Cap. XXIII

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XXII XXIV
Dello quinquagesimo iubileo in Roma e della tornata la quale fece lo re de Ongaria in Roma e in Puglia.

Currevano anni Domini MCCCL quanno papa Chimento concedéo alli Romani la universale induglienzia de pena e de colpa per uno anno. Dunqua in quello anno senza impedimento alcuno venne a Roma tutta la Cristianitate. A questa induglienzia fu lo cardinale de Bologna su lo mare, legato de Lommardia, e fonce missore Aniballo de Ceccano, cardinale legato in Roma per lo papa per correiere lo puopolo e per ministerio delli pellegrini. Questo cardinale legato, scritta che abbe soa famiglia, muosso de Avignone, descenneva in Lommardia. Missore Ianni Visconte arcivescovo de Milana, tiranno de Lommardia, li iessìo innanti per farli onore. Cinque destrieri copierti de scarlatto, menati a mano, ivano denanti allo arcivescovo. Quanno lo legato vidde questo, stordìo, favellao e disse: «Arcivescovo, que pompa, que vanagloria è questa?» Respuse lo arcivescovo e disse: «Legato, questa non ène pompa, ma ène ca voglio che saccia lo patre santo ca esso hao sotto de si uno chierichetto lo quale pò qualche cosa». A questo arcivescovo non era possibile de avere questi destrieri, ca erano li gruossi cavalli delli conestavili li quali aveva sparzi per le citate. Puoi che lo legato, missore Aniballo, fu ionto in Roma, posao nello palazzo dello papa e comenzao a provedere dello stato de Roma e delli pellegrini. Questo missore Aniballo abbe in sé quattro proprietati non laudabili: la prima, ca esso fu de Campagna; la secunna, che esso fu guercio; la terza, fu moito pomposo, pieno de vanagloria; la quarta voglio tacere. Questo cardinale, ionto in Roma, venne a descordia con Romani per questa via. Avea un sio camiello, lo quale teneva colli muli per la salmaria. La iente trasse uno dìe a questo camiello per vederlo nello renchiostro a pede dello palazzo. Granne cosa fao intorno allo palazzo la iente vana. Chi lo mira, chi li tocca lo pelo, chi lo capo, chi li bennardi. E·llo cavalcano. Ora lo voco fare annare. Granne ène lo cifolare, granne è lo romore. Staieva là un famiglio dello legato. Parzeli male de tanta licenzia, reprenneva la iente. Alle represe aionze le menacce. Onne perzona fece partire fòra dello steccato. La iente non voize più odire. Prenne prete a piena mano, rompo lo steccato e tiengo dereto allo famigliaccio. Iettavano prete su allo palazzo. Gridavano come se fao allo Patarino. A questo romore traie la iente con vastoni e stanche. Dalla piazza de Santo Pietro traio quelli de Puortica armati de tutte arme, clinora de acciaro, pavesi, panziere, scudi, valestre. Allo palazzo se fao lo granne commattere. La porta serrata era. Lo romore era terribile. Le prete fioccavano, verruti e lance, lanciate como acqua ventosa. Ben pare che per forza vogliano tollere la fortezza. Quanno lo legato sentìo ciò, maravigliaose e abbe paura. Staieva su alli balconi de sopre. Sopre tutto vedeva. Non sapeva per che cascione questo fussi. Davase delle mano per lo visaio e diceva: «Questo que vole dicere? Que aio io fatto? Per que tanto detoperio me se fao? Vedi como date cascione voi Romani che·llo patre santo venga a Roma! In questa terra lo papa non fora signore, non fora iusto arciprete. Non me cresi venire a badaluccare. Haco li Romani somma povertate e granne regoglio». Stenneva la mano e faceva semmiante che cessassino de tale furore. Alla fine frate Ianni de Lucca, commannatore de Santo Spirito, curze e sì racquetao li irrazionabili citatini. Onne omo torna a casa. Lo cardinale abbe granne feltrenga; àbberase preso de stare in Avignone. Questo legato fece preclare cose. Esso ficcao in Santo Pietro quelli doi belli panni li quali staco dallo lato dello coro, e donao uno a Santo Ianni e un aitro a Santa Maria Maiure. Questo voize revisitare lo tesauro de Santo Pietro. Questo dava assoluzioni e penitenzie de province e de citate, de principi e cose. Questo punìo penitenzieri, cassaone e impresonaone. Fece cavalieri, deo dignitati e officia. Aizava e abassava lo termine delli dìi. Lì concedeva la remissione delli quinnici in uno dìe per la tanta iente che era in Roma; ca, se questo non faceva, Roma non àbbera potuto reiere tanto. Questo diceva messa pontificalemente con tutte cerimonie como papa. A suono de tromme de ariento veniva in chiesia e tornava in palazzo. Questo legato voize fare la cerca quinnici dìi e guadagnare la anima como l’aitri. Ma vedi que l’incontrao. Ditta messa, cavalcava uno dìe lo legato per fare la cerca. Mossese da Santo Pietro e ivase a Santo Pavolo. Mentre che passao per la strada che vao dalli Armeni a Santo Spirito, in quello luoco che stao in mieso fra Santo Lorienzo delli Pesci e Santo Agnilo delle Scale, de sùbito iessìo de una casella per la finestrella della Incarcerata da lato a Santo Lorienzo doi verruti, li quali fuoro valestrati per occidere lo legato. L’uno no·llo toccao e ne gìo in aria vano, l’aitro lo percosse su nello capiello e sì se ficcao drento. De tale vidanna stordìo lo cardinale. Se fisse la traccia della famiglia, li succurze. Facoli rosta intorno. Lo romore ène granne: «Prienni, prienni». Curri de·llà, curri de cà per trovare chi avea voluto occidere lo cardinale. Curzero nella casetta donne erano venuti li verruti. Avea la casetta l’uscio dereto, una postica. Per quella postica li valestrieri, lassate le valestra, se erano partuti. Misticarose colla moita iente foita per la perdonanza, non fuoro conosciuti. Nella casetta non fu trovata perzona alcuna. Doi valestre trovate fuoro. La casetta gìo per terra pianata. Iustus pro peccatore lo preite fu preso e messo allo tormento, mai non disse chi fuoro quelli valestrieri. Allora se torna a casa lo legato. Omo pomposo che cercava gloria vedeva che non era reputato. Crepava de dolore. Staieva infiammato. Non trovava posa. Vatteva le mano e diceva: «Dove so’ io venuto? A Roma deserta. Meglio me fora essere in Avignone piccolo pievano che in Roma granne prelato. Hacome commattuto a casa nello palazzo. Puoi me haco valestrato. Non saccio de chi vennetta fare». Questo dicenno non pò soa ira temperare. Fece granne scutrinio delli malefattori, mai non fu potuto sapere chi fussino quelli. Estimao e abbe ferma opinione che Cola de Rienzi tribuno fussi stato quello. In nullo aitro puse la colpa. Allora, acciò che lo papa ne avessi compassione, scrisse lettere in corte allo santo patre, dove recitao sio infortunio, como era commattuto, como era valestrato e voluto occidere. E drento della lettera mise lo verruto. Puoi per satisfazione deo una terribile sentenzia e maidizzione contra chi avea peccato contra esso. Maidisse e scommunicao Cola de Rienzi e chi avea frode, appellannolo patarino e fantastico, e annullao onne sio fatto e deoli onne maidizzione che potéo. E privao li colpevoli delli officii e beneficii e dignitate, toizeli acqua e fuoco. Non ce lassao a fare cobelle per confonnere suoi nimici. Omo decretalista sapeva quanto granne era lo errore, quanta pena devea avere. Da quello tiempo innanti sempre portao lo legato sotto lo capiello una cervelliera de fierro e aduosso bone corazzine sotto la cappa. Trovaose a Roma a queste cose lo cardinale de Santo Grisogano, omo de Francia, granne prelato, granne barone. Gìo denanti a missore Aniballo. Per consolarelo queste paravole disse: «Chi volessi rettificare Roma convénnera che tutta la guastassi, puoi la edificassi de nuovo». Ciò ditto, levao la fronnosa. Camina in soa legazione. Voglio dicere como lo legato morìo. Era dello mese de luglio, lo fervente callo. A questo missore Aniballo de commannamento dello papa li convenne assentare fòra de Roma e gire a Napoli a provedere sopra la desolazione dello regno de Puglia, lo quale iva in desperzione, como se dicerao. Spontaneo se parte de Roma lo legato. Oitra per Campagna visitao Ceccano, la soa contrata. Passaone a Montecasino e venne a Santo Iermano. Là posao. Lo sequente dìe mossese da Santo Iermano, fece piccola iornata. Venne a un castiello non moito da longa. In quello castiello posao. Como usanza ène, li presienti li currevano da onne parte. Fra le aitre cose li fuoro presentati moiti buoni vini in fiaschi. Dice omo ca questi vini fuoro venenati, ca li votti tutti erano venenati per la Gran Compagnia che curreva lo paiese. Questo non è verisimile. Pazzo fora chi volessi venenare sio vino. De questi divierzi vini lo cardinale, callo per lo cavalcare, bebbe e bene, perché aveva sete. Era delli buoni vevitori che avessi la Chiesia de Dio. Fu allora alla tavola in sala, alla cena. Omo de Campagna voize vedere la univerza soa famiglia. Stao lieto e de bona aira, cena. Po·lle vidanne per refiescare de consiglio de doi suoi presienti miedici, mastro Guido da Prato e mastro Matteo da Vitervo, soleva manicare latte fiesco pecorino. Voize la usanza servare. Convenne ca de la famiglia isse fi’ allo campo alle precoia e là mognessi le pecora. Empiuto che àbbero de latte uno granne catino de ariento, vennesi alla cena. Granne ora passata aspettao, mentre questo latte se pone e ène monto. Lo cardinale, venuto lo latte, sopra lo latte se pone con suo cucchiaro, comenza a manicare. Presene pieno ventre. Civo corruttivile. Granne ora po’ lo pasto, po’ lo latte vennero cetruoli, e de quelli per refiescare manicao, infusi nello aceto, de commannamento delli miedici ditti. La notte fatta, gìo a posare. Non trovao posa alcuna, non dormìo. Lo civo li stava nello stomaco, crudo, indigesto. La dimane se levao svogliato per lo poco spazio de tiempo che avea cavalcato. Lo primo luoco che trovao fu la villa de Santo Iuorio. Là posao, c’a cavallo non poteva più ire. Posato non magnao la sera. De notte passao de questa vita. Moita tristizia abbe la soa compagnia. Così fu desperduta, como le pecorella abannonate dallo pastore, per doi cascioni: la prima, che tutto lo arnese li fu levato dalli baroni della contrata; la secunna, che·llo nepote dello cardinale, uno delli doi, morìo. Sùbito tutta la famiglia infermao. Quello more, questo more. Tutta la famiglia morìo, ché omo non ne campao. Chi morìo per le terre de Campagna, chi a Roma, chi a Vitervo. Missore Ianni, l’aitro nepote, morìo in Santo Spirito de Roma. Non remansit canis mingens ad parietem. Ecco la novitate: lo legato dello papa morìo in viaio nella villa de Santo Iuorio, po’ esso li nepoti e tutta la famiglia, anno Domini MCCCL, nello iubileo. Lo cuorpo dello legato fu opierto. Grasso era drento como fussi vitiello lattante. La vacuitate dello ventre fu empita de cera munna. Lo cuorpo fu inonto de aloè e vestuto in abito de frate menore. Messo in una cassa sopra de un mulo como fussi una soma, qua venerat via Romam rediit. Venuto in Santo Pietro senza compagnia, senza ululato, senza chierico fu operta semplicemente la soa sepoitura della soa cappella. Là fu iettato. Non fu allocato, anco fu iettato sì che cadde in bocconi, e così imboccato remase. Considera dunqua que ène la vita umana, que ène la gloria dello munno, que ène lo onore. Omo pomposo, aito prelato che desiderava la moneta, li onori, le granne casamenta, le onorabile compagnie, iace solo in abito de povertate, renchiuso in soa tomma; né soie ricchezze vaizero che uno vile omo se faticassi a destennere quello cuorpo secundum debitam figuram, supino.