Cap. XVIII

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XVII XIX
Delli granni fatti li quali fece Cola de Rienzi, lo quale fu tribuno de Roma augusto.

Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare. Fu nato nello rione della Regola. Sio avitazio fu canto fiume, fra li mulinari, nella strada che vao alla Regola, dereto a Santo Tomao, sotto lo tempio delli Iudei. Fu da soa ioventutine nutricato de latte de eloquenzia, buono gramatico, megliore rettorico, autorista buono. Deh, como e quanto era veloce lettore! Molto usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Moito li delettava le magnificenzie de Iulio Cesari raccontare. Tutta dìe se speculava nelli intagli de marmo li quali iaccio intorno a Roma. Non era aitri che esso, che sapessi leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava. Queste figure de marmo iustamente interpretava. Deh, como spesso diceva: «Dove soco questi buoni Romani? Dove ène loro summa iustizia? Pòterame trovare in tiempo che questi fussino!» Era bello omo e in soa vocca sempre riso appareva in qualche muodo fantastico. Questo fu notaro. Accadde che un sio frate fu occiso e non fu fatta vennetta de sia morte. Non lo potéo aiutare. Penzao longamano vennicare lo sangue de sio frate. Penzao longamano derizzare la citate de Roma male guidata. Per sio procaccio gìo in Avignone per imbasciatore a papa Chimento de parte delli tredici Buoni Uomini de Roma. La soa diceria fu sì avanzarana e bella che sùbito abbe ’namorato papa Chimento. Moito mira papa Chimento lo bello stile della lengua de Cola. Ciasche dìe vedere lo vole. Allora se destenne Cola e dice ca·lli baroni de Roma so’ derobatori de strade: essi consiento li omicidii, le robbarie, li adulterii, onne male; essi voco che la loro citate iaccia desolata. Moito concipéo lo papa contra li potienti. Puoi, a petizione de missore Ianni della Colonna cardinale, venne in tanta desgrazia, in tanta povertate, in tanta infirmitate, che poca defferenzia era de ire allo spidale. Con sio iuppariello aduosso stava allo sole como biscia. Chi lo puse in basso, quello lo aizao: missore Ianni della Colonna lo remise denanti allo papa. Tornao in grazia, fu fatto notaro della Cammora de Roma, abbe grazia e beneficia assai. A Roma tornao moito alegro; fra li dienti menacciava. Puoi che fu tornato de corte, comenzao a usare sio offizio cortesemente; e bene vedeva e conosceva le robbarie delli cani de Campituoglio, la crudelitate e la iniustizia delli potienti. Vedeva pericolare tanto Communo e non se trovava uno buono citatino che·llo volessi aiutare. Imperciò se levao in pede una fiata nello assettamento de Roma, dove staievano tutti li consiglieri, e disse: «Non site buoni citatini voi, li quali ve rodete lo sangue della povera iente e non la volete aiutare». Puoi ammonìo li officiali e·lli rettori che devessino provedere allo buono stato della loro romana citate. Quanno la luculenta diceria fu fornita, levaose uno de Colonna, lo quale avea nome Antreuozzo de Normanno, allora cammorlengo, e deoli una sonante gotata. Puoi se levao uno lo quale era scrivisenato — Tomao de Fortifiocca avea nome — e feceli la coda. Questo fine abbe soa diceria. Anco secunnario lo preditto Cola ammonìo li rettori e·llo puopolo allo bene fare per una similitudine la quale fece pegnere nello palazzo de Campituoglio ’nanti lo mercato. Nello parete fòra sopra la Cammora penze una similitudine in questa forma. Era pento uno grannissimo mare, le onne orribile, forte turvato. In mieso de questo mare stava una nave poco meno che soffocata, senza tomone, senza vela. In questa nave, la quale per pericolare stava, stava una femina vedova vestuta de nero, centa de cengolo de tristezze, sfessa la gonnella da pietto, sciliati li capelli, como volessi piagnere. Stava inninocchiata, incrociava le mano piecate allo pietto per pietate, in forma de precare che sio pericolo non fussi. Lo soprascritto diceva: «Questa ène Roma». Atorno a questa nave, dalla parte de sotto, nell’acqua stavano quattro nave affonnate, loro vele cadute, rotti li arbori, perduti li tomoni. In ciascheuna stava una femina affocata e morta. La prima avea nome Babillonia, la secunna Cartaine, la terza Troia, la quarta Ierusalem. Lo soprascritto diceva: «Queste citati per la iniustizia pericolaro e vennero meno». Una lettera iessiva fra queste morte femine e diceva così:

«Sopra onne signoria fosti in aitura.
Ora aspettamo qui la toa rottura».

Dallo lato manco stavano doi isole. In una isoletta stava una femina che sedeva vergognosa, e diceva la lettera: «Questa ène Italia». Favellava questa e diceva così:

«Tollesti la balìa ad onne terra
e sola me tenesti per sorella».

Nella aitra isola staievano quattro femine colle mano alle gote e alli inuocchi con atto de moita tristezze, e dicevano così:

«D’onne virtute fosti accompagnata.
Ora per mare vai abannonata».

Queste erano quattro virtù cardinale, cioène Temperanza, Iustizia, Prudenza e Fortezze. Dalla parte ritta stava una isoletta. In questa isoletta stava una femina inninocchiata. Le mano destenneva a cielo como orassi. Vestuta era de bianco. Nome avea Fede Cristiana. Lo sio vierzo diceva così:

«O summo patre, duca e signor mio,
se Roma pere, dove starraio io?»

Nello lato ritto della parte de sopra staievano quattro ordini de diverzi animali colle scelle, e tenevano cuorni alla vocca, e soffiavano como fussino vienti li quali facessino tempestate allo mare, e davano aiutorio alla nave che pericolassi. Lo primo ordine erano lioni, lopi e orzi. La lettera diceva: «Questi so’ li potienti baroni, riei rettori». Lo secunno ordine erano cani, puorci e caprioli. La lettera diceva: «Questi soco li mali consiglieri, sequaci delli nuobili». Lo terzo ordine stavano pecoroni, dragoni e golpi. La lettera diceva: «Questi soco li faizi officiali, iudici e notari». Lo quarto ordine stavano liepori, gatti e crape e scigne. La lettera diceva: «Questi soco li populari, latroni, micidiari, adulteratori e spogliatori». Nella parte de sopra staieva lo cielo. In mieso stava la maiestate divina como venissi allo iudicio. Doi spade li iessivano dalla vocca, de là e de cà. Dall’uno lato stava santo Pietro, dall’aitro santo Pavolo ad orazione. Quanno la iente vidde questa similitudine de tale figura, onne perzona se maravigliava. Quanno Cola de Rienzi scriveva, non usava penna de oca; anco soa penna era de fino ariento. Diceva che tanta era la nobilitate de sio officio, che la penna devea essere d’ariento. Non moito tiempo passao che ammonìo lo puopolo per uno bello sermone vulgare lo quale fece in Santo Ianni de Laterani. Dereto dallo coro, nello muro, fece ficcare una granne e mannifica tavola de metallo con lettere antique scritta, la quale nullo sapeva leiere né interpretare, se non solo esso. Intorno a quella tavola fece pegnere figure, como lo senato romano concedeva la autoritate a Vespasiano imperatore. Là, in mieso della chiesia, fece fare uno parlatorio de tavole e fece fare gradi de lename assai aiti per sedere. E fece ponere ornamenta de tappiti e de celoni. E congregao moiti potienti de Roma, fra li quali fu Stefano della Colonna e Ianni Colonna sio figlio, lo quale era delli più scaitriti e mannifichi de Roma. Anche ce fuoro moiti uomini savii, iudici e decretalisti, moita aitra iente de autoritate. Sallìo in sio pulpito Cola de Rienzi fra tanta bona iente. Vestuto era con una guarnaccia e cappa alamanna e cappuccio alle gote de fino panno bianco. In capo aveva uno capelletto bianco. Nella rota dello capelletto stavano corone de aoro, fra le quale ne stava denanti una la quale era partuta per mieso. Dalla parte de sopra dello capelletto veniva una spada d’ariento nuda, e la sia ponta feriva in quella corona e sì·lla partiva per mieso. Audacemente sallìo. Fatto silenzio, fece sio bello sermone, bella diceria, e disse ca Roma iaceva abattuta in terra e non poteva vedere dove iacessi, ca li erano cavati li uocchi fòra dello capo. L’uocchi erano lo papa e lo imperatore, li quali aveva Roma perduti per la iniquitate de loro citatini. Puoi disse: «Vedete quanta era la mannificenzia dello senato, ca la autoritate dava allo imperio». Puoi fece leiere una carta nella quale erano scritti li capitoli colla autoritate che·llo puopolo de Roma concedeva a Vespasiano imperatore. In prima, che Vespasiano potessi fare a sio benepiacito leie e confederazione con quale iente o puopolo volessi; anche che potessi mancare e accrescere lo ogliardino de Roma, cioène Italia; potessi dare contado più e meno, como volessi; anche potessi promovere uomini a stato de duca e de regi e deponere e degradare; anco potessi disfare citate e refare; anco potessi guastare lietti de fiumi e trasmutarli aitrove; anche potessi imponere gravezze e deponere allo benepiacito. Tutte queste cose consentìo lo puopolo de Roma a Vespasiano imperatore in quella fermezza che avea consentuto a Tiberio Cesari. Lessa questa carta, questi capitoli, disse: «Signori, tanta era la maiestate dello puopolo de Roma, che allo imperatore dava la autoritate. Ora l’avemo perduta». Puoi se stese più innanti e disse: «Romani, voi non avete pace. Le vostre terre non se arano. Per bona fede che·llo iubileo se approssima. Voi non site proveduti della annona e delle vettuaglie; ca se la iente che verrao allo iubileo ve trova desforniti, le prete ne portaraco de Roma per raia de fame. Le prete a tanta moititudine non bastaraco». Puoi concluse e disse: «Pregove che la pace con voi aiate». Po’ queste paravole disse: «Signori, saccio ca moita iente me teo in vocca per questo che dico e faccio, e questo perché? Per la invidia. Ma rengrazio Dio che tre cose consumano li medesimi. La prima ène la lussuria, la secunna lo fuoco, la terza ène la invidia». Fatto lo sermone e desceso, da tutta iente fu pienamente laodato. In questi dìi usanno alli magnari colli signori de Roma, con Ianni Colonna, li baroni ne prennevano festa de sio favellare. Facevanollo sallire in pede e sì·llo facevano sermonare. E diceva: «Io serraio granne signore o imperatore. Tutti questi baroni persequitaraio. Quello appenneraio, quello decollaraio». Tutti li iudicava. De ciò li baroni crepavano delle risa. Po’ queste cose ’nanti disse la salluta soa e·llo stato della citate e·llo ieneroso reimento per questo muodo. Fece pegnere nello muro de Santo Agnilo Pescivennolo, lo quale è luoco famoso a tutto lo munno, una figura così fatta. Nello cantone della parte manca stava uno fuoco moito ardente, lo fume e·lla fiamma dello quale se stennevano fi’ allo cielo. In questo fuoco staievano moiti populari e regi, delli quali alcuni parevano miesi vivi, alcuni muorti. Anco in quella medesima fiamma staieva una donna moito veterana, e per la granne caliditate le doi parte de questa veglia erano annerite, la terza parte remasa era illesa. Da la parte ritta, nello aitro cantone, era una chiesia con uno campanile aitissimo, dalla quale chiesia iessiva uno agnilo armato, vestuto de bianco. La soa cappa era de scarlatto vermiglio. In mano portava una spada nuda. Colla mano manca prenneva questa donna veglia per la mano, perché la voleva liberare da pericolo. Nella aitezza dello campanile staievano santo Pietro e santo Pavolo como venissino da cielo, e dicevano così: «Agnilo, agnilo, succurri alla albergatrice nostra». Puoi staieva pento como de cielo cadevano moiti falconi e cadevano muorti in mieso de quella ardentissima fiamma. Anco era nella aitezza dello cielo una bella palomma bianca, la quale teneva nello sio pizzo una corona de mortella, e donavala ad uno minimo celletto como passaro, e puoi cacciava quelli falconi da cielo. Quello piccolo celletto portava quella corona e ponevala in capo della veglia donna. De sotto a queste figure staieva scritto così: «Veo lo tiempo della granne iustizia e ià taci fi’ allo tiempo». La iente che conflueva in Santo Agnilo resguardava queste figure. Moiti dicevano ca era vanitate e ridevano. Alcuni dicevano: «Con aitro se vòlzera rettificare lo stato de Roma, che con figure». Alcuno diceva: «Granne cosa ène questa e granne significazione hao». Anche ’nanti disse la salluta soa per questa via. Scrisse una cetola e ficcaola nella porta de Santo Iuorio della Chiavica. La cetola diceva così: «In breve tiempo li Romani tornaraco allo loro antico buono stato». Questa scritta fu posta la prima dìe de quaraiesima nella porta de Santo Iuorio della Chiavica. Puo’ questo adunao moiti Romani populari, discreti e buoni uomini. Anco fra essi fuoro cavalerotti e de buono lenaio, moiti descreti e ricchi mercatanti. Abbe con essi consiglio e rascionao dello stato della citate. Uitimamente adunao questa bona iente e matura nello Monte de Aventino e in uno luoco secreto. Là fu deliverato de intennere allo buono stato. Fra li quali esso fu levato in piedi e recitao piagnenno la miseria, la servitute e·llo pericolo nello quale iaceva la citate de Roma. Anco recitao lo stato pacifico, signorile, lo quale Romani solevano avere. Recitao la fidele subiezzione delle terre circustante perduta. Queste cose dicenno piagneva e piagnere faceva cordogliosamente la iente. Puoi concluse e disse ca se conveniva servare pace e iustizia, comenzanno con sollanieri. Puoi disse «Della moneta non dubitete, ca la Cammora de Roma hao moite riennite inestimabile. In prima, per lo focatico pacano per fumante quattro , comenzanno dallo ponte Ceperano fi’ allo ponte della Paglia. Montava ciento milia fiorini. Item de sale ciento milia fiorini. Anche li puorti de Roma e·lle rocche de Roma ciento milia fiorini. Anche per lo passo delle vestie e per connannazioni ciento milia fiorini». Puoi disse: «Allo presente comenzaremo con quattro milia fiorini, li quali hao mannati missore lo papa, e ciò sao lo vicario sio». Puoi disse: «Signori, non crediate che questo non sia de licenzia e voluntate dello papa, ca moiti tiranni faco violenzia nelli bieni della Chiesia». Per queste paravole accese li animi delli congregati. Anco moite cose recitao, donne piagnevano. Puoi deliverao de intennere allo buono stato, e de ciò ad onneuno deo sacramento nelle lettere. Fatto questo, la citate de Roma stava in grannissima travaglia. Rettori non avea. Onne dìe se commatteva. Da onne parte se derobava. Dove era luoco, le vergine se detoperavano. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se furavano e menavanose a desonore. La moglie era toita allo marito nello proprio lietto. Li lavoratori, quanno ivano fòra a lavorare, erano derobati, dove? su nella porta de Roma. Li pellegrini, li quali viengo per merito delle loro anime alle sante chiesie, non erano defesi, ma erano scannati e derobati. Li prieiti staievano per male fare. Onne lascivia, onne male, nulla iustizia, nullo freno. Non ce era più remedio. Onne perzona periva. Quello più avea rascione, lo quale più poteva colla spada. Non ce era aitra salvezza se non che ciascheuno se defenneva con parienti e con amici. Onne dìe se faceva adunanza de armati. Li nuobili e li baroni in Roma non staievano. Missore Stefano della Colonna era ito colla milizia in Corneto per grano. Era in fine dello mese de abrile. Allora Cola de Rienzi la prima dìe mannao lo vanno a suono de tromma che ciasche omo senza arme venisse allo buono stato allo suono della campana. Lo sequente dìe là, da mesa notte, odìo trenta messe dello Spirito Santo nella chiesia de Santo Agnilo Pescivennolo. Là, su l’ora de mesa terza iessìo fòra della preditta chiesia, armato de tutte arme, ma solo lo capo era descopierto. Iesse fòra bene e palese. Moititudine de guarzoni lo sequitavano tutti gridanti. Denanti da sé faceva portare da tre buoni uomini della ditta coniurazione tre confalloni. Lo primo confallone fu grannissimo, roscio, con lettere de aoro, nello quale staieva Roma e sedeva in doi lioni, in mano teneva lo munno e la palma. Questo era lo confallone della libertate. Cola Guallato, lo buono dicitore, lo portava. Lo secunno era bianco, nello quale staieva santo Pavolo colla spada in mano, colla corona della iustizia. Questo portava Stefanello, ditto Magnacuccia, notaro. Nello terzo staieva santo Pietro colli chiavi della concordia e della pace. Anco portava un aitro lo confallone lo quale fu de santo Iuorio cavalieri. Perché era veterano fu portato in una cassetta su in una asta. Ora prenne audacia Cola de Rienzi, benché non senza paura, e vaone una collo vicario dello papa, e sallìo lo palazzo de Campituoglio anno Domini MCCCXLVI[I]. Aveva in sio sussidio forza da ciento uomini armati. Adunata grannissima moititudine de iente, sallìo in parlatorio, e sì parlao e fece una bellissima diceria della miseria e della servitute dello puopolo de Roma. Puoi disse ca esso per amore dello papa e per salvezza dello puopolo de Roma esponeva soa perzona in pericolo. Puoi fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco Mancino, la lesse brevemente. Questi fuoro alquanti suoi capitoli:

  • Lo primo, che qualunche perzona occideva alcuno, esso sia occiso, nulla exceptuazione fatta.
  • Lo secunno, che li piaiti non se proluonghino, anco siano spediti fi’ alli XV dìe.
  • Lo terzo, che nulla casa de Roma sia data per terra per alcuna cascione, ma vaia in Communo.
  • Lo quarto, che in ciasche rione de Roma siano auti ciento pedoni e vinticinque cavalieri per communo suollo, daienno ad essi uno pavese de valore de cinque carlini de ariento e convenevile stipennio.
  • Lo quinto, che della Cammora de Roma, dello Communo, le orfane e·lle vedove aiano aiutorio.
  • Lo sesto, che nelli paludi e nelli staini romani e nelle piaie romane de mare sia mantenuto continuamente un legno per guardia delli mercatanti.
  • Settimo, che li denari, li quali viengo dello focatico e dello sale e delli puorti e delli passaii e delle connannazioni, se fossi necessario, se despennano allo buono stato.
  • Ottavo, che·lle rocche romane, li ponti, le porte e·lle fortezze non deiano essere guardate per alcuno barone, se non per lo rettore dello puopolo.
  • Nono, che nullo nobile pozza avere alcuna fortellezze.
  • Decimo, che li baroni deiano tenere le strade secure e non recipere li latroni e li malefattori, e che deiano fare la grascia so pena de mille marche d’ariento.
  • Decimoprimo, che della pecunia dello Communo se faccia aiutorio alli monisteri.
  • Decimosecunno, che in ciasche rione de Roma sia uno granaro e che se proveda dello grano per lo tiempo lo quale deo venire.
  • Decimoterzio, che se alcuno Romano fussi occiso nella vattaglia per servizio de Communo, se fussi pedone aia ciento livre de provisione, e se fussi cavalieri aia ciento fiorini.
  • Decimoquarto, che·lle citate e·lle terre, le quale staco nello destretto della citate de Roma, aiano lo reimento dallo puopolo de Roma.
  • Decimoquinto, che quanno alcuno accusa e non provassi l’accusa, sostenga quella pena la quale devessi patere lo accusato, sì in perzona sì in pecunia.

Moite aitre cose in quella carta erano scritte, le quale perché moito piacevano allo puopolo, tutti levaro voce in aito e con granne letizia voizero che remanessi là signore una collo vicario dello papa. Anco li diero licenzia de punire, occidere, de perdonare, de promovere a stato, de fare leie e patti colli puopoli, de ponere tiermini alle terre. Anco li diero mero e libero imperio quanto se poteva stennere lo puopolo de Roma. Puoi che queste cose, le quale in Roma fatte erano, pervennero alle recchie de missore Stefano della Colonna, lo quale staieva in Corneto nella milizia per grano, con poca compagnia senza demoranza ne cavalcao e venne a Roma. Ionto nella piazza de Santo Marciello, disse ca queste cose non li piacevano. Lo sequente dìe, la matina per tiempo, Cola de Rienzi mannao a missore Stefano lo editto e commannamento che se dovessi partire de Roma. Missore Stefano la cetola prese e sì·lla sciliao e fecene milli piezzi e disse: «Se questo pascio me fao poca de ira, io lo farraio iettare dalle finestre de Campituoglio». Quanno Cola de Rienzi questo intese, espeditamente fece sonare la campana a stormo. Tutto lo puopolo traieva con furore. Granne se apparecchiava pericolo. Allora missore Stefano cavalcao in sio cavallo. Solo con uno fante da pede ne fuìo fòra de Roma. A gran pena se fisse poco in Santo Lorienzo fòra le mura per poco de pane manicare. Vaone a Pellestrina lo veterano. Denanti allo figlio e allo nepote lamentanza fao. Allora Cola de Rienzi mannao commannamenti a tutti li baroni de Roma che se partissino e issino a loro castella; la quale cosa subitamente fatta fu. Lo sequente dìe li fuoro rennuti tutti li ponti li quali staco nello circuito della citate. Allora Cola de Rienzi fece suoi officiali. E mo’ prenne uno e mo’ prenne un aitro; questo appenne, a questo mozza lo capo senza misericordia. Tutti li riei iudica crudelemente. E puoi parlao allo puopolo, e in quello parlamento se fece confermare e fece fermare tutti suoi fatti, e domannao de grazia dallo puopolo che esso e·llo vicario dello papa fussino chiamati tribuni dello puopolo e liberatori. Allora li signori voizero fare una loro coniurazione contra lo tribuno e·llo buono stato: non fuoro in concordia; la cosa non venne fatta. Quanno Cola de Rienzi intese che la coniura delli baroni non venne ad effetto per la discordia loro, allora li citao e mannaoli lo editto. Lo primo che venne allo commannamento fu Stefano della Colonna, figlio de missore Stefano. Entrao lo palazzo con pochi. Vidde che·lla rascione se renneva ad onne iente. Moito era lo puopolo lo quale in Campituoglio staieva. Teméo e forte se maravigliao de sì foita moititudine. Lo tribuno li iessìo denanti armato, e sì·llo fece iurare sopra lo cuorpo de Cristo e sopra lo Vagnelio de non venire contra allo tribuno e alli Romani, e de fare la grascia, e tenere le strade secure, e non recettare latroni né le perzone de mala connizione, anche de favorare alli orfani e alli pupilli, e non fraudare lo bene dello Communo, e comparere armato e senza arme ad onne soa petizione. Data licenzia a Stefano, venne missore Ranallo delli Orsini, puoi Ianni Colonna, puoi Iordano, puoi missore Stefano. Non iamo più lontano: tutti li baroni li iuraro obedienzia con paura, allo buono stato, e offierzero le loro proprie perzone e·lle castella e·lli vassalli in sussidio della citate. Francesco de Saviello fu sio speziale signore: nientedemeno venne ad iurare subiezzione. Intanto se servava con crudelitate, nulla misericordia, in tale muodo che decapitao un monaco de Santo Anestasi, perzona infamata. Le vestimenta prime dello tribuno fuoro de una infiammata como fussi scarlatto. Soa faccia era terribile e·llo sio aspietto. A tanta iente dava resposta, a pena àbbera omo creso che avessi capo. Po’ alquanti dìe vennero li iudici della citate e iuraro fidelitate e offierzero allo buono stato. Puoi vennero li notari e fecero lo medesimo. Puoi li mercatanti. Brevemente, per ordine in stato de reposato animo, senza arme, ciascheuno iurao allo buono stato communo. Allora queste cose comenzaro a piacere e le arme comenzaro a cessare. Puo’ queste cose ordinao la casa della iustizia e della pace e ficcao in essa lo confallone de Santo Pavolo, nello quale stava la spada nuda e la palma della vittoria, e puse in essa iustissimi populari, li quali fuoro sopra la pace, li buoni uomini pacieri. Questo ène lo ordine lo quale là se servava. Doi inimicati venivano e davano le piarie della pace fare. Puoi, secunno la connizione della iniuria, aitro e tanto quello che patuto aveva ne faceva a quello lo quale fatto aveva. Allora se basavano in vocca, e·llo offeso dava integra pace. Uno cecao l’uocchio ad un aitro. Venne e fu connutto nelle scale de Campituoglio. Stava inninocchiato. Venne quello lo quale era dell’uocchio privato. Piagneva lo malefattore e pregava per Dio che·lli perdonassi. Puoi destese soa faccia se li piaceva de trarli l’uocchio, se·lli fussi piaciuto. Allora non li cecao l’uocchio, ca fu mosso de pietate, ma sì·lli remise soa iniuria. Delle cose civile se renneva rascione espeditamente. In questo tiempo orribile paura entrao l’animi delli latroni, micidiari, malefattori, adulteratori e de onne perzona de mala fama. Ciasche diffamata perzona iessiva fòra della citate nascostamente, secretamente fuiva. Alla mala iente pareva che essi devessino essere presi nelle loro case proprie e essere menati allo martirio. Dunqua fugo li riei più là assai che non so’ li confini della contrada de Roma. Non speravano salute in alcuno. Lassavano le case, li campi, le vigne, le moglie e·lli figli. Allora le selve se comenzaro ad alegrare, perché in esse non se trovava latrone. Allora li vuovi comenzaro ad arare. Li pellegrini comenzaro a fare loro cerca per le santuarie. Li mercatanti comenzaro a spessiare li procacci e camini. In questo tiempo nella citate de Roma nato fu uno mostro. Nella contrada de Camigliano de una femina pedonessa nacque uno infante muorto, lo quale avea doi capora, quattro mano, quattro piedi, como fussino doi appiccati dallo pietto. Ma l’uno maiure era che l’aitro e pareva che lo menore avanzassi lo maiure, non senza ammirazione della iente. In questo tiempo paura e timore assalìo li tiranni. La bona iente, como liberata da servitute, se alegrava. Allora lo tribuno fece uno sio generale Consiglio, e scrisse lettere luculentissime alle citati e alle communitati de Toscana, Lommardia, Campagna, Romagna, Maretima, allo duca de Venezia, a missore Lucchino tiranno de Milana, alli marchesi de Ferrara, allo santo patre papa Chimento, a Ludovico duca de Bavaria, lo quale era stato elietto imperatore, como ditto de sopra ène, alli regali de Napoli. In queste lettere proponeva lo sio nome per mannifico titulo in questa forma: «Nicola severo e pietoso, de libertate, de pace e de iustizia tribuno, anche della santa romana repiubica liberatore illustre». In queste lettere dechiarao lo stato buono, pacifico, iusto, lo quale comenzao aveva. Dechiarava como lo viaio de Roma, lo quale soleva essere dubioso, era libero. Puoi petiva che·lli mannassino sintichi sufficienti, delli quali avea bisuogno a rascionare cose utile allo buono stato nella sinodo romana. Puoi li confortava e diceva che se alegrassino e daiessino grazie e laode a Dio de tanto e tale beneficio. Li currieri, li quali portavano le soie lettere, portavano in mano vastoncelle de leno pente inarientate. Arme nulla portavano. Tanto muitiplicaro questi suoi currieri, che de essi numero granne era, perché erano receputi graziosamente e granni onori onne omo a loro faceva. Guidardoni tollevano. Uno currieri sio fiorentino fu mannato in Avignone allo papa e a missore Ianni della Colonna cardinale. Reportao la vastoncella de leno de finissimo ariento maitata coll’arme dello puopolo de Roma e dello papa e dello tribuno, valore de fiorini trenta. Po’ la soa tornata lo currieri disse: «Questa verga aio portata piubicamente per le selve, per le strade. Migliara de perzone se soco inninocchiate denanti da essa e basatola con lacrime per alegrezza delle strade sanate, liberate da latroni». Anche aveva lo tribuno li moiti scrittori e moiti dittatori, li quali non cessavano dì e notte scrivere lettere. Moiti erano li più famosi de terra de Roma. Puoi ad esso comenzaro a concurrere buffoni assai e cavalieri de corte, sonettatori e cantatori. Canzoni vulgari e vierzi per lettera de suoi fatti fatti fuoro. In questo tiempo era in Roma uno iovine potente e nobile perzona: nome sio era Martino de Puorto, nepote dello cardinale de Ceccano e de missore Iacovo Gaietano cardinale. Ià per li tiempi passati stato era senatore; suoi antecessori la dignitate dello senato per più fiate àbbero. De questo Martino feci menzione sopra della galea sorrenata. Questo fu signore dello castiello de Puorto. Soa vita era venuta a tirannia. Soa nobilitate bruttava per tirannie, latronie. Prese per moglie una nobilissima femina, madonna Mascia delli Alberteschi, la quale moito era bella e era stata vedova. Stette con questa nova soa donna forza un mese, perché male se sappe retenere. Anche pessimamente se temperava dallo sopierchio civo. Cadde in pessima infirmitate e incurabile. Li miedici dico retruopico. Sio ventre era pieno de acqua. Como votticiello pareva, piene le gamme e·llo cuollo sottile e·lla faccia macra, la sete grannissima. Leguto da sonare pareva. Stavase in soa casa quetamente renchiuso e facevase medicare dalli fisichi. Questo omo così nobile, sotto spezie de securitate infermo a morte, per terrore de tutta l’aitra iente fece pigliare nella propria casa, nelle mano della soa donna, nello palazzo canto lo fiume de Ripa Armea, e fecelo menare a Campituoglio. Puoi che là a Campituoglio fu lo barone latrone connutto, era forza ora de nona. Non fece demoranza. Sonao la campana a stormo. Lo puopolo fu adunato. Fu Martino desmantato, la soa cappa alla cincillonia fatta. E legatoli le mano dereto, fu fatto inninocchiare nelle scale canto lo lione, nello luoco usato. Là odìo la sentenzia de sia morte. A pena lo lassao confessare perfettamente allo preite. Alle forche lo connannao, perché avea derobata la galea sorrenata. Menato così mannifico omo alle forche, nello piano de Campituoglio fu appeso. Soa donna da longa per li balconi lo poteva vedere. Una notte e doi dìe pennéo nelle forche, né·lli iovao la nobilitate né·lla parentezze delli Orsini. A quello modo resse Roma e moiti in simile pena dannao. Questa cosa spaventao li animi delli potienti, li quali sapevano le loro inique operazioni. Aitri per pietate ne lacrimava, aitri ne temeva. Ora comenza la iustizia a prennere vigore. La fama de tale fatto spaventao li mannifichi in tale muodo che a pena avevano fede de sé medesimi. Allora le strade fuoro aperte. Notte e dìe caminavano liberamente li viatori. Non ardisce alcuno arme portare. Nullo omo fao ad aitri iniuria. Lo signore non se accotiava de toccare lo sio servo. Onne cosa guardiava lo tribuno. Per la alegrezze de così escellente fatto piangono alcuni con alegrezze e pregano Dio che fortifichi lo sio core e·llo intellietto in questo proponimento. Tutta la intenzione dello tribuno primamente fu de esterminare li tiranni e confonnerelli in tale via che de essi non se trovassi pianta. Li vetturali, li quali portavano le some, lassavano le some nelle strade piubiche, bene le retrovavano sane e salve. Allora fu mercato nella gota uno lo quale avea nome Tortora (era delli suoi currieri), perché avea receputa pecunia senza licenzia, quanno fu mannato alli regali de Napoli. La fama de sì virtuoso omo per tutto lo munno se destenne. Tutta la Cristianitate fu commossa como se levassi da dormire. Fu uno Bolognese lo quale fu uno delli schiavi dello soldano de Babillonia. Lo primo che potéo aizare, la più corta, ne venne a Roma. Questo disse che allo granne Racham ditto fu che nella citate de Roma se era levato un omo de granne iustizia, omo de puopolo; lo quale respuse e dubitanno disse: «Maumet e santo Elinason aiutino Ierusalem», cioène la Saracinia. Appeso che fu Martino, in quelli dìe fu una festa de santo Ianni de iugno. Tutta Roma a Santo Ianni vao la dimane. Voize questo omo ire alla festa como l’aitri. La soa ita fu per questa via. Cavalcao con granne appriesto de cavalieri. Sedeva sopra uno destrieri bianco. Vestuto era de bianche vestimenta de seta, forrate de zannato, infresate de aoro filato. Sio aspietto era bello e terribile forte. Denanti allo sio cavallo li ivano li ciento iurati da pede armati dello rione della Regola. Sopra lo capo sio portava lo confallone. Un aitro dìe cavalcao per pranzo a Santo Pietro Maiure de Roma. Uomini e femine lo trassero a vedere. Questo fu l’ordine de soa bella cavalcata. La prima iente che venissi fu una milizia de iente armata da cavallo, adornata e bella, la quale devea ire a ponere campo sopre lo profietto. Po’ questi sequitava lo ordine delli officiali, iudici, notari, cammorlenghi, cancellieri, scrivisenato e onne officiale, pacieri e scintichi. Puoi sequitavano quattro menescalchi colli loro cavalcanti usati. Puo’ questi sequitava Ianni de Allo, lo quale portava la coppa d’ariento inaorato in mano collo dono a muodo de senatore. Puo’ questo venivano li sollati da cavallo. Po’ questi venivano li trommatori, li quali venivano sonanno colle tromme d’ariento. Naccari d’ariento sonanti onesto e mannifico suono facevano. Puoi venivano li vannitori. Tutta questa iente passava con silenzio. Po’ questi veniva uno omo solo lo quale portava in mano una spada nuda in segno de iustizia: Buccio, figlio de Iubileo, fu. Po’ questo sequitava uno omo lo quale per tutta la via veniva iettanno e sparienno pecunia a muodo imperiale: Liello Migliaro sio nome fu. De·llà e de cà aveva doi perzone, le quale sostenevano le sacca della moneta. Po’ questi sequitava lo tribuno solo. Sedeva in uno destrieri granne, vestuto de seta, cioène de velluto mieso verde, mieso giallo, forrato de varo. Nella mano ritta portava una verga de acciaro polita, lucente. Nella soa summitate era uno melo de ariento ’naorato, e sopra lo pomo staieva una crocetta de aoro. Drento della crocetta staieva lo leno della croce. Da l’uno lato erano lettere smaitate, dicevano: «Deus», da l’aitro: «Spiritus Sanctus». Puo’ esso immediate veniva Cecco de Alesso e portavali sopre capo uno stennardo a muodo regale. In quello stennardo era lo campo de bianco; in mieso staieva uno sole de aoro splennente e atorno staievano le stelle de ariento. In capo dello stennardo era una palomma bianca d’ariento, la quale portava in vocca una corona de oliva. Dallo lato ritto e manco aveva con seco da pede cinquanta vassalli de Vitorchiano, li fideli, colli sbiedi in mano. Bene parevano orzi vestuti e armati. Po’ questi sequitava la compagnia de moita iente desarmata, sì de ricchi, sì de potienti, de consiglieri, compagni e de moita iente onesta. Con cutale triomfo, con cutale gloria passao lo ponte de Santo Pietro, onne perzona salutanno. De colpo le porte e·lle tavolata fuoro date per terra, la strada spaziosa e libera. Puoi che fu ionto alle scale de Santo Pietro, li calonici de Santo Pietro con tutto lo chiericato li iessiro incontra vestuti e parati colle cotte bianche solennemente, colla croce e collo oncienzo. Vennero cantanno ’Veni Creator Spiritus’ fi’ alle scale e sì·llo recipiero con granne letizia. Inninocchiato denanti allo aitare deo soa offerta. Lo chiericato preditto li raccommannao li bieni de Santo Pietro. Lo sequente dìe deo odienzia alle vedove, alli orfani, alli desolati. E fece prennere doi scrivisenato e feceli mitrare como faizarii e connannaoli in granne pecunia, mille livre per uno. L’uno avea nome Tomao Fortifiocca, l’aitro avea nome Poncelletto della Cammora. Questi doi erano moito potienti populari. Dallo principio questo omo faceva vita assai temperata. Puoi comenzao a muitiplicare vite e cene e conviti e crapule de divierzi civi e vini e de moiti confietti. Puoi fece stecconiare lo palazzo de Campituoglio fra le colonne e chiuselo de lename. E commannao che tutte le steccata delli renchiostri delli baroni de Roma issero per terra; e fu fatto. Anco commannao che quelli travi, tavole e lename fussi portato a Campituoglio alle spese delli baroni; e fu fatto. Allora in casa de missore Stefano della Colonna prese latroni, li quali appese. Puoi connannao ciascheuno lo quale era stato senatore in ciento fiorini, perché de essi voleva reedificare e racconciare lo palazzo de Campituoglio. Recipéo per ciasche barone ciento fiorini, ma lo palazzo non fu acconcio, benché comenzassi. E fece prennere Pietro de Agabito per la perzona, lo quale era stato in quello anno senatore, e a pede, como fussi latrone, lo fece menare a corte dalli suoi menescalchi. Ora comenzano a spessiare le immasciate delle terre e delli nuobili. Tutta Toscana avea ià mannate le immasciarie. Allora ordinao la milizia delli cavalieri de Roma per questo ordine. Per ciasche rione de Roma ordinao pedoni e cavalieri trenta, e deoli suollo. Ciasche cavalieri avea destrieri e ronzino, cavalli copertati, arme adornate nove. Bene pargo baroni. Anco ordinao li pedoni puro adorni, e deoli li confalloni, e divise li confalloni secunno li segnali delli rioni, e deoli suollo. E commannao che fussino priesti ad onne suono de campana e feceselli iurare fidelitate. Fuoro pedoni MCCC, li cavalieri CCCLX, elietti iovini, mastri de guerra, bene armati. Puoi che·llo tribuno se vidde armato de così fatta milizia, allora se apparecchia de movere guerra a più potienti perzone. Manna sio editto intorno e cita tutti potienti nelle finaite de Roma. Intanto ordinao alquanti suoi fattori e mannaoli coglienno lo focatico. Coizero dunqua lo cienzo antico dello puopolo de Roma, e onne dìe la moneta vene a Roma per tale via, che increscimento e fatiga fosse contare pecunia de tanta iente. Prestamente li vassalli delli baroni pacano uno carlino per fumante. Apparecchiavanose a questa paca le citate, le terre e le communanze, le quale staco nella Toscana inferiore e in Campagna e in Maretima. No·llo créseri: li vassalli de Antioccia pacaro. Puoi che·llo editto abbe mannato a tutti li baroni e alle citate intorno, doicemente obediscono, secunno che de sopra ditto ène. Alla loro matre e donna Roma umile reverenzia faco. Solo Ianni da Vico profietto, tiranno de Vitervo, non vole obedire. Per mille voite citato non voize comparere. Allora deo contra esso profietto la sentenzia e privaolo in piubico parlamento della soa dignitate e disse ca era occiditore dello sio frate, fazzioso, e che non voleva rennere lo altruio, cioène la rocca de Respampano, e appellaolo Ianni de Vico. Allora determinao l’oste sopra quello. E feceli capitanio sopra Cola Orsino guarzone, signore de Castiello Santo Agnilo, e deoli per consiglieri Iordano delli Orsini. E abbe in quella oste li moiti aiutorii. E posero campo sopre la citate de Vetralla e stiettero in assedio dìi sessanta. E currevano onne pianura fi’ in Vitervo ardenno e derobanno. Deh, como granne paura fecero a Vitervesi! Donne fu auta Vetralla per bona voluntate delli avitatori. Erance una forte rocca. Quella rocca non fu auta. Volennola Romani prennere per arte de guerra, fecero trabocchi e manganelle. Moito spessiavano loro prete. Puoi fecero una asinella de leno e connusserolla fi’ alla porta della rocca. La notte se fece. Quelli della rocca misticaro zolfo, pece e uoglio, lena, trementina e aitre cose, e iettaro questa mistura sopra lo edificio. La asinella fu in quella notte arza. La dimane fu trovata cenere. In questa oste fuoro Cornetani con tutto loro sfuorzo e Manfredo loro signore. Fuoronce le masnate de Peroscini, de Todini, de Nargnesi, baroni de Roma assai. Moito fu bella oste, potente e onorata. Puoi che li Romani àbbero consumato e guasto onne campo, àbbero arzo lo lavoro e·llo lino fi’ in Vitervo, era mesa state de luglio, quanno lo callo stao infervente. Allora lo tribuno determinao a questa oste ire perzonalmente e mustrare tutta soa potenzia con cavalieri e pedoni e depopulare le vigne de Vitervo. Quanno lo profietto questo sentìo, incontinente penzao de obedire. In questo tiempo erano in destretto alquanti baroni (de Campituoglio non se potevano partire), cioène Stefano della Colonna e missore Iordano de Marini. Lo profietto in prima mannao li immasciatori. Puoi perzonalmente venne a Roma. Era ora nona, da mieso dìe. Entrao in Campituoglio e posese sotto le vraccia dello tribuno. In soa compagnia avea forza da sessanta. Allora fuoro inzerrate le porte de Campituoglio e, sonata la campana, fuoro adunati uomini e femine de Roma. Lo tribuno fece uno parlamento, nello quale disse che Ianni de Vico voleva obedire allo puopolo de Roma. Allora lo renvestiva della prefettura e disse che renneva li bieni dello puopolo. E così fu fatto, perché, ’nanti che lo profietto se partissi de Roma e ’nanti che lo esercito de Vetralla se venissi, rassenata fu alli fattori e allo scindico de Roma la rocca de Respampano, e puoi lo profietto fu lassato. Ora ascoita novitate delle sonnora. La notte denanti allo dìe dello accordo lo tribuno dormiva in un sio oniesto e triomfale lietto. Primo suonno era. Mentre che dormiva, comenzao fortemente a gridare per suonno e diceva: «Lassame, lassame». A questo favellare li servitori della Cammora curzero e dissero: «Signore nuostro, que novitate ène? Volete cobelle?» Allora lo tribuno era resvigliato, favellao e disse: «Mode io me sonnava che uno frate bianco veniva a mine e diceva: ’Tuolli la toa rocca de Respampano. Ecco che te·lla renno’. E dicenno questo in questo suonno me prese per la mano. Allora gridai». Questo suonno né più né meno devenne como fu. Uno fraticiello, lo quale aveva nome frate Acuto de Ascisci spidalieri, lo quale fece lo spidale della Croce de Santa Maria Rotonna, dello quale de sopre feci menzione nella renovazione de ponte Muolli, fu santa e bona perzona. Questo trattao la concordia fra Romani e·llo profietto. Venne lo sequente dìe allo tribuno colle novelle della pace e disse: «Tuolli la rocca de Respampano. Io te la renno». Favellava allo puopolo lo tribuno in parlatorio. Tutta la strada de mercato piena era. In capo della strada apparze frate Acuto vestuto de bianco, a cavallo in un sio asiniello copierto de bianco, incoronato de rami de oliva, colli rami della oliva in mano. Per vederlo moita iente se fioccava. Da longa lo vidde lo tribuno e disse alli suoi cubiculari: «Ecco lo suonno de questa notte». In questa oste de Vetralla lo Romano abbe mille perzone da cavallo, pedoni sei milla. La oste fu tornata incoronata de rami de oliva. Ora voglio un poco iessire dalla materia. Pòtera alcuno adomannare se·llo suonno pò essere vero. A ciò responno e dico: bene che moiti suonni siano vanitati, siano moiti delusioni de demonia, nientedemeno moiti suonni se trova omo veri como Dio li inspirassi, spezialmente in perzone temperate, dove non abunnano fumositate per crapula e per desusato civo, e in tiempo della notte che se dice aurora, quanno se parte la notte dallo dìe, ché lo cerebro stao purificato, li spiriti staco temperati. E de ciò fao fede lo biato santo Gregorio nello Dialogo. Dice santo Gregorio che nello monistero sio fu uno monaco de santa vita e bona lo quale aveva nome Mierolo. Questo Mierolo fra le moite virtute aveva questa, che mai non finava de dicere salmi, salvo quanno manicava e dormiva. Infermao. Dormenno questo frate Mierolo infermo sonnaose che una bella corona de variati fiori descegneva da cielo e posavase nello sio capo. Questo suonno disse alli monaci. Venne e morìo. Como interpretassi sio suonno in bona parte, alegramente passao. Po’ li anni XIIII de soa morte un aitro monaco cavava la sepoitura per uno muorto in quello luoco dove Mierolo stava sepellito. Como fu cavata, subitamente de quello luoco iessìo una fraganzia, uno odore suavissimo, como fussino state in quella fossa rose, viole, igli e moiti fiori. Dunqua bene fu vero lo suonno de Mierolo che da cielo li veniva la corona de fiori, li quali fiori puo’ li anni XIIII renniero odore drento alla fossa. Anco ne fao menzione frate Martino nella soa cronica. Dice che Marziale imperatore, lo quale staieva in Constantinopoli, una notte se sonnao che lo arco de Attila vedeva rotto in doi parte. Estimao Marziale che Attila fussi muorto; e così fu lo vero. Questo Attila fu granne rege e fu granne tiranno. Avea arcieri assai. Tutta Pannonia e Bulgaria gìo profonnenno. Depopulao moite citate, Aquileia e aitre. Occise Bella frate sio e fu sconfitto da Franceschi, Borgognoni e Sanzonesi e Italiani. Nella quale sconfitta fu muorto lo re de Borgogna e fuoronce muorti ciento ottanta milia capora d’uomini, sì che rigo de sangue abunnao. Dunque Attila re como sconfitto retornao in sio paiese e adunao grannissima iente de Ongari e de Daziani e tornava per entrare in Italia. Delle prime terre che trovassi fu Aquileia, la quale disfece. Papa Lione santissimo in quello tiempo viveva. Pregaolo che se iessissi fòra de Italia; e così fu. Como se partìo de Italia per tornare in soa contrada, morìo in Pannonia. La notte de soa morte apparze in suonno a Marziale imperatore in Constantinopoli in Grecia l’arco de Attila rotto, donne Marziale estimao che Attila fusse muorto; e così fu. Anco ne fao menzione Valerio Massimo dello suonno de Cassio Parmese, lo quale se retrovao ad occidere Iulio Cesari, donne se era partito da Roma, iva fuienno. Ottaviano e Antonio lo sequitavano como nemico capitale. Questo Cassio una notte se redusse in una piccola fortezza. Messo a lietto, vidde in suonno uno omo terribile con una faccia scura, lo quale li menacciava. Soie menacce erano in lengua greca. Per doi voite a tale suonno se svigliao. Alla terza se fece venire lo lume e commannao che li suoi servienti lo guardassino. Anco quello medesimo suonno vidde la dimane. Le legione de Ottaviano e l’oste de Antonio li fu sopra, e sì fu preso Cassio e sì li fu tronco lo capo. Aristotile lo filosofo de ciò fao menzione e speziale trattato in un sio livro lo quale hao nome De Suonno e Vigilia, nello capitolo della divinazione nello suonno. Dice Aristotile e quelli li quali sequitano la soa opinione che·llo suonno pote essere vero naturalmente. E ciò sottilemente demustra per una cutale via. In prima suppone lo filosofo che questa differenzia sia fra lo vigliare e·llo dormire. Nello vigliare granni movimenti pargo allo imaginare piccoli, nello dormire li movimenti e·lle cose piccole pargo granne. Como incontra che in alcuna perzona poca de flemma dolce li destilla per la vocca e pareli assaiare zuccaro, mele e cennamo. In alcuno abunna poca de collora e pareli vedere saiette volare per lo cielo, focora, fiamme e tempestate. In alcuno se move ventositate overo alcuno piccolo ventariello e pareli vedere che tutte le ventora tempiestino. La cascione de ciò sì ène che nello sopore tutti li spiriti staco insiemmora redutti drento alla fantasia ed alla imaginativa, donne soco più temperati a comprennere; anco, perché soco adunati, soco più potienti in soa operazione. Nello vigliare li spiriti so’ despierzi, le cose soco varie e moite; e quanno la virtute stao unita, ène più forte che quanno ène sparza. Ià avemo che li spiriti nella notte staco solliciti, intentorosi, e piccola cosa li move. La secunna cosa presuppone Aristotile ène questa. Dice: «Ciò che noi operamo ène per l’airo, senza lo quale vivere non se pote. L’airo ène in mieso de noi. La favella umana vao da omo in omo, perché l’airo ène refratto da omo in omo. L’airo se muta e move secunno le mutazioni le quale l’uomini faco, como è delle densitati delle forme che apparo nello spiecchio». Pone un aitro esempio: «Alcuno ietta la preta nello laco. La preta move l’acqua. L’acqua, mossa una parte, move l’aitra parte vicina in muodo de rota e tante rote fao quanto dura la potenzia dello vraccio. Stao lo pescatore con sio amo, pesca, non vede quello che la preta iettao, ma vede li cierchi che l’acqua fao. Conosce che omo li fao impaccio allo pesce prennere. Movese e veone a pregare che non ietti prete più». Così, dice Aristotile, la favella, le operazione umane mutano l’airo. L’airo mutato da parte in parte perveo allo sentimento umano e delli aitri animali, como incontra che·lla camarda e·lle morte corpora iettano vapori corrotti per lo airo e perveo allo odorato delli lopi e delli avoitori, donne se scrive che cinqueciento miglia lo avoitore curre alle corpora morte. Questo non fora per aitro se non per la mutazione che fa l’airo continuato da cuorpo a cuorpo. Ora vole Aristotile che non solamente li effetti delle cose mutino l’airo, ma anco se muta l’airo per lo volere, li penzamenti dello omo; ché, quanno uno vole occidere un aitro, li spiriti se·lli infiammano aduosso. Li spiriti infiammati mutano l’airo secunno qualitate de quella collora accesa. L’airo mutato se continua colla perzona che deve essere offesa. Nella perzona che offesa deo essere staco li spiriti temperati secunno la connizione dello suonno, comprenno l’ira dello omo sopra de sé secunno alcuna specie, in tale specie o simile. Questa ène la rascione naturale la quale adduce lo filosofo. Dunqua non fu inconveniente se quello imperatore vidde in suonno l’arco de Attila rotto; ché per la morte de Attila l’airo mutao nello emisperio de parte in parte l’airo senza contradizzione, sì che pervenne allo spirito dello imperatore dormente. Ora voglio tornare alla materia. Puoi che lo profietto obedìo e assenao la rocca de Respampano, incontinente li fu rassenato in Maretima lo forte e opulente castiello de Cere, puoi Monticielli da priesso a Tivoli, Vitorchiano da priesso de Vitervo, la rocca de Civitavecchia canto mare, lo Piglio in Campagna e Puorto canto Tevere. Abbe allora alle soie mano le fortellezze, li passi e·lli ponti de Roma in tutto. Allora prese core e ordinao Ianni Colonna capitanio contra quelli de Campagna, se fussino rebelli, specialmente contra lo conte de Fonni, Ianni Gaietano; lo quale Ianni e li Campanini obediero. Lo profietto in segno de vera obedienzia mannao Francesco sio figlio per staio, moito onoratamente accompagnato. Allora Cola de Buccio de Braccia, uno potente che abita sopre le montagne de Riete, fuìo e aizao de la più corta longa da terra de Roma. Puoi fece in Campituoglio una moito bella cappella renchiusa con fierri stainati. Là drento faceva cantare solenne messa con cantori assai e moita illuminaria. Puoi se faceva stare denanti a sé, mentre sedeva, tutti li baroni in pede ritti colle vraccia piecate e colli cappucci tratti. Deh, como staievano paurosi! Avea questo una soa moglie moito iovine e bella, la quale, quanno iva a Santo Pietro, iva accompagnata da iovini armati. Delle patricie la sequitavano. Le fantesche colli sottili pannicielli ’nanti allo visaio li facevano viento e industriosamente rostavano, che soa faccia non fossi offesa da mosca. Avea un sio zio: Ianni Varvieri avea nome. Varvieri fu e fu fatto granne signore e fu chiamato Ianni Roscio. Iva a cavallo forte accompagnato da citatini romani. Tutti li suoi parienti ivano a pari. Avea una soa sorella vedova, la quale voize maritare a barone de castella. E fece officiali e renovao de essi onne rascione. Allora fama e paura de sì buono reimento passao in onne terra. De citate e terre moito lontane vennero a Roma perzone le quale accusaro; e quelli che appellaro e quelli che fuoro puniti no·llo pòtieri credere. Nella citate de Peroscia fu occuitamente occiso uno Iudio, ricchissimo usuraro, colla soa Iudea. Per lo tiempo la esecuzione fu trattata a Roma. Moiti offesi tiranniati delle citate de Toscana vennero a Roma e pregavano per Dio che·lli remettessi in loro case. Ad onne iente bene prometteva. Ora spessiano li forestieri e·lli alberghi so’ repieni per la folla della moita forestaria. Le case abannonate se racconciavano. Nello mercato la moita iente curre. Li signori della Montagna, quelli de Malieti, Todino de Antonio, li quali de Roma soco sempre stati stranieri, tutti se rappresentano. In tiempo de tanta prosperitate, volenno essere solo signore, licenziao lo vicario dello papa, sio collega, lo quale fu uno oitramontano, granne decretalista e vescovo de Vitervo, benché de Avignone, dalli granni prelati, avessi le moite lettere e·lle moite ambasciate. Allora mannao uno ammasciatore allo papa significanno questo stato. Questo ammasciatore, puoi che fu tornato, disse che lo papa con tutti li cardinali forte dubitaro. Ora te conto le ammasciate ornate le quale ad esso venivano. Tutta Roma staieva leta, rideva, pareva tornare alli anni megliori passati. Venne la venerabile ammasciata e triomfale de Fiorentini, de Senesi, de Arezzo, de Tode, de Terani, de Spoleti, de Riete, de Amelia, de Tivoli, de Velletri, de Pistoia, de Fuligni, de Ascisci. Queste e moiti aitri uomini de spettata bontate, perzone posate, oneste, iudici, cavalieri, mercatanti, belli e facunni parlatori, uomini de sapienzia, facevano le ammasciarie. Tutte queste citati e communanze se offierzero allo buono stato. Le citati de Campagna, lo ducato, le terre dello Patrimonio se renniero. Sì non volenno essere sotto la Chiesia lo puopolo de Gaieta colla ammasciaria mannao dieci milia fiorini e offierzerose. Veneziani scrissero lettere seiellate collo seiello pennente de piommo, nelle quale offierzero allo buono stato le perzone loro e·llo avere. Missore Lucchino, lo granne tiranno de Milana, mannao una lettera, nella quale confortao lo tribuno a bene fare e allo buono stato e ammaiestravalo che cautamente sapessi domare li baroni. La maiure parte delli tiranni de Lommardia lo desprezzaro. Ciò fu missore Tadeo delli Pepoli de Bologna, lo marchese Obizo de Ferrara, missore Mastino della Scala de Verona, missore Filippino de Gonzaga de Mantova, li signori de Carrara de Padova, in Romagna missore Francesco delli Ordelaffi de Forlì, missore Malatesta de Arimino e moiti aitri tiranni, li quali, fatta laida e vituperosa resposta, auto più maturo consiglio, apparecchiavano de mannare sollenni ambasciate. Ludovico duce de Bavaria, ià imperatore, fi’ dalla Alamagna mannao secreti ammasciatori e pregava per Dio che·llo accordassi colla Chiesia, ché non voleva morire scommunicato. Dello regno de Puglia li scrisse lo duca de Durazzo e offerivase. Nello soprascritto diceva: «Allo amico nuostro carissimo». Anco li scrisse missore Aloisi, principe de Taranto, e aitri regali. Da Ludovico re de Ongaria veniva una grossa ammasciata e onorata. Ià vennero li preventori delli ambasciatori e pregavano che·llo tribuno collo puopolo de Roma provedessi sopre la vennetta la quale se dovessi fare della cruda morte la quale fece lo re Antrea, re de Puglia, lo quale dalli baroni era stato appeso, como se dicerao puoi. Erano questi preventori della ambasciata doi perzone assai notabile, vestute de ricchi verdi forrati de vari con cappe alamanne. Quanno lo tribuno intese loro ammasciata, volennoli dare resposta, menaoli su nello parlatorio denanti a tutto lo puopolo. Era dìe sabato. Fatto era de alquanti iustizia. Allora se fece ponere in capo la corona tribunale, della quale io farraio menzione. Nella mano ritta teneva uno melo d’ariento colla croce. Allora favellao e disse: «Iudicaraio la rotonnitate delle terre in iustizia e li puopoli in ogualitate». Disse puoi: «Questi soco li ambasciatori delli Ongari, li quali demannano iustizia della morte dello aitro innocente re Antrea». Dalla reina Iuvanna, moglie dello re Antrea, infelice re, abbe lettere graziose, dalla quale medesima la tribunessa ne abbe cinqueciento fiorini e iole. Dallo santo patre apostolico lettere abbe che facessi bene. Da moiti prelati lettere abbe speciali che sapessi suiere le zinne della santa Chiesia como de pietosa e dolce matre. Ora Filippo de Vallois, re de Francia, lettera manna per uno arcieri. La lettera era scritta in vulgare; non era pomposa, ma era como lettera de mercatanti. Quanno la lettera fu ionta in Roma, lo tribuno era caduto de sio dominio, lo stato era rotto, donne fu assenata alli signori de Castiello Santo Agnilo, e Agnilo Malabranca, cancellieri de Roma, l’abbe in soie mano. Voglio alcuna cosa breviare delle magnifiche resposte le quale daieva. Venne a Roma l’ammasciata dello principe de Taranto. Tre fuoro li ammasciatori, uno arcivescovo dello ordine de santo Francesco, mastro in teologia, uno cavalieri a speroni d’aoro, uno iudice con bella compagnia, some e aitro arnese. Quanno li tre ammasciatori fuoro denanti allo tribuno, lo arcivescovo propuse queste paravole: «Misit viros renovare amicitiam». Puoi se destese e disse como loro signore se alegrava moito de sì fatto stato. Puoi lo confortava. Puoi se offerìo. Puoi domannava che Romani fussino una con esso a contrariare allo re de Ongaria, lo quale veniva ad ardere e refocare lo reame de Puglia. Ditte queste paravole, lo ammasciatore fece fine. A queste paravole lo tribuno senza provisione alcuna respuse per questa via. In prima propuse così: «Sit procul a vobis arma et gladius. Terra marique sit pax». Puoi disse: «Avemo alquanti populari, colli quali auto consiglio, a voi darremo resposta». Quanno lo frate, mastro in teologia, queste paravole abbe intese, subitamente esbauttìo sì forte che brevemente non sapeva que dicere. La cascione dello sio sbaottimento fu questa, che·lla resposta dello tribuno responneva alla proposta e ambedoi erano de un tiesto, poco da longa l’uno dall’aitro, nello livro de Maccabei. L’opera fu così. Iente straniera per forza entraro nello reame de Iudea. Li regali de Iudea forte resistenzia fecero. La guerra fu granne. Li campi non fuoro coitivati. La carestia era granne per la contrada. Non avevano foraggio. Convenne che Iudiei recurressino a Romani, colli quali avevano lega. Donne mannaro a Roma li ammasciatori per renovare questa amistanza, ca volevano aiuto e succurzo. Anco vennero e adomannaro grano per la carestia che aveano. In ciò adussero navi e addussero moneta assai. Romani respusero in una lettera, scrissero che essi ortavano non essere guerra in loro paese de Iudea e che pace li donassi Dio per terra e per mare. All’opera della annona li Romani caricaro le navi de grano e·lla moneta misero nelli sacchi, e sì mannaro lo grano e remannaro in reto la moneta. De ciò lo frate esbaottìo, ca penzao in sio animo: «Moito ène savio omo questo tribuno, moita scienzia sao, ché me hao respuosto per lo tiesto della Abibia in quella colonna dove stava la mea proposta. Certo moito sao, moita memoria e prodezza hao». Ora te voglio contare alcuna cosa della iustizia la quale questo faceva. Confesso che quelli che in Roma venno carne o pesce siano li peiori uomini dello munno; onne iente suoglio imbrattare. Allora dicevano nettamente: «Questa carne ène de peco, questa ène de crapa, questa ène sediticcia. Questo pesce ène buono, questo ène rio». Nettamente ciasche arte diceva la veritate. Fra li aitri ambasciatori uno monaco nero della citate de Castiello venne a Roma. Albergao in Campo de Fiore. Là, po’ vespero, levato da cena non potéo trovare la cappa, la quale avea lassata fòra; era furata. Abbe lo monaco alquante paravole coll’oste. L’oste diceva: «Non me assenasti cappa». Non valenno lo turbare a trovare la cappa, lo monaco ne gìo denanti allo tribuno e disse: «Missore, io me pusi a cena. Lassai mea cappa de fore dallo albergo. Credeva che vostra signoria me·lla conservassi. Ora me ène furata. Non la pozzo reavere. Monaco sacrato so’. In gonnella ne vado leieri a muodo de sparvieri». A ciò respuse lo tribuno e disse: «Toa cappa salva ène». Mannao per panni. In quello stante li fece tagliare e cosire ricca cappa de quello panno de quello colore. Ora torna lo monaco moito contento allo albergo e disse: «Io non aio perduta cosa alcuna. Ecco la mea cappa». Lo notaro dello tribuno scrisse li confini dello luoco, e se·lla ruvina soa maturata non fussi, ne traieva più de milli fiorini. Nello terreno dello castiello de Crapanica fu derobato uno vetturale. Be·lli fu tuoito uno mulo e una soma de uoglio. Per bona fede lo conte Bertuollo, de cui era la signoria dello castiello, mannao per lo uoglio e per lo mulo fiorini trenta e quattrociento fiorini pacao per connannazione, ché male guardao lo paiese. Anco uno currieri li portao lettere. Dormenno in sio albergo de notte un aitro currieri lo ammazzao e toizeli soa moneta. Essenno lo malefattore preso, fu sotterrato vivo e de sopra da esso in una fossa fu messo lo occiso. Anche più bella questione della morte de re Antrea se devolveva a Roma. Li abocati da parte dello re de Ongaria e·lli abocati da parte della reina Iuvanna comparzero denanti alla banca dello iudice dello tribuno e questionavano. Li abocati dello re domannavano iustizia. Quelli della reina dicevano ca in la reina non fu alcuna colpa della morte de sio marito. L’aitra parte se mormorava della iniuria e con instanzia domannava vennetta. Le abocazioni dell’una parte e della aitra se mettevano in livro. Questa fu cosa magna de non poco onore. Ora te voglio contare como fu fatto cavalieri a granne onore. Puoi che lo tribuno vidde che onne cosa li succedeva prospera e che pacificamente, senza contradizzione, reieva, comenzao a desiderare l’onoranza della cavallaria. Dunqua fu fatto cavalieri bagnato nella notte de santa Maria de mieso agosto. La grannezza de questa festa fu per questa via. In prima apparecchiao alle nozze tutto lo palazzo dello papa con onne circustanzia de Santo Ianni in Laterano e per moiti dìi denanzi fece le menze da magnare delle tavole e dello lename delli renchiostri delli baroni de Roma. E fuoro stese queste menze per tutta la sala dello viecchio palazzo de Constantino e dello papa e lo palazzo nuovo, sì che stupore pareva a chi lo considerava. E fuoro rotti li muri delle sale donne venivano scaloni de leno allo scopierto per ascio de portare la cucina la quale là se coceva. E ad onne sala apparecchiao lo cellaro de vino nello cantone. Era la viilia de santo Pietro in Vincola. Ora era de nona. Tutta Roma, maschi e femine, ne vaco a Santo Ianni. Tutti se apparecchiano sopra li porticali per la festa vedere e nelle vie piubiche per vedere questo triomfo. Allora venne la moita cavallaria de diverze nazione de iente, baroni, populari, foresi a pettorale de sonaglie, vestuti de zannato, con banniere. Facevano granne festa, currevano iocanno. Ora ne viengo buffoni senza fine. Chi sona tromme, chi cornamuse, chi cerammelle, chi miesi cannoni. Puoi questo granne suono venne la moglie a pede colla soa matre. Moite oneste donne la accompagnavano per volerli compiacere. Denanti alla donna venivano doi assettati iovini, li quali portavano in mano uno nobilissimo freno de cavallo tutto ’naorato. Tromme d’ariento senza numero ora vedesi trommare. Po’ questi venne gran numero de iocatori da cavallo, fra li quali Peroscini e Cornetani fuoro li più avanzarani. Doi voite iettaro loro vestimenta de seta. Puoi veniva lo tribuno e·llo vicario dello papa allato. Denanzi allo tribuno veniva uno lo quale portava in mano una spada nuda. Sopra lo capo un aitro li portava uno pennone. In mano portava una verga de acciaro. Moiti notabili erano in soa compagnia. Era vestuto con una gonnella bianca de seta miri candoris, inzaganata de aoro filato. La sera, fra notte e dìe, sallìo nella cappella de Bonifazio papa, favellao allo puopolo e disse: «Sacciate ca questa notte me dego fare cavalieri. Crai tornarete, ca oderete cose le quale piaceraco a Dio in cielo, alli uomini in terra». In tanta moititudine da onne parte era letizia. Non fu orrore, non arme. Doi perzone àbbero paravole. Adirati trassero le spade. ’Nanti che colpo menassino le tornaro in loro guaine. Onneuno vao in soa via. Delle citate vicine a questa festa vennero li abitatori, che più è, li veterani e·lle poizelle, vedove e maritate. Puoi che onne iente fu partuta, allora fu celebrato uno solenne officio per lo chiericato. E po’ lo officio entrao nello vagno e vagnaose nella conca dello imperatore Constantino, la quale ène de preziosissimo paragone. Stupore ène questo a dicere. Moito fece la iente favellare. Uno citatino de Roma, missore Vico Scuotto cavalieri, li cenze la spada. Puoi se adormìo in uno venerabile lietto e iacque in quello luoco che se dice li fonti de Santo Ianni, drento dallo circuito delle colonne. Là compìo tutta quella notte. Ora odi maraviglia. Lo lietto e·lla lettiera nuovi erano. Como venne lo tribuno a sallire a lietto, subitamente una parte dello lietto cadde in terra et sic in nocte silenti mansit. Fatta la dimane, levase su lo tribuno vestuto de scarlatto con vari, centa la spada per missore Vico Scuotto, con speroni d’aoro, como cavalieri. Tutta Roma, onne cavallaria, ne vao a Santo Ianni, anco li baroni e foresi e citadini per vedere missore Nicola de Rienzi cavalieri. Faose granne festa, faose letizia. Staieva missore Nicola como cavalieri ornato nella cappella de Bonifazio papa sopra la piazza con solenne compagnia. Là se cantava solennissima messa. Non ce mancao cantore, non apparato de ornamento. Mentre che tale solennitate se celebrava, lo tribuno se fece ’nanti allo puopolo, mise gran voce e disse: «Noi citemo missore papa Chimento che a Roma venga alla soa sede». Puoi citao lo colleio delli cardinali. Anco citao lo Bavaro. Puoi citao li elettori dello imperio in la Alamagna e disse: «Voglio che questi vengano a Roma. Voglio vedere che rascione haco nella elezzione»; ca trovava scritto che, passato alcuno tiempo, la elezzione recadeva a Romani. Fatta tale citazione, prestamente fuoro apparecchiate lettere e currieri e fuoro messi in via. Puo’ questo trasse fòra della vaina la soa spada e ferìo lo aitare intorno in tre parte dello munno e disse: «Questo è mio, questo è mio, questo è mio». Era là presente a queste cose lo vicario dello papa. Stava como leno idiota. Non sentiva, ma stupefatto de questa novitate contradisse. Abbe un sio notaro e per sentenzia piubica se protestao e disse ca queste cose non se facevano de soa voluntate, anco senza soa coscienzia e licenzia de papa; e de ciò pregao lo notaro che ne traiessi piubico instrumento. Mentre che lo notaro gridanno ad aita voce queste protestazioni allo puopolo faceva, commannao missore Nicola che tromme, trommette, naccari e ceramelle sonassino, che per lo maiure suono la voce dello notaro non se intennessi. Lo maiure suono celava lo minore. Viziosa buffonia! Fatta questa cosa, la messa e soa solennitate finita fu. Intienni una cosa notabile. Continuamente in quello dìe, dalla dimane nell’alva fi’ a nona, per le nare dello cavallo de Constantino, lo quale era de brunzo, per canali de piommo ordinati iessìo vino roscio per froscia ritta e per la manca iessìo acqua e cadeva indeficientemente in la conca piena. Tutti li zitielli, citatini e stranieri, li quali avevano sete, staievano allo torno, con festa vevevano. Puoi che palesato fu che vagnato era nella conca de Constantino e che citato avea lo papa, moito ne stette la iente sospesa e dubiosa. Fu tale che lo represe de audacia, tale disse che era fantastico, pazzo. Ora ne vaco allo solennissimo pranzo de varietate de moiti civi e nuobili vini signori e donne assai. Sedéo missore Nicola e·llo vicario dello papa soli alla tavola marmorea — menza papale ène — nella sala de Santo Ianni, la vecchia. Tutta quella sala fu piena de menze. La moglie colle donne manicao nella sala dello palazzo nuovo dello papa. In questo pranzo fu maiure carestia de acqua che de vino. Chi voize stare allo pranzo stette. Non ce fu ordine alcuno. Abbati, chierichi, cavalieri, mercatanti e aitra iente assai. Confietti de divisate manere. Funce abunnanzia de storione, lo pesce delicato, fasani, crapetti. Chi voleva portare lo refudio, portava liberamente. A tale convito fuoro li ammasciatori li quali ad esso erano venuti de diverze parte. Mentre lo manicare se faceva, senza li aitri buffoni moiti, fu uno vestuto de cuoro de vove. Le corna in capo avea. Vove pareva. Iocao e saitao. Fornito lo pranzo, cavalca missore Nicola de Rienzi a Campituoglio, vestuto de scarlatto con vari, con granne cavallaria. Non lassaraio quello che ordinao nella soa salluta. Fece una cassa con uno forame de sopre quanno [?] in prezzo, puoi devenne in vilitate. Anche se fece uno capelletto tutto de perne, moito bello, e su nella cima staieva una palommella de perne. Questi divierzi vizii lo fecero tramazzare e connusserollo in perdimento per questa via. Uno dìe convitao a pranzo missore Stefano della Colonna lo vegliardo, della cui bontate ditto ène de sopre. Como fu ora de pranzo, così lo fece menare per forza in Campituoglio e là lo retenne. Puoi fece menare Pietro de Agabito, signore de Iennazzano, lo quale fu prepuosto de Marziglia e allora era senatore de Roma. Anco fece menare per forza Lubertiello, figlio dello conte Vertollo, lo quale era senatore. Anco questi doi senatori fece menare a Campituoglio como fussino latroncielli. Anco retenne lo prosperoso iovine Ianni Colonna, lo quale alli pochi dìi avea fatto capitanio sopra Campagna. Anco retenne Iordano delli Orsini dello Monte, anco missore Ranallo delli Orsini de Marini. Retenne Cola Orsino, signore dello Castiello Santo Agnilo. Retenne lo conte Vertollo, missore Orso de Vicovaro delli Orsini e moiti aitri delli granni baroni de Roma. Non abbe Luca de Saviello né Stefano della Colonna né missore Iordano de Marini. Li sopraditti baroni abbe in sia destretta presone lo tribuno, sotto guardia, e tenneli sotto spezie de tradimento, dannoli ad intennere ca se voleva consigliare con essi, ad alcuni per pranzare. Venuta la sera, li populari romani moito biasimavano la malizia delli nuobili e magnificavano la bontate dello tribuno. Allora missore Stefano lo veglio mosse una questione: quale era meglio ad un rettore de puopolo, l’essere prodigo overo avaro? Moito fu desputato sopra ciò. Dopo tutti missore Stefano, presa la ponta della nobile guarnaccia dello tribuno: «Per ti, tribuno, fora più convenevole che portassi vestimenta oneste de vizuoco, non queste pompose». E ciò dicenno li mostrao la ponta della guarnaccia. Questo odenno Cola de Rienzi fu turbato. La sera era. Fece stregnere tutti li nuobili e feceli aiognere guardie. Missore Stefano lo veterano fu renchiuso in quella sala dove se fao lo assettamento. Tutta la notte stette senza lietto. Annava de là e de cà, toccava la porta, pregava le guardie che·lli operissino. Le guardie non lo scoitavano. Crudele cosa fatta li fu in tutta quella notte senza pietate. Ora se fao dìe. Lo tribuno avea deliverato de troncare la testa ad onneuno nello parlatorio per liberare del tutto lo puopolo de Roma. Commannao che lo parlatorio fussi parato de panni de seta de colori rosci e bianchi, e fatto fu. Ciò fece in segnale de sangue. Puo’ fece sonare la campana e adunao lo puopolo. Puoi mannao lo confessore, cioène uno frate minore, a ciasche barone, che se levassino a penitenza e prennessero lo cuorpo de Cristo. Quanno li baroni sentiero tale novella una collo stormo della campana, deventaro sì ielati che non potevano favellare, non sapevano que·sse fare. La maiure parte se umiliao e prese penitenza e communione. Missore Ranallo delli Orsini e alcuno aitro, perché la dimane per tiempo avevano manicate le ficora fiesche, non se potiero communicare. Missore Stefano della Colonna non se voize confessare né communicare. Diceva che non era apparecchiato, né soie cose aveva despenzate. Intanto alcuni citatini romani consideranno lo iudicio che questo voleva fare, impedimentierolo con paravole dolci e losenghevile. Alla fine ruppero lo tribuno in soa opinione e levarolo de proponimento. Era ora de terza. Tutti li baroni como dannati, tristi, descesero ioso allo parlatorio. Sonavano le tromme como se volessino iustiziare li baroni denanti allo puopolo. Lo tribuno, mutato dello sio proponimento, sallìo nella aringhiera e fece uno bello sermone. Fonnaose nello paternostro: ’Dimitte nobis debita’. Puoi scusao li baroni e disse ca volevano essere in servizio dello puopolo, e pacificaoli collo puopolo. Ad uno ad uno inchinaro lo capo allo puopolo. Alcuni de loro fece patrizii, alcuni fece profietti sopra la annona, alcuni duca de Toscana, alcuni duca de Campagna. E deo a ciascheuno una bella robba forrata de varo, adorna, uno confallone tutto de spiche de aoro. Puoi li fece pranzare con esso e cavalcao per Roma e menaoselli dereto. Puoi li lassao ire in loro viaii salvi. Questo fatto moito despiacque alli descreti. Disse la iente: «Questo hao acceso lo fuoco e·lla fiamma la quale non porrao spegnere». E io li dico questo proverbio: «Chi vole pedere, puoi culo stregnere, fatigase la natica». Vengote a dicere in que muodo fu assediato lo castiello de Marini. Puoi che li baroni fuoro lassati, non curaro de compagnia. Vacone fòra de Roma alle loro fortellezze. Fra dienti menacciavano. Non era accottiante alcuno comenzare la varatta con Romani. Fra tanto Colonnesi e·lli signori de Marini, missore Ranallo e missore Iordano, fortificavano le loro fortellezze. Secretamente faco una iura. Mustrano ca voco rebellare. Fortificano Marini e renovano lo fossato intorno. Menano uno forte steccato de doppie lena. Tanta fu la pascia dello tribuno, che ciò non sappe vetare. Non se parao allo principio. Aspettao fi’ che lo castiello fu forte guarnito. Fra tanto questo tribuno deventao iniquo. Moita iente de esso se mormorava. Puoi che lo castiello de Marini bene fu inforzato, guarnito de saiette, lance e uomini, vettuaglia e mura, lename e vino, la rebellione se scoperze. Folli mannato lo editto che comparessi. Allo messaio fuoro fatte non meno de tre ferute in capo, là fra le vigne de Marini. Puoi essivano fòra de Marini e onne dìe predavano li campi de Roma. Menavano vuovi, pecora, puorci, iumente. Tutto connucevano a Marini. Ora vedese per Roma sciliare de gote. Onne perzona lagnata strilla. Rancore e paura nasco. Un’aitra voita lo tribuno li citao e commannao che venissino a Roma a pede sotto pena dello sio furore. Puoi commannao che fussino penti missore Ranallo e missore Iordano ’nanti allo palazzo de Campituoglio como cavalieri, collo capo de sotto retrosi e·lli piedi de sopra. Perciò peio ne fao missore Iordano. Curreva fi’ a porta de Santo Ianni e prenneva uomini e femine, armenti de vestie. Onne cosa ne porta a Marini. Missore Ranallo, lo frate, ne passao de·llà dallo Tevere e entrao nella citate de Nepe e curreva de·llà e de cà ardenno e predanno. Ardeva terre. Arze la castelluzza, case e uomini. Non se schifao de ardere una nobile donna vedova veterana in una torre. Per tale crudelitate li Romani fuoro più irati. Moito haco conceputo contra missore Ranallo e missore Iordano. Non pare opera da gabe. La perverza mente de Romani fu contra Colonnesi. Era allora le vennegne. L’uva era matura. La iente la pistava. Allora lo tribuno adunao tutto lo puopolo armato e trasse fòra l’oste de Roma e iessìo fòra sopre lo castiello de Marini e locao sio esercito in uno luoco lo quale se dice la Maccantregola. Valle ène sotto una selva, longa dallo castiello forza un miglio. L’oste fu bella, grossa e potente, de pedoni e de cavalieri. Fuoro pedoni da vinti milia, cavalieri da ottociento. Era lo tiempo forte corocciato e piovoso per tale via, che impacciava l’oste. Non li lassava fare guasto alcuno. Alla fine, in spazio forze da otto dìi, guastaro tutto ciò che era intorno allo castiello de Marini. Tutto depopularo lo sio terreno. Tagliaro vigne, arbori; arzero mole; scaizaro la nobile selva non toccata fi’ a quello tiempo. Onne cosa guastaro. Per anni quello castiello non fu tale né tanto. Puoi trassero delli arnari preda secunno che se potéo. Tutta Roma iaceva là. In questi dìi sopravenne a Roma uno cardinale; legato era de papa. Questo legato infestava tuttavia con lettere che·llo tribuno tornassi a Roma, ca·lli voleva alcuna cosa rascionare. Allora lo tribuno, fatto lo guasto, una dimane per tiempo levao campo e annao sopra la castelluzza, poco da longa da Marini. Sùbito la prese, e instanti fuoro dati per terra li muri intorno. Ià voleva commattere la rocca e la torre rotonna, dove se era redutta la fantaria. E per espugnare quella torre avea fatto fare doi castella de lename, le quale se voitavano sopra rote. Avea scale e artificii de lename. Mai non vedesti sì belli ignegni. Apparecchiava picchioni e aitri instrumenti. Moite ammasciate recipéo in quello luoco. Curreva de·llà una acquicella. In quella acquicella vagnao doi cani e disse ca erano Ranallo e Iordano cani cavalieri. Puoi guastao la mola. Puoi mosse tutta soa oste e tornao a Roma, perché le lettere dello legato infrettavano. La matina per tiempo deo per terra le belle palazza in pede de ponte de Santo Pietro, in fronte de Santo Cieizo. Puoi ne ìo con soa cavallaria a Santo Pietro. Entrao la sacristia e sopra tutte le arme se vestìo la dalmatica de stati de imperatore. Quella dalmatica se viesto li imperatori quanno se incoronano. Tutta ène de menute perne lavorata. Ricco ène quello vestimento. Con cutale veste sopra l’arme a muodo de Cesari sallìo lo palazzo dello papa con tromme sonanti e fu denanti allo legato, soa bacchetta in mano, soa corona in capo. Terribile, fantastico pareva. Quanno fu pervenuto allo legato, parlao lo tribuno e disse: «Mannastivo per noa. Que ve piace de commannare?» Respuse lo legato: «Noa avemo alcune informazioni de nuostro signore lo papa». Quanno lo tribuno ciò odìo, iettao una voce assai aita e disse: «Que informazioni so’ queste?» Quanno lo legato odìo sì rampognosa resposta, tenne a si e stette queto. Deo la voita in reto lo tribuno e fao guerra contra Marini, Marini contra Romani. Ora te vengo a contare como Colonnesi fuoro sconfitti in Roma. La guerra era forte. Li citatini de Roma parevano forte affannati della fatica e dello desciascio e dello danno. Lo tribuno non pacava li sollati como soleva. Granne bisbiglio per la citate era. Li cavalerotti de Roma scrissero lettere a Stefano della Colonna, che venissi con iente, ca·lli volevano aperire la porta. Li Colonnesi fecero la adunata in Pellestrina, numero de setteciento cavalieri, pedoni quattro milia. Per forza voco tornare a Roma. Moiti baroni so’ nella iura con essi. Granne apparecchio se fao in Pellestrina. E per tornare a Roma daievano dolce resposta ca volevano venire alle loro case. De questa adunanza lo tribuno forte spaventao e deventao como fussi infermo, matto. Non prenneva civo né dormiva. Una dimane tiempori, ’nanti alla sconfitta forze tre dìi, parlao allo puopolo e confortaolo e fra le moite paravole disse: «Sacciate ca in questa notte me ène apparzo santo Martino, lo quale fu figlio de tribuno, e disseme: ’Non dubitare, ca tu occiderai li nimici de Dio’». L’aitra dimane sequente, de notte moito tiempori, sonao soa campana a stormo. Adunao lo puopolo tutto armato. Assettato parlao e disse: «Signori, facciove asapere ca in questa notte me apparze santo Bonifazio papa e disseme che oie in questo dìe farremo vennetta delli suoi nimici colonnesi, li quali sì laidamente vituperaro la Chiesia de Dio». Puoi disse: «Aio uno figlio — Lorienzo hao nome — que verrà con meco alla vattaglia contra li traditori dello puopolo e contra li periuri». Puoi disse: «Sapemo per le spie nostre ca questa iente ène venuta e posata appriesso alla citate a quattro miglia in uno luoco che se dice Monimento. Donne ène vero segnale che non solamente serraco sconfitti, anco serraco occisi e sepelliti nello Monimento». E ditto questo, fece sonare tromme, ceramelle e naccari, e ordinao le vattaglie e fece li capitanii delle vattaglie, e deo lo nome ’Spirito Santo cavalieri’. Ciò fatto, quetamente, senza romore, colle legione, ordinati da pede e da cavallo, se ne vaco a porta Santo Lorienzo, la quale hao nome porta Tevertina. Delli baroni fuoro collo puopolo Iordano delli Orsini, Cola Orsino de Castiello Santo Agnilo, Malabranca cancellieri della Poscina, Matteo figlio dello cancellieri, Lubertiello figlio dello conte Vertollo, moiti aitri. Non voglio lassare lo muodo che servao lo tribuno dello profietto ’nanti la sconfitta. Lo tribuno mannao per lo profietto. Lo profietto volenno obedire venne con ciento cavalieri per essere alla vattaglia in servizio de Romani. Da XV baronetti de Toscana aveva con seco menati. Anco avea menato sio figlio Francesco. Quella fu la prima voita que arme portao. Denanti a sé mannao cinqueciento some de grano per grascia, como se conveo a profietto. Erase sforzato de compiacere a Romani. Como fu ionto, fu invitato a pranzo. Sedenno, li fu tuoito le arme a si e alli suoi compagni. Puoi fu messo in presone esso e·llo figlio. Lo arnese e·lli cavalli li fu tuoito e dati per Romani. E fece uno parlamento lo tribuno allo puopolo, nello quale disse lo tribuno: «Non ve maravigliate che io tengo in presone lo profietto, ca esso era venuto per ferire da costa e per sconfiere lo puopolo de Roma». Ora torno alla vattaglia. Colonnesi se muossero con granne esfuorzo da Monimento dalla mesa notte e connusserose allo munistero de Santo Lorienzo fòra le mura. Era lo tiempo rencrescevile per la piovia e per lo aspero freddo. Adunarose li baroni, Stefano della Colonna, Ianni sio figlio, Pietro de Agabito, lo quale era stato prepuosto de Marzilia, signore de Iennazzano, missore Iordano de Marini, Cola de Buccio de Braccia, Sciarretta della Colonna e moiti aitri. Vennero a consiglio de que devessino fare, perché Stefano era infestato da un vomaco e tremava como fronne. Pietro de Agabito, essenno un poco affannato, sonnato se aveva de vedere la soa donna vedova che piagneva e sciliavase. Per paura de tale suonno se voleva da l’oste assentare. Non se voleva trovare alla rotta. Anco odivano sonare la campana a stormo. Sapevano che lo puopolo forte irato era e corocciato. Anco perché Stefano della Colonna, capitanio de tutta l’oste generale, como ionze là denanti a tutti, la prima cosa, solo con un fante, a cavallo a un palafreno ne gìo alla porta de Roma e comenzao a chiamare ad aita voce la guardia a nome. Pregava che operissi la porta. Adduceva queste rascioni: «Io so’ citatino de Roma. Voglio a casa mea tornare. Vengo per lo buono stato». Portava lo confallone della Chiesia e dello puopolo. A queste paravole respuse la guardia della porta — Pavolo Bussa avea nome lo buono valestrieri — e disse: «Quella guardia che chiamate qua non stao. Le guardie so’ mutate. Io so’ venuto de nuovo qua con miei compagni. Voi non potete entrare qua per via alcuna. La porta ène inzerrata. Non conoscete quanta ira hane lo puopolo de voi che turbate lo buono stato? Non odite la campana? Pregove per Dio, partiteve. Non vogliate essere a tanto male. In segno che voi non pozzate entrare ecco che ietto la chiave de fòra». Iettao la chiave, e cadde in una pescolla d’acqua la quale staieva de fòra per lo malo tiempo che era. Quanno li baroni, staienno in consiglio, avessino recitate tutte queste cose, bene viddero che entrare non potevano. Deliveraro de partirese ad onore, fatte tre schiere, ordinati venire fi’ alla porta denanti de Roma, le sonante tromme e aitri instrumenti, e dare la voita a mano ritta, tornare a casa con granne onore. Così fu fatto. Ià ne erano venute doi vattaglie, la prima e·lla secunna, sì della pedonaglia sì della cavallaria. Petruccio Fraiapane fu lo connuttore. Sonate le tromme alla porta, diero la voita a mano ritta e senza lesione alcuna tornaro. Ora ne veniva la terza schiera. In questa era la moititudine della cavallaria, erance la nobile iente, eranonce li prodi e bene a cavallo e tutta la fortezza. Uno vanno fu ’nanti messo, che nullo ferisse sotto pena dello pede. Li primi feritori fuoro da otto nuobili baroni, fra li quali fu lo desventurato Ianni Colonna. Questi nuobili primi feritori ’nanti ivano ad onne moititudine uno buono spazio. Era allora l’alva dello dìe. Li Romani drento dalla porta, non avenno la chiave, per forza opierzero la porta per iessire alla varatta. Granne romore fao lo ferire delle accette. Granne ène la confusione dello strillare. La porta ritta fu operta, la manca remase enzerrata. Ianni Colonna, approssimannosi alla porta, considerao lo romore drento, considerao lo non ordinato aperire, estimao che suoi amici avessino muosso drento romore e che avessino rotta la porta per forza. Questo considerato Ianni Colonna sùbito se imbraccia lo pavesotto con una lancia alla cossa, speronao lo sio destriero. Adorno como barone, forte currenno non se retenne, entrao la porta della citate. Deh, como granne paura fece allo puopolo! Allora denanti a esso deo la voita a finire tutta la cavallaria de Roma. Similemente tornao a reto tutto lo puopolo fuienno quasi per spazio de mesa valestrata. Non per tanto questo Ianni Colonna fu sequitato dalli suoi amatori, anco remase solo là como fussi chiamato allo iudicio. Allora Romani presero vigore intennenno che esso era solo. Anco fu più la soa desaventura. Lo destrieri lo trasportao in una grotta poco più de·llà dalla porta, dallo lato manco entranno la porta. In quella grotta fu scavalcato da cavallo e, conoscenno sia desaventura, domannava allo puopolo misericordia e adiurava per Dio che soie armature no·lli dispogliassino. Que vaio più dicenno? Là fu denudato e, datoli tre ferute, morìo. Fonneruglia de Treio fu lo primo che lo colpiao. Iovine era de bona industria, varva non avea messa. La soa fama sonava per onne terra de vertute e de gloria. Iace nudo, supino, feruto, muorto, in uno monteruozzo canto allo muro della citate drento dalla porta. Erano suoi capelli caricati de loto. A pena se poteva conoscere. Ora vedi maraviglia! Incontinente lo tiempo pestilenziale, turvato, se comenzao a reschiarare. Lo sole daieva lucienti raii. De tiempo caliginoso fu fatto sereno e alegro. Intanto Stefano della Colonna in tanta moititudine la quale ordinatamente veniva denanti alla porta teneramente domannao dello sio figlio Ianni. Respuosto li fu: «Noi non sapemo que aia fatto, dove sia ito». Allora sospettao Stefano che avessi entrata la porta. Perciò speronao e solo la porta entrao e vidde che lo sio figlio iaceva in mieso de moiti in terra li quali lo occidevano fra la grotta e·llo pantano della acqua. De ciò, temenno della soa perzona, tornao a reto, iessìo la porta. La mente razionale lo abannonao, fu smarrito. Lo amore dello figlio lo convenze. Non fece paravola alcuna, anco tornao e entrao la porta se per via alcuna poteva lo sio figlio liberare. Non se approssimao, ca conubbe che muorto era. Intenneva a campare la perzona. Tornava in reto tristo. Nello iessire che faceva della porta, venne de sopra dallo torriciello una grossa macina e percosse esso nelle spalle e·llo cavallo nella groppa. Ora lo sequitano le lance lanciate de·llà e de cà. Lo cavallo, feruto nello pietto de lancia, iettava caici, e sì spesso che, non potennose mantenere a cavallo, cadde per terra. Veo lo puopolo senza rascione e sì·llo occide in fronte della porta, in quello luoco dove stao la maine nello parete, in mieso alla strada. Là iacque nudo in veduta ad onne puopolo, a chi passava. Non aveva uno delli piedi. Moite ferute avea. Fra lo naso e·lli uocchi avea una feruta e sì terribile opertura, che pareva lo guado delle gote dello lopo. Lo sio figlio Ianni abbe sole doi ferute nello pettignone e nello pietto. Ora iesse lo puopolo furioso senza ordine, senza leie; cerca a chi dea morte. Scontraro li iovini Pietro de Agabito della Colonna che dereto fu prepuosto de Marzilia, lo quale chierico fu. Mai vestute non se aveva arme se non allora. Era caduto da cavallo. Non poteva liberamente annare, perché la terra era scivolente. Fugìose in una vigna vicina. Calvo era e veterano. Pregava per Dio che perdonassino. Non vaize lo pregare. In prima li tuoizero soa moneta, puoi lo desarmaro, puoi li tuoizero la vita. Stette in quella vigna nudo, muorto, calvo, grasso. Non pareva omo da guerra. Appriesso da esso in quella vigna iaceva un aitro barone delli signori de Bellovedere. Fuoro de muorti in poco de spazio da dodici. Alla supina iacevano. Tutta l’aitra moititudine, sì de pedoni sì de cavalieri, lassano l’arme de·llà e de cà senza ordine con granne paura. Non se voitavano capo dereto. Non fu chi daiessi colpo. Missore Iordano levao la fronnosa, non se retenne fi’ a Marini. Sconfitta fu onne moititudine. Abattuti fuoro li nimici e iacquero muorti in terra, in veduta delli passanti e de onne puopolo, quelli li quali fuoro senatori illustri si’ ad ora nona. Da vero che·llo stennardo dello tribuno gìo per terra. Lo tribuno sbaottito staieva colli uocchi aizati a cielo. Aitra paravola non disse se non questa: «Ahi Dio, haime tu traduto?» Puoi che·lla vittoria fu per lo puopolo, lo tribuno fece sonare soie tromme de ariento e con granne gloria e triomfo recoize lo campo e pusese in capo la soa corona de ariento de fronni de oliva e tornao con tutto lo puopolo triomfante a Santa Maria dell’Arucielo e là rassenao la verga dello acciaro e·lla corona della oliva alla Vergine Maria. Denanti a quella venerabile maine appese la bacchetta e·lla corona in casa delli frati minori. Da puoi mai non portao bastone né corona né confallone sopra capo. Po’ questo parlao allo puopolo in parlatorio e disse ca voleva convertere la spada nella guaina. E trasse la spada e sì·lla forviva colle vestimenta soie e disse: «Aio mozzato recchia da tale capo che non lo potéo tagliare papa o imperatore». Quelle tre corpora fuoro portate in Santa Maria delli frati, copierti de palii de aoro, nella cappella de Colonnesi. Vennero le contesse con moititudine de donne scapigliate per ululare de sopra li muorti, cioè sopra le corpora de Stefano, Ianni e Pietro de Agabito. Lo tribuno le fece cacciare e non voize che·lli fussi fatto onore né esequio e disse: «Se me faco poco de ira quelle tre corpora maladette, facciole iettare nello catafosso delli appesi, ca soco periuri, non soco degni de essere sepelliti». Allora queste tre corpora fuoro secretamente de notte portate nella chiesia de Santo Silviestro dello Capo e là senza ululato fuoro sepellite dalle monache. Qui voglio un poco delongare dalla materia. Scrive lo faconno recitatore Tito Livio che de Africa se mosse uno capitanio, lo megliore che mai fusse nello munno: Aniballo de Cartaine abbe nome. Questo Aniballo ruppe la pace a Romani e desfece la citate de Sagonza in Spagna a despietto e onta dello senato de Roma. Puoi passao l’Alpi de cà in Pedemonti e venne in Lommardia, e là sconfisse Sempronio consolo de Roma ad uno fiume che se dice Tesino, canto Pavia. Puoi ne venne in Toscana e là, allo laco de Peroscia, sconfisse lo esercito de Roma e tagliao la testa a Fiaminio consolo. Puoi voize commattere Spoleti e no·llo potéo avere. Puoi deo la voita in Campagna a Montecasino, e là li venne alla frontiera Fabio lo saputo con granne oste e tennelo ad abaio anni tre. Po’ li tre anni fuoro mutati li capitanii. Fabio fu casso. Li capitanii fuoro doi: per li nuobili fu capitanio Emilio Pavolo, per li populari fu capitanio Terenzio Varro. Lo sapere e·lla industria de Aniballo fu tanta che levao questi doi capitanii dalli piedi loro e connusseli con onne loro potenzia de cavalieri e de pedoni fi’ in Puglia ad uno fiume lo quale se dice Volturno. E là sconfisse lo puopolo de Roma, sconfisse doi osti. Là morìo uno delli imperatori, Emilio Pavolo. Fuoronce muorti ottanta senatori. Morìoce Servilio, lo quale l’anno passato era stato consolo. Morieronce tribuni e bona iente assai. Morieronce quarantaquattro migliara de pedoni. Morieronce otto milia e ottociento cavalieri. Dieci milia fuoro li presonieri. Fonce guadagnata robba infinita, cavalli e arme, aoro e ariento. Li freni e·lle coperte delli cavalli de Romani erano tutte de aoro lavorate. Roma fu terribilemente vedovata. Fatta cotale sconfitta, era ora tarda, calava lo sole. Aniballo vittorioso staieva forte alegro. Li principi dell’oste soa li fecero intorno rota e facevanolli festa e alegrezza dello triomfo che avea in tale dìe. Puoi li domannaro de grazia che quella notte e·llo dìe sequente daiessi posa a si e alla soa cavallaria, perché erano lassi e stanchi. Staieva fra questi principi uno prodissimo omo, lo quale avea nome Maharbal. Questo era duca e connucitore della cavallaria. Fecese ’nanti Maharbal e disse queste paravole: «Aniballo, la opinione mea non è che tu dei posa né a ti né alli tuoi cavalieri. Vòi tu sapere que hai guadagnato oie in questa sconfitta? De qui a cinque dìi tu vincitore manicarai e farrai festa in Campituoglio se senza demoranza esequisci la toa fortuna. Dunque lo posare non fao per ti. Muovi tuoi cavalieri e toie masnate, non li dare posa. Passemone a Roma. Roma trovaremo desfornita colle porte aperte. Serrai signore a queto. Meglio è che Romani dicano: ’Aniballo è venuto’ che: ’Aniballo deo venire’». A queste paravole Aniballo respuse e disse: «Maharbal, io moito laodo la toa bona voluntate, ma la notte hao consiglio. Vogliomene alquanto penzare e consigliare». Respuse Maharbal e disse: «Aniballo, Aniballo, tu sai con tuoi ignegni vencere, ma non sai usare la vettoria». Dunque dice Tito Livio: «Quella demoranza fu salutifera allo puopolo de Roma, ca liberao Romani da servitute e retrasse lo imperio de mano de Africani, alli quali decadeva». Ora allo preposito, se Cola de Rienzi tribuno avessi sequitata la soa vittoria, avessi cavalcato a Marini, prenneva lo castiello de Marini e desertava in tutto missore Iordano, che mai non levava capo, e·llo puopolo de Roma fora remaso in libertate senza tribulazione. Vengote a dicere como lo tribuno cadde dalla soa signoria. La dimane po’ la sconfitta fuoro chiamati tutti li cavalieri romani, li quali appellava ’sacra milizia’, e disseli: «Vogliove dare la paca doppia. Vengate con meco». Non sapeva alcuno que volessi fare. Sonanno le tromme, gìo a quello luoco dove fu fatta la sconfitta. Menao seco un sio figlio Lorienzo. Nello luoco dove fu muorto Stefano remase una pescolla de acqua. Ionto, fece scavalcare lo figlio e asperzeli sopra l’acqua dello sangue de Stefano in quella pescolla e disse: «Serrai cavalieri della vittoria». Maravigliatisi tutti li aitri, anco stordienti, commannao che·lli conestavili da cavallo ferissino lo figlio piattoni colle spade là dallo lommo. Questo fatto, tornao a Campituoglio e disse: «Iate la via vostra. Opera commune ène quella che avemo fatta. Avemo tutti sire romani. A noi e a voi spettao pugnare per la patria». Questo ditto forte turbao l’animo delli cavalieri. Da puoi mai non voizero arme portare. Allora lo tribuno comenzao ad acquistare odio. La iente ne sparlava e diceva ca soa arroganzia era non poca. Allora comenzao terribilemente deventare iniquo e lassare le vestimenta della onestate. Vestiva panni como fussi uno asiano tiranno. Ià mustrava de volere tiranniare per forza. Ià comenzao a tollere delle abadie. Ià prenneva chi pecunia aveva e tollevala. A chi l’aveva imponevali silenzio. Sì spesso non faceva parlamento per la paura che avea dello furore dello puopolo. E prese colore e carne e meglio manicava, meglio dormiva. Allora lassao lo profietto, perché non era sano della perzona; tenne in staio lo figlio. Allora li puopoli lo comenzaro ad abannonare e·lli baroni, e non tanti tanti ivano a corte per la rascione como solevano. Allora impuse la data dello sale; voleva pecunia per sollati. Nientedemeno missore Iordano de Marini non cessava de infestare onne dìe, e prenneva e derobava la iente. De presure se mormorava. Era lo tiempo dello autunno, là dopo le vennegne. Lo grano era caro, valeva lo ruio sette livre de provesini. Questo tolleva la pecunia a chi l’aveva. Missore Iordano predava. Lo puopolo male se contentava. Lo legato cardinale, dello quale de sopra ditto ène, lo maledisse e iudicaolo per eretico. Puoi compuse colli signori, cioène con Luca Saviello, Sciarretta della Colonna, e davali in tutto favore. Allora le strade fuoro chiuse. Li massari delle terre non portavano lo grano a Roma. Onne dìe nasceva uno romore. Era in quello tiempo in Roma uno conte cacciato dallo regno: aveva nome missore Ianni Pepino, paladino de Aitamura, conte de Minorvino. Questo paladino demorava in Roma, perché soie grannie e boganze non potevano patere li regali de Napoli. Cum familia sua degebat Rome. Missore lo conte paladino in quello tiempo fece iettare una sbarra in Colonna. Esso fu lo capo della rottura drento de Roma. La sbarra fu iettata sotto l’arco de Salvatore in Pesoli. Una notte e uno dìe sonao a stormo la campana de Santo Agnilo Pescivennolo. Uno Iudio la sonava. Non ce traieva alcuno a rompere questa sbarra. Lo tribuno sùbito mannao per defesa una banniera da cavallo là a quella sbarra. Uno conestavile, lo quale avea nome Scarpetta, commattenno cadde muorto, feruto de lancia. Quanno lo tribuno sappe che Scarpetta era muorto e che·llo puopolo non traieva allo sio stormare, consideranno la campana de Santo Agnilo Pescivennolo sonare, sospirava forte tutto raffredato, piagneva, non sapeva que se facessi. Sbaottito e annullato lo sio core, non avea virtute per uno piccolo guarzone. A pena poteva favellare. Estimava che in mieso la citate li fussino puosti li aguaiti; la quale cosa non era, perché nullo se palesao rebello. Non era chi se levassi contra lo puopolo, ma solo era raffredato. Se crese essere occiso. Que vaio più dicenno? Con ciò sia cosa che non fussi omo de tanta virtute che volessi morire in servizio dello puopolo, como promesso aveva, piagnenno e sospiranno fece uno sermone allo puopolo lo quale là se trovao e disse ca esso avea bene riesso e per la invidia la iente non se contentava de esso. «Ora nello settimo mese descenno de mio dominio». Queste paravole piagnenno quanno abbe ditte, sallìo a cavallo e sonanno tromme de ariento, con insegne imperiale, accompagnato da armati triumphaliter descendit e gìo a Castiello Santo Agnilo. Là stette celato, renchiuso. La moglie se partìo in abito de frate minore dello palazzo dell’Alli. Quanno lo tribuno scenneva de soa grannezza, piagnevano anco li aitri che con esso staievano. Piagneva e·llo miserabile puopolo. La cammora soa fu trovata piena de moiti ornamenti. De tale lettere messive che fuoro trovate no·llo créseri. Li baroni sapevano cotale caduta, ma stettero dìi tre ’nanti che volessino tornare a Roma per la paura. Puoi che tornaro, demoraro con paura. Li senatori fatti po’ lo tribuno riessero debilemente e penzero lo tribuno collo capo de sotto e colli piedi de sopra a muodo de cavalieri nello muro dello palazzo de Campituoglio. Anco penzero Cecco Mancino, sio notaro e cancellieri. Penzero Conte sio nepote, lo quale rennéo la rocca de Civitavecchia. Lo cardinale legato entrao in Roma e procedeva contra esso e dannao la maiure parte delli suoi fatti e disse ca era eretico. Puoi Cola de Rienzi nascosamente ne gìo in Boemia allo imperatore Carlo e stette in Praga, la citate regale. Puoi ne gìo allo papa in Avignone e là sappe sì fare che fu revocato sio prociesso e fu fatto senatore de Roma per lo papa, e venne a Roma e fece cose memorabile e granne, como se dicerao. Puoi fu occiso per lo puopolo e fattone granne iudicio, como se toccarao nello capitolo de soa tornata in Italia. Lo paladino, lo quale ruppe Roma e·llo buono stato, digno Dei iudicio finao male e vituperosamente morìo. Puo’ fatto questo anni otto, fu appeso per la canna in Puglia, in una soa terra donne era paladino, la quale avea nome Aitamura. In capo li fu posta una mitra de carta a muodo de corona. La lettera diceva così: «Missore Ianni Pipino cavalieri, de Aitamura paladino, conte de Minorbino, signore de Vari, liberatore dello puopolo de Roma». ’Nanti che fussi appeso moito se reparava con sio favellare, diceva: «Non so’ de lenaio de essere appeso. Moneta faiza fatta non aio, né dego portare mitra. Se dato è per lo mio male fare che io mora, tagliateme la testa». La resposta delli regali fu questa: «Per le toie stomacarie lo re Ruberto te impresonao in perpetuo carcere. Lo re Antrea te liberao, fonne amaramente muorto. Delle mano de regali campare non potevi. Sola Roma te recipéo e sì te salvao. Tu li tollesti lo sio buono stato. Tornasti in grazia delli regali. Puoi te facesti capo de granne compagnia. Arcieri e robatori in toie terre allocavi. Tutto lo reame consumavi, derobavi, predavi. Re de Puglia te facevi. Dunqua degna cosa ène che toa vita fine aia laida e vituperosa, como hao meritato». Ecco li fatti primi de Cola de Rienzi, lo quale se fece chiamare tribuno augusto.