Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo III

Capitolo III

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De i difetti intrinseci della giurisprudenza e giudicatura.


A che il mondo saltò fuori dalle mani onnipotenti di Dio, e nacque il tuo e il mio, sino a dì nostri, sempre ci sono state liti fra gli uomini, e finchè il mondo avrà fine, ci saran genti, che litigheran per la roba. E dove son liti, necessità c’è, e ci sarà di giurisconsulti e di giudici in ogni ben regolata Repubblica, i quali disaminando le ragioni delle parti, e consultando le leggi e la diritta ragione, decidano sulle contese altrui: giacchè a niuno conviene il farla da giudice in causa propria. Però quando si parla di magagne della giurisprudenza, e si tratta di purgarla, ciò non vuol dire, che s’abbia a distruggere o bandire questa necessaria professione e scienza, nè che si voglia abbattere o sminuire l’ordine e il coro de’ suoi professori. Vuol dire, che per quanto fosse possibile, sarebbe bene il depurarla e liberarla da assaissimi suoi difetti, con renderla più bella, e più utile al pubblico. Per quanto si può, torno a dire; perciocchè la scienza legale, bisogna confessarlo, ha anch’essa de i difetti intrinseci, non men della morale e della medicina, alle quali non mai si potrà apprestare rimedio valevole alcuno.

Il primo vien dalle leggi stesse. Dovrebbero queste esser chiare, con termini ben esprimenti la mente del legislatore; ma nè pur tutte quelle, che abbiamo nel corpo del Gius di Giustiniano, o ne gli statuti di varie città, portano in sè questo pregio; e però si rendono suggette a varie interpretazioni; e massimamente perchè il linguaggio latino de i testi civili senza l’aiuto dell’erudizione ben sovente comparisce scuro, e di sentimenti dubbiosi. Quel che è più strano, quanto più di parole talvolta si adopera in distendere una legge, a fine appunto di bene spiegare l’intenzione di chi la forma, tanto più scura, e capace di diversi sensi essa può divenire; e ciò perchè i sottili osservatori delle leggi, per accomodarle al loro bisogno, lambiccano ogni parola, ogni sillaba, virgola e punto, e mettono in forse quello che ha voluto dire, ma forse non ha assai limpidamente espresso il legislatore. Mi è avvenuto di vedere una strepitosa lite per l’eredità di un principe morto ab intestato, disputata fra gli agnati dall’un canto, e i figliuoli della sorella dall’altro. Dovea deciderla lo statuto d’una città. E s’io dirò, che questa città si gloria d’essere la madre de gli studi, tosto si figurerà ciascuno, che su questo punto sarà stata ben chiara la determinazione de’ suoi dottissimi maggiori.

E pure non andò così. Lo sforzo de gli avvocati sì dell’una che dell’altra parte tutto versò in tirar dalla sua le parole dubbiose dello statuto, con restar in fine deciso in favor dell’agnazione.

Il secondo interno difetto nasce dall’essere tali le leggi, che non provveggono, nè possono provvedere a tutti i casi, i quali possono essere moltissimi, per non dire infiniti. Quindi hanno avuta origine tante eccezioni e limitazioni, applicate da i giurisconsulti a non poche leggi, e dedotte da altre leggi, o pur da i principj della chiamata o creduta retta ragione, secondo i quali pare, che il legislatore in certi, e questi assaissimi, casi non abbia potuto o voluto vietare o pur comandar qualche cosa. Certo è, che con tutto il suo corpo di leggi non ha Giustiniano provveduto a tutti gl’innumerabili casi, che possono succedere. E quantunque una legge fosse chiarissima e precisa intorno a qualche azione, pure bene spesso non possono i legislatori prevedere ed aver davanti a gli occhi il concorso di varie circostanze, per le quali può venire un altro aspetto, sia in bene, sia in male, alla medesima cosa o comandata, o vietata. Però ecco un seminario d’altre dispute e liti, pretendendo gli uni, che quella tale azione, tuttochè vestita di quelle circostanze, sia compresa sotto la determinazione di questa, o di quell’altra legge, e negandolo altri, con vicendevol combattimento di ragioni.

Il terzo interno difetto (e questo in tutti i tempi stato comune e triviale, e che tale eziandio sarà, fino alla fine del mondo) consiste nello scoprire, ed interpretare la volontà ed intenzione de gli uomini, con ricavarla da i fatti, o pur dalle parole de gli stessi mortali. Mestier sommamente difficile, che apre il campo a una sterminata folla di litigi, e bastante a tenere in esercizio più e più avvocati e giudici in qualsivoglia città e luogo, dove si amministri giustizia. Di qui han preso, e prenderanno sempre voga tante controversie per contratti, per fideicommissi, o per altre sustituzioni, e per somiglianti altre determinazioni de gli uomini, espresse in testamenti, strumenti, e polizze. Se infin persone dottissime non han talora saputo casi ben distendere una legge o statuto, che ne resti escluso ogni dubbio ed equivoco: quanto più facilmente accaderà, che la gente dozzinale ed idiota falli in proporre ed esporre con parole la lor volontà, nè sappia guardarsi da oscurità di termini, frasi, e sintassi, capaci d’imbrogliare l’intelligenza anche di quei, che più sanno? Dirò di più: non han poca colpa in ciò alle volte gl’ignoranti notai, che o non intendono la mente de’ contraenti e testatori; o se l’intendono, l’esprimono così trascuratamente o confusamente, che resta fondamento a due contrarj avvocati di spacciarla e pretenderla cadauno favorevole al proprio cliente. Allorchè certo dottore della nostra città osservava notai, che stendevano qualche contratto, o ultima volontà delle persone, solea dire sorridendo a’ suoi colleghi: «Mirate colui: egli sta ora lavorando per me ».

Il quarto difetto vien dalle teste, cioè da gl’intendimenti de’ Giudici. Non si può dire, a quante debolezze, a quanti capricci, a quanta varietà sieno sottoposti gli uomini. Chi in una, chi in un’altra maniera la stessa cosa intende. Noi miriam tutto di sentenziato nella medesima causa pro e contra da diversi tribunali, parendo debili a gli uni quelle ragioni, che paiono si forti a gli altri. E questo, per attestato del Cardinale de Luca, accade « anche in tribunali grandi e primarj, (e vuol dire anche nella stessa ruota romana) dove il giudice di una istanza rivoca quello che abbia fatto il giudice dell’altra. Anzi che i medesimi giudici, senza veruna alterazione o mutazione di fatto, rivocano quello, che non solamente una, e due, ma molte volte abbiano deciso ». Il che proviene da quella prima cagione, che abbiamo indicato di sopra; cioè dall’aver noi bensì delle idee generali dei giusto e dell’ingiusto; ma per adattar queste a i casi particolari ci troviamo imbrogliati, perchè non sappiamo quale di questa, o di quella idea, regola, ed assioma s’abbia qui più tosto da valere, che di un’altra. E poi perchè sovente si tratta della volontà ed intenzione altrui, ad interpretare la quale non abbiam regola alcuna sicura, e tutto dipende dalla prudenza, e per lo più dall’opinione, che è varia secondo la varietà de’ cervelli. Perciò benchè in molti casi il giudice possa conoscere a tutta prima, o almeno senza faticar molto il suo cervello, chi s’abbia ragione o torto in una controversia: pure buona parte delle cause civili è tale, che dee e suol restare perplesso il giudice in conoscere, da qual parte sia la ragione, e da quale il torto. Quel poi, che sempre più fa conoscere la debolezza de gli umani giudizi, chi non ha interesse nelle cause, appena ha lette le allegazioni e i consigli di qualche valente avvocato, che tosto inclina la mente a dare a lui la vittoria. Ma non sì tosto gli comparisce sotto gli occhi la scrittura del non men valoroso avvocato contrario, che di nuovo gli sembra militar per lui la ragione. E ci son bene de’ giudici, presso i quali è più fortunato chi è l’ultimo a parlare, o scrivere: il che è gran disgrazia della parte contraria. Ma più rilevante si è quella d’altri litiganti, che s’imbattono in giudici, i quali al primo comparir d’una lite sentenziano in lor mente in favore dell’una delle parti; e per quante ragioni possa o sappia giammai addurre l’altra, stan più che torre fissi nel primiero lor sentimento; anzi sanno essi in lor cuore, se non anche apertamente, da avvocati alla sentenza già da loro adottata.

In somma siccome la verità è in infiniti oggetti difficile a scoprirsi con infallibil certezza, così accade al giusto, essendo in infiniti casi troppo malagevole il ravvisare, in qual delle due bilance esso sia posto. Nè in ciò è diversa la ragion civile dalla teologia de’ costumi, che tratta dell’innocenza o della malizia delle umane azioni. Dall’una parte stanno le ragioni dell’umana libertà per operare, e dall’altra quelle di qualche legge o divina, o naturale, o come si suol dire positiva: talmente che innumerabili sono i casi, ne’ quali l’intelletto umano si truova dubbioso, a qual parte abbia da inchinare o per non trasgredire la legge, o per non intaccare la libertà, che Dio, o i superiori ci hanno per tante azioni lasciato. E quindi nascono così diversi pareri intorno all’essere o innocenti o peccaminose tante azioni, ammissioni, pensieri, e parole de gli uomini. Or veggasi la scienza legale. Senza fine si truovane le discrepanze de i dottori intorno al medesimo suggetto. Chi sente in una maniera, chi sente nell’altra. E molto più si pruova tal difficultà in giudicare ne’ casi particolari, perchè son cinti di tenebre i confini del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, nè si ha lume bastante per discernere, a qual delle due s’abbia a riferir l’azione proposta. Oltre di che gl’intelletti umani son diversi troppo fra loro o per la forza e debolezza d’essi, o per la maggiore o minore scienza, o per varj influssi della volontà e delle passioni, che inclinano ad approvare o disapprovare or questo, or quello, e a preferire un sentimento all’altro. « Quot capitum vivunt, totidem studiorum millia », diceva Orazio, Lib. II, Sat. 1. Però noi miriamo la stessa causa agitata in un tribunale composto di più persone, sopra la quale così facilmente si truovano divisi i pareri de’ giudici, anche nel supposto che cadauno abbia soddisfatto al suo dovere con ben ventilarla e studiarla. E quand’anche concorrano unanimi i voti d’essi giudici a sentenziare più in una, che in altra maniera, eccoti passare ad altra unione di giudici la causa medesima, e trovarsi anch’ivi de i dispareri, e talvolta uscirne una sentenza contraria alla prima; e così di mano in mano: tanto è vero, che o per la diversità de gl’intelletti, o per l’astruso ripostiglio del giusto e dell’ingiusto, il mondo è sottoposto a tanta incertezza e varietà di giudizj. E a questo interno difetto e malore o delle cose, o de gli uomini, che può in qualsivoglia tribunale incontrarsi, non c’è stato, ne ci sarà mai valevol rimedio, che provvegga intrinsecamente al bisogno. Però altro non ha saputo inventare l’umana prudenza, se non il determinare, che sia creduto aver più ragione nelle controversie dedotte al foro, chi ha riportato più sentenze favorevoli, che il suo avversario; o pur chi in un giudizio riparti i voti favorevoli di più giudici, che il suo competitore. Il che non è per lo più un assicurarci, che la vittoria si sia dichiarata per l’una delle parti a cagione dell’intrinseca chiarezza ed evidenza delle ragioni, ma bensì che così è sembrato all’intendimento di uno o di più giudici, con risultarne non già la certezza, ma una sola presunzione di retto giudizio. E ciò vuol dire in buon linguaggio, non essere la scienza, ma l’opinione, che regola, se non sempre, certo sovente, ne’ casi particolari e disputabili il foro. Chiamisi quanto si vuole lo studio e la profession delle leggi scienza legale: cotal nome non disdice, purchè chi se l’attribuisce, veramente abbia studiato, e sappia ciò che le leggi civili hanno ordinato o vietato ne’ varj argomenti del mio e del tuo. Nulladimeno allorchè questa cognizione scientifica si vuol ridurre all’atto pratico per decidere tante controversie, che tengono in esercizio avvocati e proccuratori, non è ordinariamente la scienza, ma l’opinione, che decide, perchè d’ordinario manca la certezza, che quel tale caso, accompagnato da tali circostanze cada sotto la disposizione di quella tal legge; e resta in cuor del saggio qualche sospetto o timore, ch’esso possa essere compreso sotto la disposizione d’un’altra; o pure che altra possa essere stata l’intenzione e volontà di un testatore per esempio, o di un contraente. Ed affinchè non si dubiti di questa verità, si osservi ancora, che uno stesso tribunale avrà in un anno decisa qualche controversia in una maniera, e da li ad alcuni anni in un’altra. Oh si dirà, che non è la stessa controversia, e che concorrendo qualche diversità di circostanze in amendue i casi, non è maraviglia, se diversa dalla prima si truova la decisione seconda. Ma è egli poi così? Aggiugnete finalmente una verità, che scappò detta al Cardinale de Luca, ottimo conoscitore di questo, ma che fu prima accennata dal Deciano nell’Apologia per gli giurisconsulti, Cap. XV, nu. 32, cioè che le teste di alcuni giudici si muovono talvolta a giudicar più in una maniera, che in un’altra, mossi non già dalle sode, ma dalle più deboli ragioni recate dall’avvocato. Così egli scrive nel suo trattato dello stile legale, c. V.: « Si debbono portar tutti i motivi, e le ragioni stimate le migliori, e le più forti e convincenti, senza però lasciar l’altre, le quali sieno stimate più deboli, per quella ragione, che stante la gran varietà de’ cervelli, non tutti i gusti o sentimenti sono uniformi. Onde segue, che quei motivi, i quali ad uno parranno buoni e sodi, ad un altro parranno deboli ed irrilevanti; e all’incontro quelli, che al primo parranno di niuna vaglia, dall’altro saranno stimati i migliori ». E nel Cap. XIV torna a dire: «Ne’ contradittorj e nell’altre funzioni non è biasimevole l’addurre de’ molti motivi, senza necessità di scegliere i sodi da i deboli, essendo questa parte dei giudice; mentre conforme si è detto più volte, frequentemente piacciono i motivi deboli, e dispiacciono i sodi e buoni ». Un simile sentimento parmi d’aver letto nelle opere di Cicerone intorno all’arte oratoria, ma non vo’ durar la fatica di cercarlo. Chi dunque non vede, che rischio bene spesso corra la giustizia, da che dipendano le sentenze da teste, nelle quali non fan breccia le ragioni sode, e solamente penetrano le deboli e cattive? che se questo è contestato dal de Luca de i giudici posti ne i gran tribunali: che sarà poi da dire de i giudici pedanei delle terre e castella?

Ora a questi interni ed essenziali difetti della giurisprudenza e giudicatura, io torno a dirlo, rimedio non c’è. Non si può fare, che la legge abbia provveduto con chiarezza a tutti i dubbj e casi, che possono accadere. Molto men si può fare, che cadaun uomo con si precisi termini esprima le sue intenzioni e volontà nelle pubbliche scritture, che non vi resti ambiguità e dubbio veruno. Ora subito che l’affare è divenuto conghietturale, cioè subito che è rimesso alla testa de gli uomini il decidere, non già intorno a lievi dubbj, ma intorno a massicci e gravi dubbj: per conseguente resta esposta quella controversia alla varia comprensiva, e al vario raziocinio di chi dee giudicare, e facilissimamente varie possono essere le decisioni di varie persone intorno allo stesso suggetto. Ne’ casi apertamente disegnati e regolati da i legislatori, ancorchè insorgono leggieri motivi di dubitare, allora si può dire, che la legge ha deciso, o decide; ma dove si presentano gravissimi dubbj, se i casi controversi sieno o non sieno compresi dalla legge, o pure a qual delle leggi s’abbia da ridurre questo o quel caso: allora è la testa de’ giudici, che dee decidere. E chi non sa, cosa sieno le teste de gli uomini, vada a studiarle, e troverà, che sono emporj d’opinioni, di prosunzione, d’inconstanza, di debolezza, e di errori. Oltre di che si arriva tal volta a trovar così scura ed astrusa la qualità delle controversie, che un uomo intendente, ma sincero, e non adulator di se stesso, dee confessare la sua perplessità, e di non saper bene, a qual delle parti convenga in quel caso con accertato giudizio la vittoria. E si son veduti giudici onorati, che in simili oscurità, più tosto che mettersi a giudicare, han lodata la concordia, e qualche aggiustamento onesto fra i litiganti: ripiego nondimeno, che non piacerà mai a quegli altri, a’ quali son più care le sportole, che il retto giudizio; e per non perdere il loro profitto, si determinano a darla vinta all’una delle parti, quantunque, se volessero confessarla tutta, sentivano in se stessi di grandi spinte per decidere in favore dell’altra. A me diceva uno de’ più dotti ed assennati ministri della giustizia, che sia seduto ne’ nostri tribunali, essergli accaduto, allorchè era semplice avvocato, di restar perditore in quasi tutte le cause, nelle quali egli si teneva più in pugno la vittoria per la forza delle sue ragioni; e all’incontro di aver vinto in molte, delle quali maggiormente egli diffidava. Andate ora a decantar la giustizia del mondo, quella, che con rette bilance dà il suo a chicchessia. Tentazione può venire a taluno di chiamarla un lotto, un biribisso, un azzardo. Ma giacché abbiam fatto parlare chi le sapeva tutte, cioè il Cardinal de Luca, udiamo da lui un’altra confessione. Nel Proemio al Dottor volgare, Cap. IX, così egli parla: « Stante l’accennata varietà d’ingegni, la pratica frequentemente insegna, che l’evento riesce molto diverso in quel che bene o male gli avvocati presagiscono. Ed anche perchè i medesimi tribunali grandi ritrattano quel che hanno deciso: dal che si pruova, che ne gli articoli legali non si dà verità certa e determinata, e massimamente in materie conjetturali o arbitrarie: poichè le cose totalmente chiare rare volte cadono sotto le dispute de gli avvocati ». A me non occorre di più, per conchiudere in fine, essere gran disgrazia il dover litigare, e che le giuste leggi santamente inventate pel pubblico bene, messe in pratica, possono, non men della medicina, per l’umana debolezza convertirsi in danno del pubblico.