Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/In Serenella

In Serenella

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Cimutti Giacomo
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IN SERENELLA


I


L
A luce veniva lenta a destare i colori della palude, del canale, della spiaggia verde dell’isola. L’enorme piano s’era illuminato gradatamente tutto nello stesso tempo. Il sole non si vedeva ancora ma la luce che riverberava dal cielo si diffondeva senz’ostacoli dappertutto nello stesso tempo. Al di là della palude appariva la città con l’aspetto modesto ch’essa ha da quella parte, pareva un alveare disabitato. I profili delle case si scorgevano netti, limpidi, come se la notte li avesse lavati. In tanta estensione l’immobilità, il silenzio appariva grande sorprendente. La palude era rossigna a quell’ora; vista da vicino appariva sucida, desolata, abbandonata com’era da varie ore dall’acqua che ancora calava. Il canale che divideva la palude dall’isola già sorrideva, trasformando in colore ben deciso la luce ancora sbiadita ed era trasparente e azzurro e poi ancora giallo e rosso là dove meno profondo lambiva la palude.

Alla spiaggia la casa padronale che all’esterno pareva una lunga tettoia in varie sezioni dai tetti appuntiti era chiusa ancora e silenziosa. A questa di faccia lontana dalla riva invece la casa dell’operaio Cimutti dava qualche indizio di vitalità. A pianterra ardeva una fioca lucerna e sul focolare stentava ad accendersi il fuoco.

Poi la porta s’aperse e ne uscí Cimutti un uomo ancora giovine, magro, dalla piccola testa coperta fittamente di capelli neri, corti. Con lui entrò nel panorama il freddo. Batteva – per scaldarsi – i piedi, e lanciava in croce le braccia.

Doveva avere l’abitudine di parlare ad alta voce. Gettò un’occhiata d’antipatia alla casa padronale e disse: «Se quell’impiastro fosse alzà se poderave averzer el magazzen e stivar i barili». In quella chetamente la porta dell’abitazione padronale si aperse senza cigolare e ne uscí il signor Giulio. Doveva [p. 268 modifica]essere sulla quarantina, alquanto grasso e floscio, una faccia rotondetta, mite, con due buoni occhi azzurri un po’ incerti. Cimutti lo salutò sorpreso di vederlo alzato e gli disse: «Giusto pensavo che gaveria podesto pensar a stivar i barili nel magazzen...». L’altro lo interruppe: «Altro che stivare i barili! Mi sono ricordato che l’acqua cala e che iersera abbiamo dimenticato di tirar fuori la barca. Se ritardiamo ancora ci avviene come un mese fa che fino alle 10 siamo rimasti senza barca». Cimutti che aveva benché rispettosamente sempre una tendenza all’obbiezione: «Oh! l’acqua cresce!». Il freddo e il dispiacere di aver dovuto abbandonare sí di buon’ora il letto resero impaziente il signor Giulio. Divenne parolaio perché uso a vincere la lieve resistenza che sempre incontrava in Cimutti: «Andiamo! Va subito alla cavana! Che cosa parli dell’acqua che non l’hai ancora vista? Sei sempre fatto cosí, tu! Se avessi potuto fidarmi di te avrei potuto dormire tranquillamente! Ma adesso, poi, che ti ho avvertito, non perdere tempo». E s’infuriò vedendo che Cimutti si dirigeva dalla parte opposta della cavana. «Ebbene! Se non vuoi tirare fuori la barca tu, la tirerò io!» E s’avviava! Cimutti, fu alla riscossa: «Vado a tor el remo sotto la tesa! Nol vorrà miga che voga con le man!». Il signor Giulio fu interdetto: Aveva data prova di tanta previdenza ed ora gli veniva giustamente rinfacciato di obliare che per movere una barca ci voleva il remo! Cimutti ritornava già dalla tesa col remo sulla spalla col suo passo breve e veloce. Il signor Giulio lo seguí. Era il suo lavoro principale quello di star a vedere il lavoro altrui. Inoltre doveva ora guadagnare tempo. Non voleva destare né la moglie, la signora Anna, né i figliuoli prima delle sette. Egli doveva perdere tempo. Poi ricordò che bisognava levare anche la gondola dalla cavana perché ce n’era bisogno alle 8. Seguí piú lentamente Cimutti attraverso il lungo prato popolato da alberelli alquanto deboli. Trovò che Cimutti aveva deviato dalla cavana e s’era recato alla spiaggia. Stava a guardare l’acqua. Vi gettò un fuscello di paglia per vederlo trasportare. «Cala! Cala infatti! Ma come?» e si fece meditabondo quasi avesse voluto provare che il torto era dell’acqua. [p. 269 modifica]«Geri sera alle otto la calava...» Il signor Giulio ci si divertiva ai conteggi di Cimutti: «Già, tu hai il calendario dell’acqua in testa!». «Ma no!» protestò Cimutti «El ga razon! El ga fatto benissimo de svegiarse.» Sulla cavana correva un piccolo ponticello che abbreviava la via alla prossima calle. Era coperta da un tetto fatto di sottile lamerino guadagnato da involti di certa merce che arrivava nel deposito. Cimutti volse la schiena all’acqua con un grido: «Ma era l’altr’ieri che l’acqua calava alle 8... Non alle 8, alle 9». E fra giorni e ore fece una confusione tale che per schiarirla esclamò: «Ora capisco, ora capisco!» e scese nella cavana. Il signor Giulio lo seguí per la scaletta fatta di pietre smosse. Cimutti era arrivato giú in un balzo. Il signor Giulio per quanto si trovasse in laguna da quattr’anni, poco pratico di cavane e di barche andava adagino. Quando arrivò giú trovò Cimutti che aveva già slegata la barca. Poi andò a poppa e si spinse fuori. Il punto piú secco della cavana era all’uscita e la barca attraversandolo produsse quello sfregamento che in laguna è un rumore ben sgradevole. Annuncia al navigante ore di lavoro. Il malcauto è andato in secca. «Vedi ch’era tempo!» disse il signor Giulio. Poi Cimutti cominciò a vogare contro corrente per portare la barca al pontile ove doveva essere caricata. «Vieni poi a prendere anche la gondola» avvertí il signor Giulio che s’era arrampicato fuori della cavana. Il sole non aveva ancora varcato l’orizzonte ma la luce era oramai ben decisa. La chiesa di S. Micel elegante, candida, guardava la palude come un’oasi guarda il deserto. Guardava la palude solo per il signor Giulio che vedeva questa in iscorcio. Di lí a poco i vaporini sarebbero passati sull’enorme canale fra la chiesa e la palude. Il cimitero celato dal muro di cinta avrebbe potuto secondo il signor Giulio celare qualche cosa di piú lieto: Egli non ci aveva nessuno dei suoi che riposavano tutti all’asciutto a S. Anna di Trieste. Egli aspirò con voluttà la fredda aria mattutina. Quelle cose: La palude, i canali, il battisterio bianco di S. Micel e anche quel muro rosso che s’ergeva dall’acqua o dal fango erano i suoi cari compagni da quattr’anni. Il suo principale lavoro era stato di guardarli e studiarli ed anche di sognarvi su. Come [p. 270 modifica]sarebbe stato bello che tutta la chiesa avesse avuto il colore del battisterio, di marmo bianco. L’oasi di disegno umano sarebbe stata imponente ed importante come l’enorme palude che ad acqua bassa arrivava fino al lontano ponte ferroviario. Ed alla moglie che lo stava ad ascoltare sorridente egli diceva: «Già, è certo che gli antichi Veneziani fecero la chiesa tutta bianca. Quando si trattava di cose simili essi non risparmiavano!». E non sapeva nulla della storia del paese che tanto amava. C’erano in casa dei libri che la signora Anna si procurava per far piacere al marito ma egli non aveva il tempo di leggerli. Non s’era levato tanto di buon’ora per lavorare? Guardò verso Venezia oltre la palude. Là sulla palude proprio — se egli fosse stato milionario — avrebbe fatto costruire una enorme Pietà in marmo pario che avrebbe riepilogato il tempio magnifico di marmo... che – forse — c’era stato una volta a S. Micel. La Pietà egli l’aveva vista a Trieste ma doveva essere riprodotta in forme colossali tali che alla distanza di un chilometro cioè dalle Fondamenta Nuove si avrebbe potuto percepire le due figure della Donna che consola l’Uomo inginocchiato e riposante nel suo grembo. L’acqua salendo avrebbe dovuto poter coprire il piedestallo e lambire i piedi delle due figure. Certo il monumento doveva essere rivolto al Cimitero e cosí anche dalla spiaggia sua il signor Giulio avrebbe potuto vederlo tutto, immoto nell’acqua sempre nuova e viva.

Cimutti ritornò a prendere la gondola. Al suo solito, camminando col suo passo svelto, parlava a voce alta. Parlava tuttavia dell’acqua che calava cosí fuor di proposito. «E bisogna fare anche presto perché di qui a mezz’ora non sarebbe piú tempo! Buono che lei ci ha pensato!» disse al padrone. E per ingraziarselo aggiunse: «E poi dicono ch’ella non lavora. Guai se non ci fosse». Il signor Giulio che stava facendosi una sigaretta a queste parole fece quel piccolo movimento inevitabile in chi si sente penetrare nella carne uno spillo. Qualcuno doveva aver detto ch’egli non lavorava. E guardando la sigaretta le labbra che dovevano presto lasciar passare la lingua per umettare la carta fina si atteggiarono a rancore. Lo avevano mandato a quel posto — i suoi due fratelli Nino [p. 271 modifica]ed Ugo — come ad una sinecura. Egli sapeva bene, accettando, che non sarebbero stati tanto buoni e poi lui non era uomo da accettare una sinecura. Arrivato qui s’era messo a lavorare a tutt’uomo. Era in piedi da mattina a sera. Ci si trovava benissimo a patto non avessero detto ch’egli non lavorava. Si trovava in grande dipendenza dal fratello maggiore e dal minore due persone che avevano assorbite tutte le qualità di intraprendenza ch’erano state disponibili per la famiglia Linelli. A lui non ne era rimasto niente. Ed essi erano stati la colpa della sua rovina perché fino ad un certo punto egli s’era limitato a condurre avanti la baracchetta ereditata dal padre ricavandone quel piccolo utile che gli occorreva. Ma intanto essi avevano scovato fuori affari inauditi con l’America, il Giappone, la China e che so io ed egli volendo far vedere che valeva quanto loro s’era messo anche lui nelle cose grandi che lo avevano subito subito schiacciato. «Ebbi sfortuna!» diceva alla moglie. «Perché di attività non mancai mai. Come lavoro ora, lavorai sempre.» E la buona signora stava attenta di non lasciar trasparire il sorriso che le faceva il solletico su tutta la faccia. Ella, ora che gli era vicina tutto il giorno, sapeva com’egli solesse lavorare. Stava a guardare gli operai che stivavano casse e barili facendoli chiacchierare e ripetendo i loro motti abbelliti dalla loro loquela natia. Poi andava a vedere la chiesa di S. Micel e la laguna e la palude e girava poi dall’altra parte a contemplare la chiesa degli Angeli e il grande canale di Murano e la palude da quella parte piú alta e piú sconsolata ancora. Egli dalla vita non domandava altro. Di domenica andava in sandolino vogato dal giovine Sandro sotto poppa d’inverno una bottiglia di rum, d’estate un’aranciata fresca. Avevano lo schioppo a bordo e la licenza di caccia ma era proibito di tirare e il sandolino passava per i canali piú lievi. Ad acqua alta varcava la palude ed il signor Giulio stava là sognando attività, ricchezze, monumenti e preoccupato dall’equilibrio. Talvolta portò con sé la sua piccola Maria ma al ritorno trovavano al pontile tutta sconvolta dall’ansia la signora Anna che non si fidava troppo della sua salvaguardia per la bambina. [p. 272 modifica]

Intanto Cimutti con una spinta vigorosa era uscito dalla cavana e vogava in mezzo al canale. Adesso era chiaro abbastanza per scorgere ogni movimento della sua fine nervosa figura compiente l’opera paziente del remo. E, fumando, a passo lento il signor Giulio si avviò verso la casa. Oramai la casa di Cimutti era viva del tutto. Lisa la moglie era già al mastello mentre i figliuoli Maria, Tonin e la Nilda erano ancora nella cucina scarsamente illuminata a mangiare della polenta fredda avanzata del giorno prima con un po’ di caffè caldo. Il signor Giulio era tanto abituato ad assistere al lavoro altrui che si fermò anche dinanzi al mastello della siora Lisa. «Bel tempo» fece per avviare conversazione e guardava il fuoco che la Lisa aveva acceso sotto due vasi quadri pieni di acqua. Il fuoco faceva ancora un grande fumo e poco calore. Lisa carponi lo stizzava. Poi da un cesto cominciò ad estrarre la biancheria sucida. Essa guardò il cielo: «Magari durasse!». Pensava a quando avrebbe avuto bisogno di secco e di sole dopo lavata la biancheria. La Lisa aveva una faccina gradevole ancora quantunque sfiorita per gli stenti. Erano da quattr’anni a quel posto e ci erano arrivati nudi e crudi come Dio li aveva fatti. La signora Anna ricordava di aver comperato per loro le prime coperte. Ora, invece, mangiavano tutto il santo giorno polenta in varie forme condita con quello che restava della tavola padronale ma avevano tutto il necessario per coprirsi e scaldarsi. Cimutti — cosí correva voce in Serenella — faceva una vita meglio che discreta. Guadagnava con le ore straordinarie poco sotto la trentina di lire alla settimana ma ne mangiava quasi la metà per sé. La famiglia sarebbe rimasta perciò veramente povera se la Lisa non avesse lavorato per suo conto. Lavava e cuciva per i padroni e passava parecchie ore del giorno nella casa padronale a prestare servizii. A forza di lavoro la sua faccina diventava sempre piú piccola mentre il suo corpo — cosa strana — diventava piú grosso. Ora, coperta di cenci, di nuovo china ad attizzare il fuoco, pareva una botticella. Il fazzoletto in testa legato sotto il mento le rendeva anche piú piccola la faccina esangue. E il signor Giulio vedendola perché ella, per rispetto, subito non appena lasciato il fuoco, al[p. 273 modifica]zava a lui il capo, ricordò l’ultima malattia della Lisa. Indisposta essa s’era trascinata per una settimana fra mastello e scafa,1 poi una mattina s’era messa ad urlare dal male e l’avevano portata all’ospedale. Ci era rimasta per un paio di settimane e ne era ritornata la faccia un po’ piú colorita e il corpo un po’ piú magro. «E state sempre bene, ora, Lisa?» domandò il signor Giulio. «Sí, signore, sempre!» disse essa con un mite sorriso che pareva di soddisfazione. Egli volle anche sapere se dacché aveva abbandonato l’ospitale si sentisse meglio o peggio. Ella rispose di non saperlo bene; era indecisa. Le pareva poco di sua convenienza di raccontare al padrone di sentirsi meno bene. Anche Cimutti aveva perduto il servizio anteriore in seguito ad una malattia. Essa aveva potuto vedere che i Linelli eran fatti altrimenti ma pur era meglio guardarsi. L’esitazione non fu percepita dal signor Giulio. Egli era sempre alla ricerca del buono e del meglio ed anche quando non c’era lo ritrovava. Dunque siora Lisa stava bene e alla sua famiglia erano garantiti tutti quei denari ch’essa sapeva guadagnare e alla signora Anna era assicurato un aiuto che rendeva loro tanto piú facile il soggiorno in quel luogo deserto. Ed egli non disse piú nulla per non interromperla nel suo lavoro. Ella levava dal canestro la biancheria sucida ed egli guardava fantasticando: Ecco le calzine della sua bambina Olga. Parevano quelle di un’adulta mentre quattr’anni prima quando erano venuti in laguna erano state tanto piú piccole. Le calze e la camiciuola del piccolo Nino. Quelle sarebbero cresciute e di lí a pochi anni avrebbero avute le dimensioni delle cose di Olga che ora andava a scuola... alla scuola promiscua... che non si poteva ancora sapere se era una buona cosa.... ed era bene ch’egli si fosse levato a far trarre la gondola dalla secca... ed in complesso Cimutti non era molto intelligente. E cosí quando il signor Giulio si volse per andare a prendere il caffè in casa il giorno era fatto. I primi raggi del sole avevano nettato la palude che oramai appariva pura gialla e azzurra, pura quanto i canali d’argento che la circonda[p. 274 modifica]vano, quanto la città colorita nella quale a quella distanza l’unico segno di vitalità percettibile era il fumo mobile di alcuni fumaiuoli e camini.


II


L’abitazione di un piano solo in quella che all’esterno pareva una baracca era priva di eleganza ma molto comoda. Dalla porta d’ingresso con poche scale si giungeva ad una vasta anticamera intorno alla quale stavano tre stanze da letto la camera da bagno la cucina e la camera da pranzo. Nell’anticamera ardeva già un’enorme stufa che sarebbe bastata a scaldare tutto l’appartamento. Il signor Giulio saliva le scale con prudenza per non destare i bambini ma dalla stanza a destra fu un vociare lieto che gli ridiede la libertà di movimento. Olga disse che aspettava il babbo da parecchio tempo. Giulio entrò nella stanza e andò a spalancare la finestra. Olga era ben desta e salutò il babbo gettandogli le braccia al collo con un abbandono che benché innocente pur forse preludeva alla futura madre alla futura sposa. Il bambino Nino era stato invece destato dalla luce e si sforzava di tener aperti gli occhi mentre il sonno ancora lo teneva i braccini abbandonati sul guanciale. Al signor Giulio dispiacque di averlo destato e avrebbe volontieri rinchiuso di nuovo la finestra per ridar la pace al piccolo organismo che ancora ne abbisognava. Ma il bambino non poteva ritornare alla pace del sonno. Subito quando capí che il padre voleva rinchiudere le persiane si mise a piangere e la bocca spalancata e gli occhi sonnolenti chiusi piangeva il dolore di essere stato destato o dall’ira che si voleva dormisse ancora. Il signor Giulio andò ad accarezzarlo l’anima piena di sorrisi davanti a tutta quella carne rosea. Il Nini aveva dato in passato delle preoccupazioni ai genitori; la laguna lo aveva rinvigorito ed era agli occhi del signor Giulio uno dei meriti di quell’acqua che andava e veniva la salute di quel bambino. E tanto lo riconosceva figlio della laguna che scherzosamente lo chiamava “masinetta"2. Finalmente [p. 275 modifica]il Nini trovò la parola al suo pianto: Voleva il caffè. La piccola Olga era saltata nel letto del Nini e lo consolava come sapeva. E tutti urlavano il nome della cameriera “Italia”. Nel pianto lo diceva il Nini, lo diceva con lui la Olga e il signor Giulio e lo diceva dall’altra stanza la signora Anna che aveva ben capito che cosa significasse tutto quel rumore perché era una scena che si ripeteva giornalmente all’ora del caffè. Italia accorse con un vassoio e le due tazze di caffè per il Nini e per la Olga. Ecco un’altra che rendeva piú facile la vita in quel deserto. La signora Anna l’aveva conosciuta a Venezia sarta di qualche talento ma non di grande clientela. Viveva allora con una sorella che poi si sposò e con la madre che morí. La signora Anna che per aver passate tante giornate a lavorare insieme all’Italia nella solitudine di Serenella le si era affezionata le disse un giorno scherzosamente: «Sa che la mia cameriera se ne è andata? Perché non verrebbe lei a prendere il posto suo?». Italia senz’altro accettò a grande sorpresa della signora Anna e a suo non piccolo imbarazzo perché ella non pensava di fare un tanto buon affare come si vide poi. Italia aveva accettato anch’essa quasi per ischerzo ma in pochi istanti la sua determinazione era presa. Ella che amava la sua arte di sarta non poteva lasciarla con piacere per quella di cameriera ma come si fa per orgoglio continuare a vivere sola del tutto a questo mondo: Pochi anni prima ella aveva avuto una disillusione d’amore oramai dimenticata ma di amore per lei non si parlava piú. Ella si vedeva con tutta sincerità abbastanza brutta e a certe cose non ci pensava piú. Era magra, alta, la schiena un po’ piegata, due dolci occhi grigi e i capelli ch’erano stati di color castano già molto bianchi ad onta della sua età giovanile. Ella aveva accettato prima di tutto per amore alla piccola Olga e al piccolissimo Nini, poi per amore alla grande signora Anna e infine per simpatia a quel buon sognatore del signor Giulio. Dunque in quella casa c’era molto da fare ma in compenso anche molto calore, un agglomeramento di vita di cui Italia sentiva il bisogno e di cui voleva fare parte. Ed ora i giorni trascorrevano veloci, tutto il giorno occupata, gran parte della giornata in gondola ad accompagna[p. 276 modifica]re a scuola e a casa la piccola Olga, poi a sorvegliare Nilda l’insempia, l’altra serva, che non sapeva né cucinare né pulire ma che pur doveva cucinare e pulire perché altrimenti nessuno l’avrebbe fatto; però cucinava e puliva sotto l’immediata sorveglianza d’Italia che per ambedue le cose aveva un talento speciale. Ed Italia corrompendo un noto stornello cantava: Io son la cameriera... con apparente amarezza ma in fondo con soddisfazione e senz’alcun rimpianto. La signora Anna sempre pochino indisposta le lasciava volontieri quasi il posto di padrona di casa. Olga era piú attaccata alla mamma da cui aveva avute le prime cure in gioventú ma il Nini era tutto di Italia. Ed ella se lo teneva bene tutto per sé. La gelosia le usciva dagli occhi quando lo vedeva in braccio altrui. Si tratteneva rispettosamente dal portarlo via alla madre ma glielo avrebbe strappato con tanta violenza da fargli male. Invece al padre lo lasciava volontieri e si associava a lui quando egli si metteva intorno al bambino. Non confessata attorno al bimbo si faceva una lotta per ottenerne i favori e cosí egli veniva guastato quanto la famiglia poteva. Ora aveva due anni ma in Serenella il vero padrone era lui. Bortolo il bottaio ch’era malizioso fu domandato un giorno dal signor Giulio quale tempo era da attendersi per il giorno appresso. Lo si derideva perché egli non aveva nulla del marinaio e non sapeva nulla del tempo. Rispose che bisognava domandarlo al Nini perché da lui dipendeva il tempo in Serenella. Italia aveva oltre che le qualità di lavoro e d’ordine altre qualità che la rendevano preziosa in Serenella. Era attrice nata; aveva tutto il talento che in laguna è diffuso doviziosamente. Le sere erano lunghe in Serenella quando il tempo non era bello e Italia aiutava a passarle. Il suo repertorio non era vasto ma per i bambini bastava. Tant’è vero che domandavano sempre la ripetizione delle stesse cose. Anzi quasi sempre quando si era soli nella stanza da pranzo, domandavano una alla volta la ripetizione di tutte le cose ch’essa sapeva delle rappresentazioni di tipi di maestrine di classi inferiori o di ragazze al ballo o imitazioni di tipi della famiglia come la moglie del vero padrone del luogo cioè il fratello maggiore del signor [p. 277 modifica]Giulio, una signora alquanto imperiosa e impaziente e sempre in corsa attraverso la vita. Quando veniva in Serenella, di Serenella non si poteva piú parlare. La piccola Olga faceva docilmente la seconda parte in tutte le commediole di Italia e ci si divertiva un mondo. Anche il Nini sapeva all’occasione collaborare con certi suoi lazzetti che finivano sempre col farlo capitombolare sul tappeto.

La signora Anna chiamava ora il caffè e il marito. Essa usava prendere il caffè in letto e il signor Giulio andava ogni mattina ad aprirle le persiane e a mettersi poscia accanto al suo letto per prendere insieme il caffè. Dopo la nascita del Nini la signora Anna non era stata piú bene e fra le altre molteplici cure che le erano state imposte c’era anche quella di restare in letto circa metà della giornata. Era stata una buona donna di casa la signora Anna ed ora non le serviva piú che il suo occhio. I due fratelli del signor Giulio facevano una grande stima di lei mentre avevano un sincero disprezzo per lui quale uomo d’affari. Lo celavano appena, appena tale disprezzo. Prenderlo con loro in ufficio non avrebbero voluto perché persone vive e attive non potevano sopportare accanto a loro un sognatore eterno come quello, affetto anche da una specie di follia del dubbio che faceva di ogni affare un ridda di affari perché – si sa — ogni affare può dar luogo a dieci dubbi. E non lo celavano neppure alla signora Anna che quella posizione a Murano era stata creata in riguardo a lei piuttosto che in riguardo a lui. La signora Anna dunque non poteva farsi illusioni sulle capacità commerciali del marito ma ciò non che il suo affetto, non diminuiva neppure la considerazione in cui essa lo teneva. Perché in complesso anche i sogni del signor Giulio erano cosa che rendeva piú lieta e facile la vita solitaria in Serenella. E poi la coscienza che in quel luogo solitario s’era finalmente trovato il luogo dove il signor Giulio inerte e buono era e si sentiva felice rendeva quel soggiorno ben aggradevole. Poi l’inerzia tanto favorita da quella solitudine era favorevole anche a lei che aveva le gambe malate. Tutti a Trieste furono stupiti di vedere i due coniugi adattarsi tanto bene alla nuova vita. Nessuno lo avrebbe creduto neppure [p. 278 modifica]loro. La solitudine era grande continuavano a dire i coniugi Linelli e i loro congiunti ma vi era tanta gente buona e servizievole che questa solitudine attenuava... Certo questa buona e servizievole gente non bastava ad annullare la solitudine.

Il signor Giulio se fosse stato sincero avrebbe dovuto confessare che l’unico e solo male di Serenella era la dipendenza da Trieste. Levata Trieste Serenella sarebbe stata un soggiorno cui nulla avrebbe mancato. Il fratello Nino ch’era quello che rivedeva i conti che venivano da Serenella inviava di tempo in tempo degli scritti fulminanti in quel luogo tanto tranquillo. S’accorgeva di qualsiasi piccolo aumento di spesa nella gestione e mandava dei brevi scritti con i quali rendeva note le sue conclusioni e nello stesso tempo le sue decisioni. Si avevano una volta delle grandi lavorazioni di sacchi in Serenella per esportare della merce che vi arrivava sciolta con delle barcaccie. Un bel giorno Nino fece una visita al deposito. Girò un paio d’ore per il deposito e assistette al riempimento dei sacchi in verità un po’ malagevole visto che un operaio doveva tenere la bocca del sacco mentre un altro lo riempiva. Il signor Nino stette a guardare per un pezzo il grosso uomo adibito ad un lavoro tanto leggero. Propose di mettere al posto del facchino una delle donne che cuciva i sacchi. Il signor Giulio si mise ad obiettare: Le donne adibite alla cucitura dei sacchi erano contate; non si poteva toccarle. «Domani ne prenderai una di piú» rispose seccamente Nino. «La stagione non è precisamente favorevole per ingaggiare delle donne a Murano» osservò Giulio con un sorriso di superiorità per chi voleva ingerirsi senz’intendersene negli affari cui egli sovrintendeva. Senza rispondere Nino si rivolse alla donna che teneva il sacco: «Mi occorrerebbe un’altra donna per questo lavoro dei sacchi». La donna lasciò cadere il sacco credendo le fosse stato dato l’ordine di correre a Murano a cercarne subito una. «Non occorre mica tanta premura» disse Nino allontanandosi sorridendo e continuò il suo giro. Passò dal bottaio, Bortolo, un uomo sorridente sempre, l’unico veneziano in Serenella, debole e astuto. S’informò da lui sul prezzo delle doghe a Venezia ma subito risultò che si ritira[p. 279 modifica]vano in gran parte da Trieste. Nino si fece una notizia nel suo libretto e non ne parlò piú. A tavola scherzando parlò ancora della difficoltà di trovare delle donne che vogliano lavorare a Murano. La cognata ascoltava sorridendo finché non arrivò a capire che nello scherzo c’era un rimprovero per il marito. E allora cercò di provare che a Murano non era tanto facile di avere delle donne per quel lavoro dei sacchi. E Nino ad arrabbiarsi: «Quante donne volete da Murano per il dessert?». Aveva ragione. Erano ancora anni in cui il lavoro in Laguna si dava quasi gratis. Ma quella visita di Nino ebbe conseguenze gravi. Da Trieste venne l’ordine di licenziare tutte le donne che facevano i sacchi e di prendere invece altri tre bottai. Se Nino fosse stato in Serenella Giulio avrebbe potuto fargli delle obbiezioni. I bottai costavano piú delle donne. La tela da sacchi costava meno delle doghe e dei cerchi di ferro e dei fondi e coperchi. È vero che il barile si maneggiava meglio ma una peata conteneva piú sacchi che non barili. «Eppoi chissà quante volte il barile ch’è rotondo non rotolerà in canale!» diceva il signor Giulio alla moglie. «Loro, a Trieste, non hanno un’idea di questi paesi e danno ordini rovinando tutta la nostra organizzazione.» Le donne dovettero andarsene e fu un grande dolore per il signor Giulio perché quel lavoro femminile per quanto poco retribuito era pure un grande aiuto per certe famiglie. Vennero i bottai e arrivarono con delle barche a vela direttamente da Trieste le doghe. Il signor Giulio dovette subito convenire che il lavoro era grandemente facilitato. A lui non furono comunicati i calcoli in base ai quali si era presa la decisione e perciò ebbe per sempre la consolazione di poter dire che i barili erano buoni ma che costavano piú dei sacchi. Nino, per quante volte venne in Serenella, con lui non discusse mai la questione. Alla cognata diceva ch’egli con Giulio non amava discutere di affari per non scontrarsi in tanti dubbi. «Eppoi» aggiungeva per indorare la pillola «son dubbî che vengono da mio fratello; son dubbi che vengono dalla mia razza e vi sono troppo accessibile.» E gli ordini da Trieste sconvolgevano ad ogni tratto il piccolo posto. Avevano tenuto il primo anno due [p. 280 modifica]peate con le quali avevano eseguite da sé le proprie spedizioni. Dopo il primo anno si dovette mandarle in cantiere a ripararle e non appena ricevuto il conto delle spese, Nino diede ordine di vendere le peate perché aveva già dato ordine ad uno spedizioniere per affidargli il lavoro che fino allora avevano fatto con quelle peate. Allora Giulio credette i proprî dubbî tanto fondati da poterli comunicare per lettera a Trieste. Sulla rivendita delle peate avrebbero perduto tanto e tanto e il costo di ogni spedizione sarebbe stato di tanto e tanto... La risposta da Trieste fu imperativa e le peate furono vendute per la metà del prezzo che avevano costato. Giulio restò per molto tempo del parere di aver avuto ragione lui e concludeva: «Uno di noi due non sa far di conti». La signora Anna non lo guardava perché egli non leggesse nel suo volto chi ella ritenesse non saper far di conti fra lui e suo fratello. Un giorno Nino spiegò che non si potevano tenere peate in un canale soleggiato da mane a sera come quello di Serenella e quando Giulio ne parlò ad amici di Venezia trovò che tutti s’accordavano nel dar ragione a Nino.

Ed il signor Giulio sentiva un certo avvilimento dalla evidente superiorità di Nino. E la signora Anna per consolarlo gli diceva: «Vedi! Questi uomini d’affari son fatti altrimenti di noi. Anche se tu avessi compreso ch’era piú vantaggioso di cessare di usare dei sacchi quale imballaggio, tu non avresti accettate le tue proprie conclusioni perché avresti dovuto cominciare dal gettar su una strada tante poverine». Il signor Giulio non accettava il biasimo neppure in tale forma di lode: «Io sono prima di tutto un uomo di affari» asseriva lui. «Se vedessi che l’interesse della casa esigerebbe la rovina di tutti i suoi addetti io decreterei tale rovina senz’alcuna esitazione.» Non c’era verso di dirgli la verità in alcuna forma. Eppure era saputa da molti in casa. Italia, Bortolo e tanti altri trovavano che Giulio era un buon diavolo ma che aveva avuta una bella fortuna di nascere fratello di Nino e di... Nell’intimo di Giulio doveva esserci anche un sospetto di tale verità perché troppo spesso concludeva i suoi calcoli con l’osservazione: «Già, son cose che devono decidere a Trieste perché loro sanno [p. 281 modifica]quello che vogliono. Io non ho qui i libri». E perciò la presunzione del signor Giulio non danneggiava nessuno. Non il commercio della casa perché egli, non avendo i libri nulla decideva e non la vita di famiglia perché tutti lo amavano e rispettavano come l’uomo che col suo entusiasmo per la Laguna — il grande divertimento che in Serenella assolutamente non mancava — rendeva tutti attenti alla felicità che là si godeva di grande vista e di buona aria. Quand’egli scopriva un colore interessante in Laguna la signora Anna si arrampicava alla finestra per vederlo e poi chiamava Italia ad ammirarlo. La veneziana che nella sua passata vita non aveva avuto occasione di ben comprendere e amare le bellezze naturali della propria patria vi si era tanto assuefatta che ora le insegnava spesso lei al signor Giulio. Cosí fu lei a scoprire che a certe ore in Serenella bastava alzarsi di pochi centimetri per veder cambiarsi lo spettacolo. Occorreva che l’acqua non fosse né bassa né alta; stesse per abbandonare o per invadere la palude. Allora dalla riva bastava montare a un metro di altezza per scoprire i laghetti che si formavano nella palude, limpidi, i contorni capricciosi. Poi il signor Giulio trovò che salvo nelle ore di gran piena a tutte le ore, alzandosi di poco, lo spettacolo mutava. Subito, alzandosi magari sulle punta dei piedi, gli scorci dei canali lontani s’allargavano e ciò non era poco importante in giornate di sole dove ogni striscia di canale equivaleva per luce e colore ad una striscia di cielo.

Con tutto che il signor Giulio vivesse si può dire

Note

  1. Dialetto triestino: acquaio.
  2. Dialetto triestino: granchiolino di mare.