Cap. X

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IX XI
Della morte dello re Ruberto e della venuta che fece la reina de Ongaria a Roma.

Anni Domini currevano MCCCXLII[I] quanno finìo li suoi dìe lo inclito e glorioso omo Ruberto rege de Cecilia e de Ierusalem. E fu sotterrato onorabilemente nella citate de Napoli, in Santa Chiara. Iace nello luoco dove duormo suoi antecessori. Per la cui morte lo renno de Puglia fu desolato, como ioso se dicerao. Questo re Ruberto fu omo moito savio, e tanto savio che per sio sapere acquistao la corona, ca non dovea essere re. Esso anche ordinao che Carlo sio frate consobrino, a chi spettava la corona, fussi chiamato re de Ongaria; e così fu, donne puoi fu coronato esso. Questo re Ruberto fu omo che mantenne sio reame in tanta pace, che per tutta Puglia, tutta Terra de Lavoro, tutta Calavria e Abruzzo la iente delle ville arme non portava, né conoscevano arme. Anche portavano in mano una mazza de leno per defennerse dalli cani. Anche questa tale usanza in parte se serva. Questo re, quanno li iogneva la novella che diceva: «Cinqueciento dell’oste toa soco perduti nella vattaglia», responneva e diceva: «Cinqueciento carlini so’ perduti». Questo re fu tanto industrioso che forza de imperio in soa vita non se potéo accostare a sio renno. Doi imperatori consumao drento le mura de Roma: como fu Errigo conte de Luzoinborgo e Lodovico duce de Baviera, como de sopra ditto ène. Anche questo re fu conte de Provenza e fu omo granne litterato, e spezialmente fu espierto nella arte della medicina. Granne fisico fone e filosofo fone. Alcuna cosa avaro voleva vedere como soa moneta despenneva. E che più, le pene perzonale convertiva in pecuniarie. Abbe questo re un sio figlio lo quale fu duca de Calavria. Fu omo moito iustiziale e diceva: «Lo re Carlo, nuostro visavo, acquistao e mantenne questo reame per prodezze, mio avo per larghezze, mio patre per sapienzia. Dunqua io lo voglio mantenere per iustizia». Forte se studiava lo duca de servare somma iustizia. Accadde che uno barone dello renno occise uno cavalieri. Fu citato a corte dello re in Napoli. Là fu tenuto in presone e fu connannato alla testa. Puoi lo re commutao la sentenzia in pecunia de perzonale, ché lo connannao in quinnici milia once. La moneta pacata fu. L’omo tratto dallo dubioso luoco e fu messo in un aitro libero e largo. Quanno lo duca questo sentìo, incontinente entrao quella presone donne questo era stato essito. Li fierri se fece mettere alle gamme. Miserabilemente stava como volessi perdere la perzona. De là non vole iessire. Quanno lo patre sentìo questo, conoscenno la voluntate dello figlio, condescese alla iustizia contra soa voluntate. L’omicidiario la testa perdìo. Da puoi se fece venire denanti lo duca sio figlio, allo quale disse queste paravole: «Duca, noi simo condescesi a toa voluntate a bona fede; ché·lla troppo granne iustizia, dove non se trova remissione, ène pessima crudelitate». Questo re sempre teneva galea apparecchiata per fuire in Provenza, se faceva mestieri; la quale galea se chiamava la galea roscia. Questo re, como abbe receputa la corona, voize reacquistare la Cecilia, la quale sio patre per lussuria perduta avea. Granne esfuorzo de iente fece. Ciento milia perzone abbe. Armao sio navilio per passare a recuperare la Cecilia. ’Nanti che issi, iettao suoi arti, la sorte della geomanzia. Fuolli respuosto che dovea prennere la Cecilia. Ora ne vao lo navilio, e·llo stuolo se calao a Trapani. Là a Trapani, facennose alcuna curreria, fu subitamente presa una donna la quale ne iva a marito. Fu demannata como avessi nome. Respuse: «Io so’ la triste Cecilia». Questo odenno lo re fu forte turvato. Disse ca era ingannato dalli suoi arti. La promessa adempita era. Sio stare non era utile. Procacciava dello tornare; ma tornare non poteva, né avere fodero poteva, perché lo mare era turvato. Granne bussa, granne tempestate faceva. La fortuna no·lli lassava partire, non li lassava portare foraggio. In terra de nemici li conveniva morire de fame. Vedi crudelitate che li convenne usare per scampare con soa oste. Lo pane aveano poco. Davase a mesura. Penzao de mancare iente, perché·lli bastasse più lo pane che avea. Eadem actio prava fuit et studiosa, como Aristotile dice. Era drento, fra mare, una isoletta con selve, forza da longa dall’oste miglia dieci. Abbe galee e mise in esse forza da sei milia perzone, e deoli ferramenta da tagliare lena, accette e ronche, e mannaoli a quella isola sotto spezie de lena fare. Puoi che li sei milia fuoro portati là, fuoro lassati. Li legni tornaro. Là li lassaro senza pane. Là moriero de pura fame. Vedi crudelitate! Per passare tiempo sei milia perzone moriero de fame. Nullo li visitao, nullo li confortao. A questi fora stato de bisuogno la cappa de santo Alberto, la quale se li faceva tavola, per tornare a casa. Mancata che abbe lo re questa soa oste de queste perzone, esso cercava de tornare. Como le navi fuoro descioite, subitamente la tempestate desiettao lo navilio là e cà. Tutta notte viddero li pericoli de mare. Dodici legni, dove lo re stava, per violenzia de fortuna vennero in puorto de Messina. Era l’aurora, lo dìe se faceva. Lo romore delli marinari era granne. Don Federico, cunato de re Ruberto, excitato per tale romore, lo quale non mustrava opera de mercatanti, se levao da lietto e fecese alli balconi e guardanno vidde insegne regale. Conubbe ca re Ruberto, sio cunato, era iettato per la fortuna, lo quale venne per la Cecilia recuperare. La reina sequitao lo re e, ciò conoscenno, disse: «Ahi re, que farrete a mio frate?» Lo re abbe misericordia e non curao ca quelle dodici galee erano perdute. De soie mano non potevano campare. In quello stante, in su la mesa terza, acquetao la fortuna. Lo re con soie galee se trasse alquanto a reto, puoi tanto più che tornao a Napoli. In sio palazzo entrao. Mai non gìo più in armata, né per mare né per terra. Avea un sio ogliardino allato dello palazzo e là sempre stava a valestrare. Mentre che valestrava, penzava li fatti de sio reame. Mentre che iva de segnale a segnale, dava le resposte e·lle odienzie alle iente, commetteva li fatti e·lle cose le quali devea. In questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXLIII, venne a Roma a visitare le corpora delli santi e·lle basiliche sante la reina de Ongaria, matre de Lodovico re de Ongaria e de Antrea re de Puglia, sio frate. Stette dìe tre in Roma e visitao tutte le santuarie e fece granni doni a tutte le chiesie. Frate Acuto, uno fraticiello de Ascisci lo quale fece lo spidale della Croce a Santa Maria Rotonna, fu lo primo che·lli domannassi elemosina per acconciare ponte Muolli, lo quale era per terra. La reina li donao tanta moneta, che lo ponte se refaceva con alcuno aiuto. Donne fuoro fatte le cosse nove e·lla torre e forano fatte le arcora, se non avessi auto impedimento. Puoi incomenzao a muitiplicare la poveraglia de Roma e tanto era lo petire, che non bastava lo sio dare. Per la importunitate delli petitori se abivacciao la reina e convenneli partire. Nam pauperes habent mores corvinos. Rustici montani mores habent lupinos. Moito la onoraro le donne de Roma. Moito ammirava l’abito de Romane. Partìose e gìo a Napoli a visitare sio figlio re Antrea, e visitaolo e là recipéo per la reina Iuvanna e per li conti dello renno quelle onoranze le quale diceraio là dove se tocca della morte de re Antrea. Questa reina veniva sopra una carretta. Quattro palafreni tiravano quella. Otto contesse sedevano con essa. Tutte guardavano ad essa. Nella aitra carretta venivano aitre damiscelle con veli ongareschi e con coronette d’aoro puro in capo. Cinquanta cavalieri a speroni d’aoro intorno, e aitri serviziali. Questa donna avea mozze quattro deta della soa mano ritta. E mozzaolille uno barone de Ongaria: Feliciano abbe nome. La novella fu così. Feliciano abbe una figlia, nome Elisabetta, la quale per compagnia della reina usava in corte regale. Lo cunato dello re carnaliter illam mediante regina cognovit. Venne lo tiempo che·llo patre la retrasse dallo servizio della reina e disse ca·lla voleva maritare. Disse Elisabetta: «Non se conveo che marito aia quella a chi sotto ombra de re è tuoito sio onore». Questo odenno Feliciano fu turbato. Più non disse. Anche ne gìo con un sio iovinetto figlio, cavalieri, a parlare collo re. Lo re era in una oste. Entra Feliciano l’oste e passa onne iente. Passa lo steccato intorno allo re e ionze allo paviglione regale. Là, ’nanti la porta dello paviglione, trovao uno frate, lo quale era confessore dello re, piecaose in terra e sì se confessao e disse: «Io dego condescennere ad uno caso collo megliore cavalieri dello munno, donne è pericolo de morte de doi perzone. Pregote che me assolvi». Lo frate no·llo intese. Imbrattao la porta, fece soa croce, sio miserere, e abbe assoluto de quello che non intenneva. Intra tanto le guardie nunziaro allo re che Feliciano era venuto. Lo re stava a tavola e pranzava esso e·lla reina e sio figlio Lodovico, mode re, lo quale era in etate de infanzia. Deo licenzia lo re che Feliciano entrasse. Feliciano, auto commiato, disse allo figlio: «Sta’ qui. Non entrare. Se odissi romore, cavalca e vattene. Lo cavallo bene te portarao». Entra Feliciano. Quanno lo re lo vidde, aizao la voce e disse: «Ahi pazzo, haime trovata drento la Boemia quella bona spada la quale me promettesti?» Respuse Feliciano e disse: «No. Io la trovaraio. Volete che aia tale fierro, tale tagliare, quale hao questa mea cortellessa?» E ditto questo, aizao la cortellessa sopra lo capo dello re più de doi piedi. Lo re levao l’uocchi per guardare alla accia de questo fierro. Allora Feliciano abassava la mano e lassao cadere de fortuna. Ìo lo colpo per partire la testa dello re in doi parte. Lo re, temenno e tremanno, sùbito se mise sotto la tavola. La reina parao la mano. Lo fierro coize quattro deta, le quale sùbito caddero in terra. La cosa era nova. Lo romore granne. Li donzielli, li quali servivano, colle cortella da servire occisero Feliciano. Puoi curzero sopra lo figlio e sì·llo occisero. Patre e figlio morìo in uno ponto per la lengua de Elisabetta. La reina ne perdìo mesa mano.