Io non credo, che egli trapassi mai giorno nessuno, non voglio dire ora, che non mi sovvenga così di codesta bellissima e piacevolissima stanza di Rezzano e di Gagliano, come della dolcissima conversazione e gratissimi ragionamenti, avuti più volte con ambedue voi nell’un luogo e nell’altro. E come io non dubito, che l’essermi io, non dico partito, ma discostato da voi, vi sia di alcuna noia e scontentezza stato cagione: così dovete creder voi, ciò avermi non picciolo affanno portato, e più che grandissimo dispiacere. I quali però vo tuttavia ingegnandomi di temperare e far minori, sì colla speranza del dovervi tostamente rivedere, e sì col riandare meco medesimo la tranquilla e naturalissima vita vostra, la quale lungi dalle città e lontanissima da tutte quante l’ambizioni, e senza pur uno di quei tanti e così molesti pensieri, i quali le più volte rodono, a guisa che i tarli fanno, e consumano le lor cose propie, ha maggior sembianza con tutte quelle felicissime del secolo d’oro, che con alcuna di queste miserissime de’ tempi nostri. Perchè rallegrandomene con esso meco, e come amico partecipandone, mi par d’essere quasi sempre in compagnia vostra ora giacendo sotto alcuna ombra, ora spaziando per qualche riva: diletti giocondissimi veramente e senza alcun danno, ma non già conosciuti se non da coloro, i quali conoscono sè stessi e l’infinite miserie di questa breve e fugacissima vita mortale, come fa ottimamente l’uno e l’altro di voi; ciascuno de’ quali contentandosi del suo stato, il che radissime volte suole avvenire, non cerca altro, nè altro cura, che l’avere insieme colla sanità del corpo, la tranquillità della mente: quella coll’andare a caccia e con altri onestissimi esercizii; questa col leggere e col ragionare procacciando. Laonde dovendo io la settimana passata fare, secondo gli ordini, la mia Lezione, non so se nell’Accademia Fiorentina, ma bene in Santa Maria Novella di Firenze, mi tornò subito nella mente la promessa fattavi costì da me: quando entrati, non so in che modo, a favellare de’ Mostri, mi venne detto, che la prima volta, che a me fosse toccato di leggere, ne tratterei lungamente. La qual cosa avendo io fatto, non già come avrei voluto, ma come potei, tanto occupato ed in sì pochi giorni e sì rincresciosi, mi deliberai di volerlavi mandare, qualunque si fosse; certissimo, che quanto ella fosse per iscemare appresso il giudizio vostro di quella credenza ed opinione, che portate di amendue, assai di là da’ meriti miei, tanto dovesse accrescere di quella affezione e benevolenza, ch’io porto alle virtù e cortesie vostre, già sono più anni, non meno grande che singolare. State sani, e salutando a mio nome i duoi Ubaldini ed il Poggino, vivete felici, amandomi, come fate.