Della ragione di stato (Settala)/Libro I/Cap. VII.
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Capitolo VII
Si racconta ed esamina un’altra opinione intorno alla diffinizione
della ragion di stato.
Altri ho visto, che componendo volumi con titolo di ragion di stato, pochissime cose di quella proponendo, nel principio della natura di tal cosa discorrendo, in due parole se ne sono spacciati: dicendo, che stato è un dominio fermo sopra i popoli, e ragion di stato notizia de’ mezzi atti a fondare, conservare, e ampliare un dominio cosí fatto. Esser tuttavia d’avvertire, (se bene, assolutamente parlando, ella si stende alle tre parti sopra poste), che nondimeno piú strettamente abbraccia la conservazione che l’altre, e dell’altre piú l’ampliazione che la fondazione; conchiudendo finalmente, ancor che tutto ciò, che si fa per le suddette cagioni, si dica farsi per ragion di stato, che nondimeno ciò si dice piú di quelle cose, che non si possino ridurre a ragione ordinaria e commune. Questa diffinizione dicono altri patir molte difficoltá: e prima perchè la buona definizione deve convertirsi col definito, e niente piú o meno abbracciare della sua natura; ma la definizione proposta è tanto generale, che in luogo di diffinir la specie, abbraccia ancora il genere: conciosia che non meno convenga alla prudenza legislatrice e alla facoltá civile, o prudenza politica, che a questa ragion di stato. Imperciocché chi è colui che sia per negare, che la prudenza politica non sia una notizia dei mezzi atti a fondare, conservare e ampliare lo stato, o dominio o republica che dir vogliamo? o che alla legislatrice il medesimo non convenga? Posciaché ufficio del legislatore è considerar molto bene la natura di quella republica, di quel popolo, e di quel dominio a cui dá le leggi; e quelle formare in maniera, che riguardino al buon fondamento, conservazione, e anche, secondo il bisogno, all’ampliazione sua. E nondimeno non crederò che vi sia alcuno che dica, che quella, che oggi chiamano ragion di stato, sia il medesimo che la legislatrice o politica prudenza: e tanto meno gli autori di questa opinione potranno affermarlo della legislatrice, quanto che essi vogliono la ragion di stato aver particolarmente luogo in quelle cose, che non si possono ridurre a ragion ordinaria e commune, il che tanto è a dire alla legge, che è il proprio oggetto della legislatrice. Né però è vero quest’ultimo, che aggiungono per maggior dichiarazione della natura della ragion di stato, cioè, che si dica di quelle cose in particolare, che non si possono ridurre a ragion ordinaria o commune: perché nella buona ragion di stato molte cose si fanno, che non sono contra o fuori delle leggi; e di piú quella aggiunta non la distingue dall’equitá: per la quale molte cose si fanno, che non si possono, anzi non si debbono ridurre alla legge e alla ragione ordinaria o commune. Oltre di che, chi ben considererá molte cose fatte per ragion di stato nelli buoni domini, conoscerá che molte cose si fanno in tal modo, che si potrebbono ridurre a ragion ordinaria e commune; ma non essere state in quelle comprese: o per l’infinitá delle cose che ponno occorrere, o per le grandi varietá dell’istesse cose, o circostanze mutate o limitate o ampliate. Aggiungerò finalmente, questa diffinizione della ragion di stato, che si ha presa per genere la notizia, aversi preso genere troppo universale, male limitato dalle differenze, e piú presto che conviene alla scienza, che insegna quei mezzi, che all’abito di quella acquistato e per lo quale si opera, da quel primo distinto, che pure è un abito dell’intelletto per lo quale e sappiamo e operiamo per quei tali mezzi, che ci conservano lo stato e la sua forma, che si ha eletta, di dominio; che è quello, che ci siamo messi a cercare, che cosa sia.