Dalle dita al calcolatore/XIII/5
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5. Il Novecento
Nella prima parte del Novecento si sviluppa ulteriormente in matematica il filone della ricerca riduzionista, che finalmente, nel lavoro di B. Russell, acquista il respiro onnicomprensivo che nell’Ottocento era rimasto implicito: il lavoro del logico inglese porta alla scoperta di alcune contraddizioni fondamentali nella teoria degli insiemi, tanto che tutto l’edificio del lavoro riduzionista sembra crollare. In seguito, K. Gödel, uno studioso austriaco, arriva a dimostrare l’impossibilità di costruire un sistema formale di assiomi per i numeri naturali, che goda delle caratteristiche di completezza richieste. La dimostrazione di Gödel viene efficacemente sintetizzata da D.R. Hofstader: “Tutte le assiomatizzazioni coerenti della aritmetica contengono proposizioni indecidibili” (Gödel, Escher, Bach, Adelphi, 1985, pag. 18).
Dal lavoro di Gödel scaturisce una serie di ricerche che portano, intorno al 1936, alla definizione rigorosa di operazione effettivamente eseguibile: vedremo più avanti come questa definizione sia stata uno strumento concettuale importantissimo nello sviluppo della teoria legata agli elaboratori.
Contemporaneamente, abbiamo la realizzazione del primo circuito di “flip-flop”: una forma di circuito essenziale per la costruzione di memorie. Oltre a ciò, si sviluppa in maniera impetuosa la tecnologia della comunicazione, telefonica e radiofonica.
Comincia a profilarsi la possibilità della comunicazione elettronica. Fino alla scoperta della stampa, la comunicazione tra le persone era affidata essenzialmente all’incontro diretto. Benché i potenti si avvalessero anche della scrittura per comunicare, questo canale era tuttavia sfruttato in modo alquanto ridotto. In quell’epoca era invece essenziale la raffigurazione di messaggi in luoghi aperti al pubblico, con finalità di carattere politico-celebrativo.
Per quanto riguarda le comunicazioni veloci, si ricorreva a metodi imprecisi come i segnali di fumo, i fuochi notturni e così via, oppure, se il testo possedeva una maggiore complessità, ci si serviva di messaggeri, che dovevano colmare materialmente la distanza tra emittente e destinatario.
La stampa a caratteri mobili consentì di produrre a basso costo enormi quantità di testi scritti, il che incrementò i contenuti della comunicazione, ma non la sua velocità: nel romanzo Il conte di Montecristo, Dumas descrive un sistema di telegrafia che avrebbe potuto benissimo essere gestito dagli antichi Romani.
È solo con l’Ottocento che la velocità di trasmissione dei messaggi compie il salto di qualità che l’arricchisce di strumenti veloci e versatili come quelli conosciuti oggi. Si può dire che oggi la comunicazione interpersonale diretta, nella quale emittente e ricevente si vedono in faccia e possono toccarsi, sia ridotta al minimo. Non è detto che sia un bene e non è chiaro come ciò influisca sulla nostra psiche, ma è così.
In questo ambito di invenzioni legate alle telecomunicazioni, nasce la telefotografia: il primo procedimento che permette di trasformare una figura in una sequenza di impulsi elettronici trasmissibili via cavo.
Sempre all’inizio del secolo compaiono e si diffondono i motori elettrici che, come i precedenti motori a scoppio, consentono la realizzazione di tutta una serie di oggetti, come ad esempio gli elettrodomestici. Nelle officine ogni macchina ha ora la sua fonte di energia: non c’è più bisogno delle pericolose e ingombranti cinghie di trasmissione.
Questa trasformazione si riflette sull’architettura stessa dei luoghi di lavoro, che possono assumere configurazioni più distese, le quali, a loro volta, rendono possibili trasporti interni di materiale semilavorato e di personale.
Nel 1911 Taylor pubblica il suo testo fondamentale sulla parcellizzazione del lavoro. Negli anni successivi, nascono le catene di montaggio, grazie alle nuove tecnologie.
Al di là del giudizio che si può dare sul fatto che questo processo sia stato pagato in termini di condizioni di vita e di lavoro da parte delle maestranze addette all’attività produttiva, e dalle colonie sottoposte ad un rapporto imperialistico finalizzato alla fornitura delle materie prime all’industria in continua espansione, è certo che questo insieme di fenomeni ha costruito un mondo nel quale la disponibilità di prodotti cresce in misura inimmaginabile. Questa crescita è stata accompagnata dall’incremento della popolazione umana e della complessità dei fenomeni economici, tecnologici e sociali in atto. La risposta a questa accresciuta complessità non può che essere un’accresciuta capacità di comprensione ottenibile anche attraverso una maggiore capacità di elaborazione matematica.
Nel 1931 Vannevar Bush costruisce all’MIT il primo grande calcolatore analogico moderno. Questo tipo di macchine, però, si diffonde poco: alcuni anni più tardi compaiono i calcolatori digitali; e il governo degli Stati Uniti, attraverso le sue forze armate, e le ditte cointeressate alla ricerca decidono di gettare tutte le loro risorse sulla seconda impostazione.
Questa scelta fondamentale, che ha avuto un’influenza determinante sulla successiva storia dell’umanità, non è riportabile al giudizio popolare o a quello dei politici del momento: i necessari passi chiave, infatti, furono compiuti dai vertici delle forze armate e da alcune ditte statunitensi.
Gli strumenti di elaborazione precedenti a questa grande rivoluzione erano essenzialmente supporti capaci di memorizzare in vario modo le fasi dell’attività di calcolo, e di facilitarne i diversi aspetti; l’operatore rimaneva comunque colui che determinava la sequenza delle operazioni.
Le macchine matematiche successive, che sono la maggiore richiesta di potere di elaborazione, sono passate, all’inizio, per una fase che le vedeva in grado di eseguire autonomamente calcoli, anche complessi, e ora si affacciano a un livello di “capacità” superiore. Stanno per essere meccanizzate delle sequenze programmabili di calcoli.