni altra, è reluttante e ritrosa, nè senza gravissime e riposte ragioni: ebbene! troviamo nel vincolo federativo i vantaggi dell’unità con quelli della varietà e della naturale libertà singolare: allora Italia, a cui sola manca la forza, potrà sorgere superba e camminare maestosa al cospetto delle nazioni. Sognarono i poeti che le fate immortali detergessero dal proprio volto le rughe della vecchiezza colle abluzioni e i lavacri delle acque portentose, sicché uscivano dal magico fiume belle di gioventù rediviva: così faccia l’Italia, la nostra terra adorata; e a lei sia lavacro e battesimo di salute la Confederazione: ond’io finirò col Poeta:
È questa la maga del divo sorriso
Che scese nei gorghi del rivo possente;
Le grazie rinnova del languido viso,
I vezzi ritempra che ruban la mente:
Poi cruda trionfa dei volti terreni
Di cui non rinverde la fioca beltà.