Descrizione latina dell'isola della Mirandola/Note

Note

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Descrizione latina dell'isola della Mirandola
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NOTE



(1) Gio. Francesco II Pico ebbe da Giovanna Caraffa di Maddaloni tre figli maschi, cioè, Gio. Tommaso, Alberto, e Paolo. Egli non accenna a quale dei tre indirizzi l’elegia; ma, senza tema di errare, si può asserire che egli la mandasse a Gio. Tommaso. Di fatto, questi, a quei giorni, era assente dalla patria e, probabilmente, dimorava in Roma, ove lo troviamo pure nel 1527 uffiziale della lega e prigioniero di Roderigo Azzo. Oltre di che Gio. Tommaso era cultore delle amene lettere, e già il padre avea a lui diretti gli inni alla Trinità, a Cristo ed alla Madonna, e, sul finire della dedica, gli dice che non deve fare le meraviglie se non può mandargliene di nuovi, perchè altrimenti occupato.

(2) Così legge benissimo l’Andres, e così si trova pure nell’esemplare dell’Estense. Il Pozzetti però sostituisce la parola confeceram.

(3) Il Tiraboschi, (Bib. Mod. t. IV. pag. 113) parlando distintamente delle opere di Gio. Francesco non fa motto alcuno di quest’opera sulla Podestá ecclesiastica da lui scritta nell’estate del 1521, e che non si legge fra le stampate. Potrebbe pensarsi, dice l’Andres, che fosse questa compresa in altra opera da lui citata (Epist. ad Lelium) col titolo: Resolutio supremæ potestatis ecclesiæ; perchè, sebbene essa era stata composta alcuni anni prima del 1521, nondimeno lo stesso Gio. Francesco dice di non aver ancor data al secondo opuscolo l’ultima mano, sed ei nondum ultimam manum indidimus; e questo ritocco o componimento potrà essere stato il lavoro or accennato dal Pico. Ma è da osservare che in quello stesso passo dice Gio. Francesco che l’opuscolo della risoluzione della suprema podestà della chiesa, era scritto in istile quasi parigino o scolastico, e qui parla di aver sciolte tali questioni con 42 teoremi; ciò che sembra indicare d’averle trattate in altro stile diverso dallo scolastico, ed esser questa una nuova opera da accrescere il lungo catalogo di sì erudito e laborioso scrittore.

(4) Qui si vede l’uso grande che avea Gio. Francesco di scriver inni. Chi fosse vago conoscerne i titoli e le edizioni, può vedere gli uni e le altre presso il p. Bartoli nella citata Allocuzione pag. 53. [p. 30 modifica]

(5) Di qui si vede che anche Gio. Francesco credea alla famosa favola d’Euride, dal cui parto meraviglioso, secondo i cronisti, la nostra patria trasse il nome di Mirandola.

(6) Così ha l’esemplare Capilupi. Io quello dell’Estense si legge invece ulna. Sembra però migliore l’ulva che è proprio l’alga palustre di che in molti luoghi della Cispadana si coprono le case de’ contadini, e ciò armonizza assai meglio dell’ulna colla leggenda dell’origine Pico.

(7) Anche Leandro Alberti contemporaneo ed amico a Gio. Francesco parlando del castello della Mirandola scrivea: «Giace egli in luogo molto ameno, et producevole di gran copia di frumento, di vino, el di altri frutti». (Descrizione dell’Italia ediz. veneta del 1581 pag. 360).

(8) In ambidue gli esemplari, ed anche nel Pozzetti si trova così. Quell’e nella parola arce guasta la quantità ritmica, nè si sa come espungerlo. Altre licenze poetiche si trovano pure nell’esametro del distico 60, e nei pentametri dei distici 46, 52, 60, 66, 86. È da avvertire però, che, sebbene il Pico andasse fra i più lodati e celebri fra quanti illustri a’ suoi giorni poetarono nella robusta lingua del Lazio, pure, a detta del Giraldi, in tal genere di componimenti più è ad ammirare in lui la dottrina e l’erudizione che l’armonia e l’eleganza. (De poetis suorum temporum Op. t. II pag. 527.

(9) L’isoletta era posta a ponente del castello. Frà Leandro la ricorda nella citata Descrizione dell’Italia (pag. 361) ove scrive: «Fortificò Giovan Francesco molto la Rocca, la Cittadella con tutta la Mirandola, et fece una Isoletta vicino alla Rocca, nella quale piantò gran numero di diverse spetie di alberi fruttiferi.....» Essa si vede nella pianta della Mirandola recata dal Castriotto nella sua opera Della fortificatione delle città (Venezia appresso Rutilio Borgominiero 1563 pag. 98 cap. XIX, e la sua mappina topografica si trova pure in un codice della Magliabecchiana di Firenze. Ma, meglio d’ogni altro, ne fa parola una iscrizione in marmo già collocata presso il ponte del castello, e che ora si vede nell’atrio del pubblico Ginnasio. Mi piace qui riportarla anche perchè nel Tomo I degli Annali della Mirandola del p. Papotti (Mem. Mirandolesi vol. III), ove è riferila, è corso un errore di stampa dovendosi leggere alla pag. 15, linea 19, LV invece di XV. Io. Franciscus Picus Gal. Fil., præter ea, quæ Pater ad Mirandulæ munimen absolvenda voluerat, peninsulas ad portarum oppidi propugnacula, et aggeribus, et murali septo perficiendas, aggeresque pomeriorum [p. 31 modifica]coctilibus muris cingendos, et cunctas vias oppidi lateribus sternendas curavit, arci vero minorem indidit arcem, in eaque turrim et oppido, et vicinis campis ad tutelam prospicientem, nec non insulam ad solis occasum fossis ambitam, ad partem arcis oppidique tuendam, in eaque porticus construi vineasque, et pomarium animi gratia construi voluit atque hæc ad annum quem tunc agebat LV et humanæ salutis XXIIII supra M et D. L’isoletta venne poi distrutta nel 1577 dalla contessa Fulvia di Correggio, vedova di Lodovico II Pico, per edificare in suo luogo il baluardo detto del Castello.

(10) Qui hanno termine i versi recati dal p. Pozzetti.

(11) Gio. Francesco allude qui al mastio del castello da lui edificato fra il 22 settembre 1499 ed il 20 del mese stesso del 1500 e che poi rimase diroccato nel 1714 per cagione di una folgore cadutavi. Era sommamente ammirato, e si crede fosse eretto da Giovan Marco di Lorenzo Genesini o Lendinara.

(12) Ambedue i ms. hanno apris, e taluno legge anche astris. Non piace però nè l’una nè l’altra lezione. Sarebbe ridicolo che il Sirio mandasse giù le sue fiamme solo perchè ne sentissero doppio effetto i suini o le stelle che a lui fan compagnia. Le stelle non hanno bisogno dei calori del Sirio; ne hanno esse da regalarlo a lui. Inserendo in luogo loro la voce agris non v’è più che dire, e il luogo è sanato.