Dei delitti e delle pene/Capitolo XXXVIII
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo XXXVII | Capitolo XXXIX | ► |
Interrogazioni suggestive, deposizioni
Le nostre leggi proscrivono le interrogazioni che chiamansi suggestive in un processo: quelle cioè secondo i dottori, che interrogano della specie, dovendo interrogare del genere, nelle circostanze d’un delitto: quelle interrogazioni cioè che, avendo un’immediata connessione col delitto, suggeriscono al reo una immediata risposta. Le interrogazioni secondo i criminalisti devono per dir cosí inviluppare spiralmente il fatto, ma non andare giammai per diritta linea a quello. I motivi di questo metodo sono o per non suggerire al reo una risposta che lo metta al coperto dell’accusa, o forse perché sembra contro la natura stessa che un reo si accusi immediatamente da sé. Qualunque sia di questi due motivi è rimarcabile la contradizione delle leggi che unitamente a tale consuetudine autorizzano la tortura; imperocché qual interrogazione piú suggestiva del dolore? Il primo motivo si verifica nella tortura, perché il dolore suggerirà al robusto un’ostinata taciturnità onde cambiare la maggior pena colla minore, ed al debole suggerirà la confessione onde liberarsi dal tormento presente piú efficace per allora che non il dolore avvenire. Il secondo motivo è ad evidenza lo stesso, perché se una interrogazione speciale fa contro il diritto di natura confessare un reo, gli spasimi lo faranno molto piú facilmente: ma gli uomini piú dalla differenza de’ nomi si regolano che da quella delle cose. Fra gli altri abusi della grammatica i quali non hanno poco influito su gli affari umani, è notabile quello che rende nulla ed inefficace la deposizione di un reo già condannato; egli è morto civilmente, dicono gravemente i peripatetici giureconsulti, e un morto non è capace di alcuna azione. Per sostenere questa vana metafora molte vittime si sono sacrificate, e bene spesso si è disputato con seria riflessione se la verità dovesse cedere alle formule giudiciali. Purché le deposizioni di un reo condannato non arrivino ad un segno che fermino il corso della giustizia, perché non dovrassi concedere, anche dopo la condanna, e all’estrema miseria del reo e agl’interessi della verità uno spazio congruo, talché adducendo egli cose nuove, che cangino la natura del fatto, possa giustificar sé od altrui con un nuovo giudizio? Le formalità e le ceremonie sono necessarie nell’amministrazione della giustizia, sí perché niente lasciano all’arbitrio dell’amministratore, sí perché danno idea al popolo di un giudizio non tumultuario ed interessato, ma stabile e regolare, sí perché sugli uomini imitatori e schiavi dell’abitudine fanno piú efficace impressione le sensazioni che i raziocini. Ma queste senza un fatale pericolo non possono mai dalla legge fissarsi in maniera che nuocano alla verità, la quale, per essere o troppo semplice o troppo composta, ha bisogno di qualche esterna pompa che le concilii il popolo ignorante. Finalmente colui che nell’esame si ostinasse di non rispondere alle interrogazioni fattegli merita una pena fissata dalle leggi, e pena delle piú gravi che siano da quelle intimate, perché gli uomini non deludano cosí la necessità dell’esempio che devono al pubblico. Non è necessaria questa pena quando sia fuori di dubbio che un tal accusato abbia commesso un tal delitto, talché le interrogazioni siano inutili, nell’istessa maniera che è inutile la confessione del delitto quando altre prove ne giustificano la reità. Quest’ultimo caso è il piú ordinario, perché la sperienza fa vedere che nella maggior parte de’ processi i rei sono negativi.