Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (Rosmini)/Appendice/Lettera prima
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LETTERA I.
Devo renderle grazie della menzione onorevole ch’ella si è compiaciuta di fare nel pregevole Giornale, che esce sotto la sua direzione, della recente operetta da me pubblicata poco fa in Milano col titolo: La Costituzione secondo la giustizia sociale ecc. Non volendo tuttavia venirle innanzi con uno sterile atto di ringraziamento mi permetta di cogliere questa occasione per dichiarar meglio il mio pensiero sul punto che ella accenna dove dice che io amerei di «ricondurre l’elemento democratico perfino negli ecclesiastici reggimenti.»
Io amo l’unione da per tutto, e le discordie in nessun luogo; perchè l’unione è carità, e, per dir meglio ancora, la carità è vera unione, ed è il precetto del divino Maestro dato agl’individui non meno che alle società umane. Amantissimo del popolo, io amo soprattutto l’unione del popolo col Clero. Non intendo con questo che il popolo abbia una parte diretta nel reggimento della Chiesa: so troppo bene che questo fu confidato da G. C. alle mani degli Apostoli e de’ loro successori, i Vescovi che formano fra loro una bellissima nuità gerarchica mediante il primato che S. Pietro lasciò in eredità ai Sommi Pontefici. L’intervento del popolo non può essere che intervento di carità, di consiglio, corrispondenza paterna e filiale.
E di questo intervento io parlavo quando nella suddetta operetta proponevo come salutarissimo rimedio ai nostri mali ed oso dire necessario di ritornare all’elezione de’ Vescovi a Clero e popolo secondo l’antica consuetudine, la quale non dava al popolo appunto altro che la facoltà di esprimere il suo desiderio sui candidati, di decorarli della sua buona testimonianza, di accettare l’eletto di sua confidenza.
E aggiungevo che una tale forma di elezione confermata da innumerevoli canoni de’ Concilii, appartiene al diritto divino, come l’aveva detto S. Cipriano nell’Epistola lxviii, nella quale il santo martire scriveva: quod et ipsum videmus de divina traditione descendere, ut sacerdos, plebe praesente, sub omnium oculis deligatur, et dignus atque idoneus publico judicio ac testimonio comprobetur.
Nè reputo qui inutile l’aggiungere, perchè niente resti d’incerto in quella mia sentenza, che qui non si parla di un diritto divino costitutivo, ma di un diritto divino morale, cose assai differenti. Perchè questo secondo, quando viene offeso, non trae seco alcuna invalidità, e perciò i Vescovi anche nominati dai Governi civili, purchè confirmati e mandati dal Sommo Pontefice, sono legittimi pastori, come ha definito il sacro Concilio di Trento sess. XXIII, Can. VIII. Colla qual distinzione fra il diritto divino costitutivo e il diritto divino morale si conciliano i varii pareri degli autori su questa questione.
Ciò dunque che v’ha di diritto divino costitutivo nell’istituzione de’ Vescovi si è la sacra ordinazione, e la missione della Chiesa: queste due cose sono indipendenti affatto dal popolo, e da ogni altro potere laicale, come insegna il sacro Concilio di Trento con queste parole: Docet insuper sacrosancta Synodus in ordinatione Episcoporum, sacerdotum, et caeterorum ordinum, nec populi nec cujusvis saecularis potestatis, et magistratus consensum, sive vocationem, sive auctoritatem ita requiri, ut sine ea irrita sit ordinatio: quin potius decernit, eos qui tantummodo a populo aut saeculari potestate ac magistratu vocati et instituti, ad haec ministeria exercenda adscendunt, ut qui ea propria temeritate sibi sumunt, omnes non Ecclesiae ministros, sed fures et latrones per ostium non ingressos, habendos esse (Sess. XXIII, Cap. IV).
Ma veniamo al diritto divino morale e vediamo come questo, almeno al presente, rimarrebbe gravemente offeso, ove continuassero le elezioni eteroclite dei Vescovi, ora che non ve n’ha più alcuna necessità, e che non si ha più a temere che i nostri religiosi Monarchi, i quali hanno trovato giusto di fare tante concessioni a’ loro popoli, vogliano inferocire contro la Chiesa, se anch’essa rivendica la pienezza de’ suoi diritti. Il diritto divino morale adunque rispetto alle elezioni de’ Pastori della Chiesa esige:
1. Che queste elezioni sieno fatte liberamente dalla Chiesa, cioè dalla ecclesiastica potestà. Ora non rimane ella questa libertà immensamente ristretta, e diminuita colla nomina accordata alla potestà secolare? Come può la Chiesa assicurarsi che venga eletto, il più degno e quello in cui il popolo ha maggior confidenza? Quali guarentigie le dà o le può dare il potere laicale? Qualunque diminuzione della libertà della Chiesa nella scelta de’ suoi Pastori vulnera dunque il suo diritto divino; perocchè G. C. l’ha fatta libera e indipendente. Laonde conviene che a’ nostri tempi, ne’ quali si può farlo, la pienezza della libertà della Chiesa anche in questo sia senza indugio rivendicata e reintegrata.
2. Che nelle elezioni sia ascoltata la plebe cristiana, che ne sia veramente raccolta la testimonianza, che quella non sia forzata nè pur moralmente a ricevere un Pastore in cui non ha confidenza e che forse neppur conosce nè di nome nè di volto, nè d’opere nè di fama, mentre le pecore conoscono il loro Pastore come ha detto G. C. (Io. X). Io non dico in qual modo ciò si debba fare: questo è un’altra questione: sarà da cercare il modo più opportuno: è certo intanto, che un modo possibile non può mancare in un tempo, nel quale il popolo nomina, senza gravi inconvenienti, i suoi rappresentanti al parlamento. A me basta di stabilire, che l’intervento del popolo, nelle elezioni vescovili limitato a quello che gli spetta, è anch’esso un diritto divino, e naturale divino, cioè procedente dalla natura della istituzione de’ Pastori. S. Atanasio si riferiva alla tradizione apostolica, quando per provare che Gregorio aveva invasa indebitamente la Chiesa d’Alessandria, osservava, che l’elezione non era stata fatta secundum verba pauli congregatis populis et spiritu ordinantium cum virtute D. N. Jesu Christi (Ep. ad Ep. Orthod. n. 2); e però non si può aderire all’opinione di quegli scrittori che vogliono sostenere con argomenti negativi, che i primi Vescovi d’Alessandria furono dati al popolo inconsapevole, fondati sopra un testo di S. Girolamo, che parlando di quelle elezioni nomina i Sacerdoti, e tace del popolo; giacchè è ben da credere che S. Atanasio, conoscesse meglio d’ogni altro la tradizione della sua propria Chiesa. D’altra parte il popolo non è già elettore de’ Vescovi e S. Girolamo parla unicamente, e brevemente della Elezione: e basta che il popolo accetti, positivamente con sua soddisfazione, e cognizione; onde il medesimo Natale Atessandro scrive: De traditione divina et apostolica observatione descendit, quod populus in electionibus sacris suffragetur suo testimonio, concedo; judicio, nego (Dis. volt. in sent.). Ma colle nomine sovrane il popolo di fatto nè conosce cosa alcuna, nè può reclamare, senz’urtare nell’autorità prepotente, e nella forza bruta de’ governi laicali.
È vero che fu la Chiesa che cedette le nomine ai sovrani; ma ella lo fece costretta dalle dure circostanze, per evitare un maggior male: a chi vi domanda la vita, voi date il danaro: non è meno certo per questo che il furto e l’aggressione sia proibita dalla legge divina.
Del rimanente io esposi già più estesamente in altra operetta di recente pubblicata qual sia la parte che spetta al popolo nelle elezioni de’ Vescovi, e quanto sia urgente la necessità di far cessare la forma eccezionale di tali elezioni e di restituire la legittima e canonica, onde mi fermo a questo poco che ho voluto scriverle qual segno della mia riconoscenza e della mia stima. Suo.