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[p. 31 modifica]«A chi dee le incerte cose giudicare conviensi, o Padri Coscritti, non meno d’amore e di pietà scevro essere, che d’odio e di sdegno. Facile non è, ostando cotali passioni, il discernere il vero: nè alcuno mai ad un tempo serviva alle sue voglie ed al retto. Umano senno non vale, se non quanto dalle passioni disciolto, ad esse comanda. Lungo a narrarvi sarebbe, o Padri Coscritti, quanti Re, quanti popoli dall’ira o dalla pietade sospinti, sconsigliatamente operassero: giovami bensì rammentare, qual argine i maggiori nostri alle passioni dell’animo opponessero. Nella guerra Macedonica contra Perseo, Rodi, città grande, magnifica, e pe’ Romani ajuti cresciuta potente, fu nondimeno a Roma infedele e nemica. Finita la guerra, sovra i Rodiani deliberavasi: ma i nostri maggiori li lasciavano impuniti; temendo che il far loro guerra maggiormente non si ascrivesse a voglia di predarli che di punirli. Così, nelle Puniche guerre, facendo i Cartaginesi or della pace, or della tregua, velo a mille iniquità; i Romani, benchè il potessero, mai non rendevan loro ingiuria per ingiuria, più che al diritto di nuocer altrui, alla propria dignità riguardando. Oggi pure, o Padri Coscritti, a voi spetta il far sì che appo voi le scelleratezze di Lentulo e de’ suoi, al vostro decoro non prevalgano, nè alla fama vostra lo sdegno. Se ai loro delitti v’ha pari una pena, la disusata severità loderò; ma, se ogni più ingegnoso martiro dalla loro scelleraggine vinto rimane, le pene prescelgansi dalla legge ordinate. Già ho con eloquenza magnifica udito in questo Senato da alcuni compiangere lo stato di Roma; le crudeltà della guerra ad una ad una ritrarre; le rapite vergini annoverare, i fanciulli strappati ai parenti, le madri in balìa dei vincitori; le case depredate ed i templi; le uccisioni, gl’incendj; e quant’altro ai vinti interviene; [p. 32 modifica]d’armi e di sangue e di cadaveri piena, e di pianto ogni cosa. Ma dove, oh immortali Dei! dove una sì fatta orazione tendea? a render voi forse dei congiurati nemici? certo, chi dall’atrocità del delitto non fosse a ciò spinto, dall’orazione il sarebbe! Non è, no, così: nè ad uomo alcuno giammai le proprie ingiurie troppo apparivano leggiere; spesso bensì, più che nol fossero, gravi. Ma diversi affetti alle diverse persone concedonsi. Gli errori da passione prodotti, in chi vive oscuro e privato, a pochi son noti: pari ottien egli alla fortuna la fama. Chi un’importante autorità esposto in alto maneggia, nessuna cosa adopera in segreto. Così, quanto è maggiore la fortuna, tanto è minor la licenza: e ad uomo pubblico sconviensi l’amare, l’odiare, e molto più l’infierire. Ciò che negli altri semplicemente nomasi sdegno, superbia in esso e crudeltade si appella. Ogni supplizio, o Padri Coscritti, io stimo qui minore per certo dei costoro delitti: ma presso ai più, se oltre l’usato severa è la pena, di essa prevale la recente memoria; ed obbliansi, ancorchè gravissimi, gli antecedenti misfatti. Ben so, che Silano, coraggioso e fort’uomo, per zelo sol del ben pubblico qui favellava, non da amor nè da odio in così importante affare instigato: i costumi e la civile modestia di cotant’uomo conosco: ma il consiglio suo pure a me sembra, non dirò già crudele, (contro tal gente che vi può esser mai di crudele?) ma all’indole della Repubblica nostra contrario. Al certo tu Console eletto, o Silano, indotto venivi o dal timore o dall’enormità del delitto, a conchiudere in nuovo supplizio. Il timore tralascio; poichè l’efficace diligenza del nostro Console illustre con tante armi alla pubblica difesa provvede. Della pena da te loro inflitta, quel che richiede la cosa dirò; nel dolore e negli infortunj riposo essere, e non tormento, la morte, fine d’ogni umana miseria, a cui non tien dietro nè letizia, nè affanno. Ma, per gl’immortali Dei, perchè alla sentenza tua non aggiungevi tu, che, prima che uccisi, fossero i rei vergheggiati? Forse, perchè la legge Porzia lo vieta? ma vi son pure altre leggi, che vietando di giustiziare i cittadini Romani benchè colpevoli, soltanto all’esiglio condannare li lasciano. O son elle forse le verghe supplizio peggior della morte? or puovvi esser mai un tropp’aspro supplizio e crudele contro uomini di così atroce delitto convinti? Se poi minor pena è le verghe, a che nelle piccole cose osservare le leggi, qualor nelle grandi s’infrangono? Ma, chi biasimare ardirebbe il supplizio, qual ch’egli pur fosse, dei parricidi della Repubblica? il tempo, il dì, la fortuna, che a suo talento le genti governa. Che che accada a costoro, se l’avran essi meritato: ma voi, Padri Coscritti, pesate ciò che [p. 33 modifica]ordinate d’altrui. I pessimi esempj spessissimo da ottime fonti provengono. Cade talvolta l’imperio fra inesperte mani e non rette: i nuovi esempj allora dalla perizia e capacità trasferisconsi all’incapacità e ignoranza. Sparta, trionfato ch’ebbe d’Atene, trenta magistrati a governarla preposevi. Costoro da prima ogni malvagio ed odioso cittadino senza formalità di leggi uccidevano: gioìvane il popol d’Atene, e applaudiva. Indi a poco la licenza si accrebbe; e i buoni non meno che i tristi a volontà de’ tiranni uccidendosi, tutti tremavano: così in servitù gemea la città, e gravissimo il fio della stolta sua gioja pagava. A’ tempi nostri, quando Silla vincitore facea giustiziar Damasippo e gli altri suoi pari delle pubbliche calamità impinguati, chi non lodò tal sentenza? Giustamente (diceva ognuno) si uccidono questi uomini scellerati, faziosi, perturbatori della Repubblica. Ma pure, quello era il segnale d’una tirannica strage. Poichè, chiunque adocchiato avea la casa la villa o gli arredi d’un altro, di farlo inserir fra’ proscritti ingegnavasi. E così chi della morte di Damasippo maggiormente allegrato si era, da presso poscia il seguiva: nè cessò il sangue, fintanto che Silla non ebbe tutti i suoi satollato delle ricchezze dei cittadini. Nel consolato di M. Tullio, in questi tempi, non temo io cotali violenze: ma in un gran popolo son molti e varj gl’ingegni: può, in altro tempo, altro Console, parimente signor d’un esercito, credere il falso pel vero: e quando, coll’esempio d’oggi, per voler del Senato, il Console avrà sguainata la spada, chi gli prescriverà i limiti allora, e chi fra essi il terrà? Agli avi nostri, o Padri Coscritti, mai non mancava nè mano nè senno; nè, per superbia, sdegnavano d’imitare stranieri instituti, se buoni. Così dai Sanniti le armi e saette, dai Toschi in gran parte le divise dei magistrati prendeano; dagli alleati in somma, e dagli stessi nemici, quanto a loro giovevole e adattabil parea: volendo, piuttosto che i buoni invidiare, imitarli. Allora per l’appunto a norma dei Greci l’uso delle verghe introdussero pe’ minori delitti, e della morte pe’ capitali. Adulta poi fattasi e popolosissima la Repubblica, ciascun parteggiò; all’innocenza lacci si tesero, ed altre simili arti tentaronsi: perciò la legge Porzia ed altre provvidero, che ai cittadini condannati si scambiasse la morte nell’esiglio. Un tale esempio mi par di gran peso, o Padri Coscritti, per distoglierci da ogni nuovo consiglio. E virtù e saviezza erano per certo maggiori in chi da sì tenui principj così sterminato imperio creava, che non in noi i quali a gran pena i loro gloriosi acquisti serbiamo. Dico io forse con questo, che i congiurati disciolgansi, e che così a Catilina si accresca l’esercito? certo, no: ma, che si confischino i loro [p. 34 modifica]beni; che inceppati si custodiscano nelle migliori fortezze d’Italia; che nessuno ardisca in Senato o nel Foro nomarli; e chi ne parlasse, dichiarato sia reo di lesa Repubblica: quest’è il parer mio.»