Dall'Elogio d'un Pazzo
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Giunto all'età di cinquant'anni ei si ridusse pacificamente in campagna, dove non volle altra società che d'un cane vecchissimo e cieco, il quale egli stimava miglior filosofo di tutti, non perchè fosse fedele, non parendogli questa una gran virtù, anzi una qualità nemica se non della saggezza, della felicità; ma poichè, per grida e bastonate che egli dèsse, mai non volle perder l'abitudine di pisciare altrove che nella stanza dei libri: come se lo volesse con questo ammonire che la sapienza dei mortali raccolta e custodita in tanti gelosi volumi non merita niente di meglio che quella tiepida benedizione.
Del quale avviso ei pur finalmente si accorse, e, a compensarlo d'ogni mal trattamento avuto per si fatto procedere, lo ricolmò poi di carezze e gli diede profenda di buoni cibi ogni qual volta gli ripetesse quella saggia ammonizione.
Con questo cane e con gli alberi dell'aperta campagna egli s'interteneva spesso in profondissimi ragionari; onde quei delle circostanze lo tennero presto in conto di mago e di matto.
E dei matti egli ebbe sempre grandissima considerazione; ed essi, non so per qual secreta attrattiva, lo avvicinavano senza sospetto e gli diceano parole, ch'egli scrupolosamenle scriveva in un taccuino che portava sempre con sè, e stimava più prezioso dei memorabili di Socrate.
Oltre a tale strana raccolta io non credo conservasse altra sua scrittura: e dico così, perchè so certo ch'egli si dilettò sempre dell'arte sua, ma le cose composte nella solitudine, e ch'egli chiamava le sue figliole, consegnò sempre al foco appena le avesse finite, scusandosi, che mandandole per il mondo gliele avrebbero certamente stuprate.
Delle donne amò più presto la bellezza che le virtù, onde preferiva Frine a Lucrezia. Nelle madri la tenerezza dolcissima della sua, che ricordava sempre con passione, parevagli più virtuosa dell'eroismo delle Cornelie e d'altre famose, i cui fatti lodatissimi dagli storici egli attribuiva in gran parte ad animo snaturato da vanità.
Di qualche mia visita si meravigliava come di singolar bizzarria, e, citando un poeta tedesco, dicea che fra l'altre stravaganze io aveva quella di esser fedele.
Quando l'ultima volta ammalò e si senti vicino a morire, essendo io tristissimo al suo capezzale e il cane a' piedi del letto, egli mi prese tristamente la mano, additò con l'altra quella povera bestia che mugolava, e parodiando la parola del figliol di Dio: «Amico, esclamò, ecco il tuo figlio; figlio mio, ecco il tuo babbo ».
Scorgendo poco dopo certi vecchi stivali schierati sotto un cassettone, «Ascolta, mi disse, e scrivi religiosamente la mia ultima volontà: Io sottoscritto, ecc. ecc., sano di spirito ma non di corpo ecc. (e giù giù tutte le altre formole, come s'egli non avesse mai fatto altro al mondo che il tabellario) lego e lascio spontaneamente ai miei critici tali dei tali (e qui una filza di nomi, ch'io per discrezione tralascio) per ciascuno un paio di quegli arnesi, sulla cui punta leggerà chi ben guardi, la risposta e la gratitudine ch'è loro dovuta ».
Avvicinatosi intanto il momento fatale e sentendosi egli venir meno, raccolse come potè meglio le ultime forze e pronunziò solennemente in latino le parole che disse in simile istante Gregorio VII.
Ma vedendo ch'io prendeva troppo in afflizione quel suo parlare, diede subitamente in una gran risata, e, voltatosi dall'altro lato, spirò.
Queste cose ho voluto raccogliere e riferire dell'amico mio, intendendo a mio corto giudizio di fargli onore. Ma se io sono riuscito per avventura al contrario e le ire non anco sopite sul suo sepolcro si scateneranno sul mio povero capo o vero un sogghigno crudele risponderà alle parole pietose dell'amicizia, io non me ne terrò meravigliato ed offeso: parendomi stoltezza il far carico agli asini d'aver lunghe le orecchie, e ai lupi di perdere più tosto il pelo che il vizio.
(febbraio 1880).