Condizioni politiche e amministrative della Sicilia/Appendice

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17 dicembre 2011 25% Da definire

I porti

Fino dal 1865 scriveva il Possenti essere doloroso confessare come la somma destinata nei bilanci dello Stato allo spurgo dei porti siciliani fosse affatto inadeguata al bisogno largo ed urgente che vi era di siffatti lavori. E fin d'allora suggeriva che ognuno dei porti principali fosse fornito di un buon cavafondo, perchè l'operazione potesse lestamente condursi a termine. La somma destinata a questi espurghi crebbe certamente d'allora in poi; ma la condizione di fatto odierna se n'è poco avvantaggiata; può dirsi peggiorata, se si pon mente allo sviluppo di navigazione che ha reso necessario in molti porti un eguale sviluppo di profondità e di spazio. Catania, Porto Empedocle, Trapani, dove il movimento mercantile si fa ogni giorno maggiore, vedono gl'interrimenti minacciare sempre più i loro porti. A Trapani, per esempio, la Camera di commercio dichiara che i bastimenti superiori a 600 tonnellate non possono più entrare nel porto, e bisogna che le operazioni si facciano alla rada, con perdita di tempo e spese, e rischi maggiori. Il capitano del porto conferma questo fatto, e aggiunge che nei mesi d'inverno i naviganti evitano il porto di Trapani per le disgrazie che vi succedono. E i cavafondi sono tuttora così scarsi che, votata una somma insufficiente di lire 36 mila per espurghi nel porto di Trapani, se ne dovettero spendere 6 mila pel solo trasporto di una di queste macchine dal porto di Girgenti. Non parliamo dei porti minori, di Marsala, di Mazzara, di Cefalù. L'interrimento completo va diventando per quei porti una questione di tempo; eppure a Cefalù si lamenta che molte barche vadano a rompersi sulle coste della Calabria, e che i giovani marinari emigrino in America abbandonando il mare nativo; eppure a Marsala cresce continuamente l'accorrenza del naviglio mercantile, soprattutto per l'esportazione dei vini; eppure a Mazzara la natura ha fatto l'opera per tre quarti, introducendo nell'interno della città un canale marino, atto ad essere espurgato e mantenuto con modica spesa.

Vero è che la legge ha determinato i contributi e le spese secondo la classificazione dei porti; vero è che molti lavori pei porti principali si sono compiuti, che molti sono in corso di esecuzione, che altri, come appunto per Trapani, per Girgenti, per Palermo, furono recentemente prescritti da legge o prossimi ad essere proposti al Parlamento. Vero è infine che non è fievole neanche in Sicilia quell'affannarsi di città e di villaggi attorno alla provvidenza dello Stato, quel lamento dei singoli interessi e dei singoli bisogni, che sognano un'ingiustizia del Governo tutta speciale ad essi, e che affettano di non vedere nell'orizzonte a loro schiuso altri bisogni ed altri interessi, nonchè prevalenti, di eguale diritto ed egualmente obliati. Nè vogliamo obliare noi, ingiusti prima di tutti, per quante e quali difficoltà politiche, parlamentari e finanziarie abbia dovuto passare in questi anni quell'ente Stato, obbligato a soddisfare alle spese di coloro stessi che le invocavano, tante e così grosse esigenze di una vita per tutti nuova. Resta ad ogni modo, sull'argomento dei porti, un criterio comparativo a cui nessuno può negare una certa evidenza; ed è che l'ufficio dei porti in un'isola ha un carattere di maggiore importanza che sulle spiaggie del Continente. Il mare è la via fatale nel primo caso, può essere la via sussidiaria nel secondo. Ciò che per Ancona o per Savona può essere un lusso, aggiunto alle comodità di una triplice comunicazione ferroviaria, diventa una necessità di esistenza per Trapani o per Milazzo, rimaste finora sorde al rumore degli stantuffi di Watt. E ciò spiega come per le città siciliane, il porto sia più che un bisogno, sia una smania; ciò spiega come in ognuno dei piccoli villaggi che sorgono sulle spiaggie marine, la vita dell'oggi e la speranza dell'avvenire si abbranchino ad un molo, ad una banchina, ad un approdo periodico, ad un gavitello d'ormeggio. Il mare è lì, colle sue onde invadenti, colle sue misteriose attrazioni, coi suoi sconfinati orizzonti, colle sue vaghe promesse di economia e di ricchezza. Non parlate a quei trafficanti, a quei pescatori, che lottano dall'infanzia coi suoi mutevoli capricci, dei vostri bilanci, della vostra contabilità, delle competenze passive, della legge sulle opere pubbliche. È un linguaggio che non comprenderebbero, sono argomenti di cui non saprebbero indovinare il nesso coi casi loro. La voce del mare è più grossa di ogni altra, il pericolo da evitare più vicino, l'opera che li può aiutare o che s'immaginano li possa arricchire, non par loro discutibile per ragioni lontane o per interessi lontani. D'altronde, che è lo Stato per quei trafficanti, per quei pescatori che avranno veduto cento volte Tunisi o Malta, ma che non hanno mai visto Genova, forse neanche Messina? Lo Stato è una gran macchina, lontana da loro, lontana dalla Sicilia, che può tutto, che ha sempre denari, che ne distribuisce a chi e come crede; è una macchina di cui erano avvezzi a dir male, quando si chiamava il regno di Napoli, di cui hanno cominciato a dir bene quando si chiamò il regno d'Italia, e di cui tornano a sospettare che possa volgersi a male quando vedono ritardarsi troppo il molo, la banchina, l'approdo, il gavitello. Certo, a siffatti criteri, non esclusivi delle popolazioni siciliane, uno Stato non può cedere, ma deve lottare cogli stromenti della coltura e dell'amministrazione perchè si modifichino. Nemmeno però può ribellarsene affatto, quando questi criteri, divenuti generali e vivaci, traggono una certa giustificazione da condizioni speciali, quali dicemmo essere per le popolazioni isolane le questioni dei porti. Allora, anche l'applicazione della legge può divenire più larga, soprattutto i procedimenti amministrativi debbono spogliarsi perfino dell'apparenza di improvvidi ritardi o di inopportune rigidità. Tanto più debbono spogliarsene, inquantochè la stessa popolarità che circonda in Sicilia ogni lavoro marittimo, rende assai rare le resistenze dei corpi locali ad assumersi le tangenti ordinate dalla legge, e talvolta provoca anche esempi splendidissimi di larghezza. Ne siano prova Catania e Licata, che stanno costruendosi a loro spese dei grandi porti, valutati a più di dodici milioni il primo, a più di sette il secondo. Ne sia prova Trapani, che offriva una somma di 100,000 lire, al di là della sua quota legale, per la costruzione di un bacino di carenaggio. Eppure Trapani non ha potuto ottenere ancora che una somma di lire 35,000, a spese comuni, fosse inscritta nel bilancio del 1876 pei necessari lavori di espurgo; eppure Licata, già prossima alla fine dei lavori suoi, non ha visto mantenersi dallo Stato la corrispondente promessa sua, che pel gennaio 1875 fosse aperta all'esercizio la linea ferroviaria Canicattì-Favarotta-Licata. La legge sulle opere pubbliche del 20 marzo 1865 non è, anche lasciata tal quale, priva di temperamenti da potersi con maggiore larghezza del passato applicare alla Sicilia. L'articolo 187, che contempla il trapasso di un porto da una classe ad un'altra, potrebbe dare modo di soddisfare reclami o lagnanze che avessero veramente il loro fondamento sulle circostanze mutate e sullo sviluppo della navigazione in questo decennio. E l'articolo 198, che regola i sussidi dello Stato pei porti di quarta classe, lascia al Governo una latitudine, della quale un'amministrazione intelligente e benevola può usare, senza abusarne, con effetti così politicamente come economicamente rimuneratori. Alcune volte poi, bastano delle previdenze amministrative di qualche larghezza ad imprimere nelle popolazioni il concetto della cura che il Governo pone al loro benessere. E, per esempio, il passeggiero o il trafficante che da Reggio s'imbarca per Messina si sentirebbe assai più sotto la protezione di un grande Stato se trovasse un vapore di qualche portata, invece di quei piccoli vaporini postali che non sempre paiono atti a sfidare l'agitazione dello stretto; e se, giunto a Messina, come partendone, trovasse assettati quei ponti di sbarcatoio, che ormai non difettano in nessun porto, e senza i quali riesce sempre incomodo, talvolta pericoloso, l'approdo.


Le ferrovie. Fra i principali porti dell'Isola, sei hanno avuto a quest'ora il beneficio di una linea ferroviaria: Palermo, Messina, Catania, Augusta, Siracusa, Girgenti, e due, Trapani e Licata, stanno per ottenerlo. Quando i lavori saranno finiti, certo molte diffidenze si spegneranno, e una corrente più salubre d'idee e di affetti si espanderà per gli animi. Ma finora non vi sono molti disposti a giudicare con grande imparzialità la condotta e gl'intenti del Governo in questa materia delle ferrovie, così facile ad esser presa per vessillo di ogni malcontento, di ogni ostile od onesta impazienza.

Sono vari e complessi i fatti ed i criteri che contribuiscono a creare in Sicilia la situazione ferroviaria odierna; e non si giudica con equità se tutti non si ricordano e se non si attribuisce ad ogni causa l'effetto suo. Innanzitutto, un concetto predominò nell'Isola e fuori, quando si procedette al primo disegno della rete delle ferrovie sicule: fu il concetto di favorire gli zolfi. S'era nel colmo degli aumenti di prezzo che a questa derrata aveva cagionato la malattia delle viti. La mancanza di ogni altro movimento commerciale o industriale aveva concentrato sugli zolfi i desiderii e le speranze di tutti gli uomini d'affari in Sicilia; fuori ne seguirono l'impulso. Certo è che quasi ogni altro intento della viabilità ferroviaria fu sacrificato al proposito di aprire più numerose e più larghe ai filoni del metalloide le vie del mare. E così fu spinta senz'altro verso Lercara la prima linea che si staccò da Palermo; così fu obliata la provincia di Trapani, e furono obliate, tranne i capoluoghi, le provincie di Messina, di Siracusa, che zolfi non producevano; così fu necessario cercarsi da Lercara un passaggio per le dirupate sponde del Platani verso Girgenti e tentare l'unione col bacino solfifero di Caltanissetta traverso le mobili e fangose arene di Montedoro. Nè a tutt'oggi sono ancora cessate le illusioni che gli zolfi producono sulle menti; che anzi sta in cima a qualunque progetto di linee nuove, o di allargamento di porti, l'intento di deviare dai suoi sbocchi naturali i prodotti delle solfare e costringerlo, con artificiali e costose combinazioni di viabilità, ad imboccare altre zone e ledere, se è possibile, i diritti della geografia. Ed illusione è quella di Palermo, se crede che con qualunque accorciamento di linea possa disputare a Girgenti ed a Licata gli zolfi dei bacini centrali; illusione è quella di Siracusa, se crede che la ferrovia Siracusa-Licata potrà condurre al suo magnifico porto gli zolfi dei bacini del Salso; illusione è quella di Messina, se crede che, girando l'Etna, mediante la ferrovia nella valle del Cantara, possa attingere alle sorgenti minerarie gli zolfi di Leonforte e di Castrogiovanni e stornarli dal porto di Catania a cui sono destinati. La rete ferroviaria di un paese si tesse male, quando si ubbidisce ad una sola preoccupazione, e si vogliono forzare per essa le condizioni naturali. I guai, dissimulati da prima, si fanno strada più tardi, ma i tracciati difficilmente si possono correggere, e aumentano così gl'impacci per l'avvenire. Sventuratamente non fu questa la sola cagione che influì male sull'originario disegno delle ferrovie siciliane. Le vicende per cui passò la concessione di quelle ferrovie, le pressure parlamentari che sembravano esigere il presto anche a disagio del bene, la facoltà lasciata alle compagnie assuntrici di proporre progetti e variazioni che quasi tutte avevano per iscopo la convenienza dei costruttori, anzichè la migliore direzione della linea, contribuirono a rendere vizioso ed incompleto il primo tracciato. E dovette essere per ragioni di questa natura che la linea da Catania a Leonforte fu lanciata per intero traverso ai facili, ma deserti terreni della piana di Catania, lasciando fuori di comunicazione tutti i paesi collocati alla destra, e non toccando neanche alla sinistra Palagonia e Rammacca, come era stato desiderio della Commissione parlamentare del 1863. Così fu strano e ingiusto che la linea litoranea orientale si fermasse al porto di Siracusa, senza spingersi almeno fino a Noto, che pur era in quel tempo il capoluogo della provincia, e il cui territorio, ricco di produzioni, avrebbe potuto recare un po' di alimento all'arido tronco Siracusa-Catania. Forse, quando cause così molteplici non avessero contribuito alla redazione del primitivo disegno, una rete più ampia e più razionale avrebbe potuto costruirsi, salve le ragioni del tecnicismo, e con maggiore riguardo alle zone più popolate. Forse la congiunzione di Palermo con Girgenti si sarebbe condotta per la linea interna più produttiva di Misilmeri, Corleone e Bivona, con una diramazione verso Sciacca; la congiunzione con Catania avrebbe seguita per Termini e Caltavuturo la linea che oggi chiamasi delle due Imere, e, giunta a Leonforte, avrebbe seminate le sue stazioni lungo quella schiera di grosse e fiorenti città che da Agira a Misterbianco adornano il potente fianco dell'Etna. E allora Caltanissetta, unita per Castrogiovanni alla linea PalermoCatania, avrebbe potuto diventare il centro di tre altre diramazioni, una per Girgenti, una per Licata, ed una per Piazza e Caltagirone, sopra Catania o sopra Siracusa, toccando Modica e Noto. I tronchi secondari poi, da Palermo a Trapani per Alcamo e Castellammare, da Corleone per Partanna e Castelvetrano a Mazzara ed a Marsala, da Adernò per Bronte e Randazzo a Taormina, da Messina pel Faro e Barcellona a Patti, e forse da Leonforte per Nicosia e Mistretta a Cefalù, avrebbero, coi sussidi provinciali e comunali, completata la viabilità ferroviaria dell'Isola in modo da non lasciare nessun onesto appiglio al più piccolo lagno. Si sarebbero sfondate tutte le vene interne della produzione agraria, senza trascurare gli zolfi; i quali poi, se qualche bacino speciale, come Lercara o Casteltermini, fosse rimasto senza una linea principale, vi si potevano allacciare mediante qualcuna di quelle ferrovie economiche, così agili e così utili a un tempo per gli usi e pei paesi industriali. Ad ogni modo, adottato come che sia un piano generale, sarebbe stato desiderio vivo dell'Isola che alla sua esecuzione si fosse posta molta sollecitudine. Ma questa mancò. Mancò, in parte per le ragioni stesse per cui rimase imperfetta la rete, in parte per altre ragioni che verremo esponendo. Innanzi tutto è mestieri attribuire agli elementi costitutivi del suolo siciliano la sua grossa porzione di responsabilità. Gli ostacoli che quei terreni franosi e scivolanti sui loro strati di creta oppongono all'opera dei tecnici, sono veramente gravi e continui. Le gallerie si sfasciano, i ponti crollano, i più robusti pilastri, sprofondati a più decine di metri, si piegano e si rovesciano sui lati, invasi da quelle montagne di melma che con lento ma irresistibile lavorìo scalzano e sollevano tutte le fondamenta delle opere d'arte. Un piccolo seno di monte, il passaggio di un torrentello, una frana della estensione di alcuni metri esigono lavori preliminari, rassodamenti di terreni, sistemi complicati di acquedotti e di muraglioni, quali non occorrono sul Continente per grossi fiumi o per larghe vallate. Aperta una volta col piccone la terra, le frane aumentano e le acque filtrano da ogni lato, inutili all'agricoltura, esiziali alle strade. Questa condizione geologica non può non essere di grande ostacolo e di grande ritardo alla costruzione delle ferrovie, dove così rigoroso essere deve lo scrupolo dell'esattezza e della solidità dei lavori. Rifare la stessa cosa due volte, impiegare ad una data opera il doppio del tempo che avrebbe potuto calcolarsi, dovettero essere gli incidenti ordinari di simili costruzioni. Fu preveduta la situazione dagli ingegneri del Governo? E una volta scopertasi, fu pari lo zelo alla difficoltà, pari l'attività all'ostacolo? L'opinione siciliana è molto propensa a non riconoscere negli ingegneri che studiarono e diressero le ferrovie questa eccellenza di qualità. A Palermo, a Girgenti ci dissero che gli ingegneri locali avevano avvertita questa speciale condizione delle terre siciliane; ci dissero altresì che questi avvertimenti non erano stati considerati, che i progetti di ferrovia erano stati redatti senza alcuna conoscenza delle località a cui si applicavano. Che qualcosa di vero in questa opinione vi sia, lo proverebbe una certa mutabilità di progetti, che in condizioni ordinarie non si saprebbe nè spiegare, nè approvare. La importante galleria, per esempio, che chiamano della "Misericordia" e che traversa una collina tra Calascibetta e Castrogiovanni, fu in origine progettata della lunghezza di quattro chilometri da un ingegnere governativo, il comm. Marzano. Affidati i lavori alla società Vittorio Emanuele, un secondo progetto ridusse questa galleria a 2200 metri. Subentrata nella concessione la ditta Charles e Vitali, la lunghezza della galleria fu ancora ridotta a 1500 metri. Finalmente il Governo, quando rientrò nel sistema delle costruzioni dirette, fece allestire un altro progetto che abbreviava quel traforo fino a metri 1126. Ed ora che l'opera è compiuta misura esattamente una lunghezza di metri 1424,13. Così intorno a Lercara le variazioni della linea furono parecchie, e le difficoltà del tracciato non sembrano essere state considerate con i dovuti criteri. Da Girgenti a Porto Empedocle si costruisce una linea per esclusivo servizio degli zolfi, ma, appena costruita, si comprende che difficilmente potrà servire all'uopo, vista la precarietà dell'esercizio ed i continui pericoli di franamento e la mancanza di materiale opportuno. Si aggiunge che i lavori del porto, approvati alcuni anni or sono e condotti innanzi con molta spesa, si sono ora verificati, dietro un'ispezione dell'egregio ingegnere Mati, affatto contrari allo scopo di sicurezza, e si devono rifare su disegni completamente diversi. E finalmente si notano, come sconci gravissimi in linea tecnica, le forti pendenze tollerate in moltissimi tronchi; pendenze del 20, del 26, del 30, fino del 33 per 1000; pendenze insomma superiori a quelle che si permettono tecnicamente nei grandi passaggi delle Alpi; e ciò, malgrado che i dati forniti ad una Commissione governativa che esaminava nel 1863 il contratto Lafitte sembrassero assicurare una media pendenza superiore in pochi casi al 10 per 1000. La Giunta, in base a questi fatti, non può dunque escludere che qualche ragione abbia l'opinione pubblica siciliana nell'addossare al personale tecnico governativo parte della responsabilità pel cattivo tracciato delle ferrovie e per la lentezza della sua costruzione. E fra gli stessi attuali capi del servizio tecnico non si tacque il fatto che linee più facili e più sicure avrebbero potuto in qualche caso costruirsi; non si tacque il dubbio che le strade sicule siano state studiate piuttosto sul tavolo che sul luogo, e che la condizione di quei terreni sia stata considerata assai meno difficile del vero.

Negli ultimi anni però l'azione del Governo si è venuta precisando d'assai, e svincolati ormai da ogni legame di diritto con quelle infauste società costruttrici che in Sicilia pur troppo si seguirono e si rassomigliarono, i tecnici governativi secondarono in questi ultimi tempi l'impulso ministeriale con una operosità feconda, di cui sarebbe ingiustizia non tener conto. Infatti, mentre nel 1871 gli operai occupati nelle ferrovie salivano ad una media giornaliera di 2416, nel 1872 questa media salì a 6942. Scemato un po' il bisogno, per l'apertura all'esercizio di molti tronchi, la media giornaliera si trovò nel 1874 di 5540, ma risalì nel 1875 a 6273. Così accadde che, mentre la rete originaria del primo periodo, affidata alle società concessionarie per una lunghezza di 329 chilometri, esigette dieci anni di tempo per la sua costruzione, vale a dire una media di 33 chilometri all'anno, la rete del secondo periodo, votata colla legge 28 agosto 1870 e costruita direttamente dallo Stato per una lunghezza di 221 chilometri, fu incominciata nel settembre 1872, e al 1° maggio scorso contava già aperti all'esercizio 140 chilometri, vale a dire una media di 40 chilometri all'anno, malgrado le difficoltà di tanto maggiori che queste linee presentano in confronto delle prime. Dell'intiera rete sicula, composta di 550 chilometri, sono dunque attualmente in esercizio 469 chilometri; rimangono a completarsi sulla linea LeonforteLicata un tronco fra Santa Caterina e Caltanissetta di chilometri 8 e il tronco fra Campobello e Licata di chilometri 29; sulla linea Palermo-Girgenti il solo tronco fra Spina e Passofonduto di chilometri 14; e finalmente la trasversale fra le due linee, che da Serradifalco dovrebbe giungere a Campofranco, per una lunghezza di chilometri 29.


Caldare e Montedoro.

Qui veramente il ritardo cessa di trovarsi imputabile all'opera del Governo, che ha fatto e va facendo ogni sforzo perchè una comunicazione diretta fra Palermo e Catania si stabilisca. Ma è noto il lungo ed aspro dibattimento che intorno a questa linea di congiunzione insorse fra gli interessi locali. Per due anni discussero le provincie e le Camere di commercio dell'Isola se a raggiungere Campofranco si dovesse procedere direttamente da Serradifalco per Montedoro o scendere a Canicattì e di là staccare un tronco fino al quadrivio delle Caldare, alcuni chilometri al disotto di Campofranco. Palermo e Caltanissetta propugnarono accanitamente la linea di Montedoro; Girgenti, Siracusa, Catania, Messina appoggiarono la linea delle Caldare. Il Governo stette un pezzo neutrale; i suoi tecnici però non dissimulavano che le difficoltà di costruzione lungo la linea di Montedoro si mostravano assai maggiori. Finalmente, cedendo forse al desiderio di fare cosa grata alla città di Palermo, piuttosto che ad una decisa convinzione sulla opportunità tecnica di quella linea, udito il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Governo si decise per la linea di Montedoro e stipulava con l'appaltatore Parisi il contratto d'appalto per la somma di lire 6,874,000. Senonchè, appena posta mano ai lavori, crebbero le difficoltà, e ricominciarono le esitazioni. Per secondare le raccomandazioni tecniche unite al voto del Consiglio superiore dei lavori pubblici, furono studiati i progetti e proposte deviazioni tali che sopra 29 chilometri della lunghezza totale del tronco, soltanto tre chilometri e mezzo rimanevano invariati secondo il primitivo progetto. Dopo ciò bastò una cattiva invernata, perchè il movimento dei terreni rendesse necessarie nuove varianti anche al secondo progetto; e queste varianti si esercitarono sopra una lunghezza complessiva di oltre 13 chilometri. Malgrado ciò, l'enorme franosità dei terreni, l'insalubrità della regione, la scarsezza dei materiali, le difficoltà dei trasporti hanno potuto far dire ad un chiaro ingegnere essere quella località la negazione stessa della viabilità. E la Commissione, composta dei signori Siben e Imperatori, che con espresso mandato visitò quella linea nell'estate del 1875 fece un rapporto assai scoraggiante sulle sue condizioni di costruzione e di esercizio. In una tabella annessa alla relazione del bilancio definitivo del Ministero dei lavori pubblici pel 1876 è accennato che le ultime constatazioni ufficiali farebbero ascendere il costo della linea di Montedoro a lire 10,000,000 più del prezzo d'appalto. Queste varianti e queste visite impedirono naturalmente i lavori; tantochè in questi due anni, in cui fu dato così forte impulso a tutta la costruzione ferroviaria dell'Isola, appena poche centinaia di migliaia di lire furono spese sulla linea appaltata al Parisi. L'opinione pubblica si preoccupò di questa situazione e cominciò a discutersi una soluzione diversa. Gl'interessi favorevoli alla linea delle Caldare ripigliarono forza; nella stessa Palermo gli uomini d'affari e le personalità più distinte rammollirono le loro resistenze; si ammise che, se le difficoltà tecniche avessero resa mal sicura la strada di Montedoro, era necessario trovare in qualche modo una congiunzione fra le due ferrovie, pur scendendo sino alle Caldare; purchè un'altra via più diretta fra Palermo e Catania si ponesse allo studio, quella per esempio, delle due Imere, che accorcierebbe di 75 chilometri la comunicazione fra le due grandi città. La questione trovasi attualmente a tal punto, ed è grave per gli interessi molti e complicati che vi si annodano. Essa comprende principalmente tre aspetti: l'aspetto commerciale, l'aspetto tecnico finanziario, l'aspetto politico. Sotto il primo aspetto, la Giunta non può non dare alla linea delle Caldare la preferenza su quella di Montedoro. Mentre questa traversa una landa incolta, dove il piccolo comune di Montedoro è quasi il solo centro di popolazione, in tutto meno di 5 mila abitanti, la linea delle Caldare passerebbe a poca distanza dalle grosse e ricche borgate di Racalmuto, Grotte, Comitini, Aragona, che sarebbero messe in comunicazione diretta con entrambi i due porti di Licata e PortoEmpedocle. Come importanza solfifera, l'ingegnere Parodi, competentissimo nella materia, considera il bacino delle Caldare come produttore di 200 mila quintali di zolfo, quello di Montedoro di soli 30 mila, che recenti calcoli porterebbero anche fino a 50 mila. Il paragone quindi non regge. Finalmente una ricchezza ancora vergine troverebbe nella ferrovia delle Caldare il modo di manifestarsi: e sarebbero le miniere di salgemma che abbondano a Racalmuto, e che ora, pel prezzo dei trasporti, non possono offrire all'industria bastevole allettamento. Queste saline sono giudicate di tale importanza che il compianto generale Bixio, seguendo il consiglio dello stesso Parodi, aveva divisato farne la sua zavorra pei carichi di ritorno nell'India; e mentre ad esse darebbe valore mercantile la ferrovia delle Caldare, non potrebbe darne quella di Montedoro alle minori saline di Mussomeli, ancor troppo lontane dalla linea per potersene giovare. Sotto l'aspetto politico il tracciato più favorevole è quello che più rapidamente si compie. È già vivo ed aspro il malcontento destato da questo fatto, che dopo 16 anni Palermo non si trovi ancora in diretta comunicazione ferroviaria colle città orientali dell'Isola. Riesce difficile a molti l'indagare con animo scevro di passione le cause di siffatto ritardo, ed uomini eletti per intelligenza e patriottismo non sempre sanno difendersi contro ingiuste impressioni. Prolungando ancora di troppo l'epoca di questo congiungimento, possono soffrirne alcuni interessi commerciali di Palermo, ma ne soffrirà assai più lo spirito pubblico e l'indirizzo politico di quella illustre città. Palermo ha bisogno di rompere l'incanto che la tiene segregata e sovrana al di là del Platani e delle Madonie. La via del mare non le basta; bisogna che per le vie di terra, e le più rapide che si possa, si senta allacciata d'interessi, di affetti, di idee, al resto della Sicilia, al resto d'Italia, a Roma.

Dopo ciò la Giunta non crede poter discutere il terzo aspetto della questione, l'aspetto tecnico finanziario. Le mancano troppi dati, troppa competenza per pronunciarsi. Se un nuovo esame della linea delle Caldare dimostrerà che tecnicamente come finanziariamente le sue condizioni siano quali si erano dette fin qui, vale a dire un tracciato da potersi eseguire in due anni e con cinque o sei milioni di spesa, nessuna esitazione a scegliere questa linea sarà scusabile più. Se invece le delusioni tecniche si ripeteranno anche per le Caldare e si proverà che le cifre del tempo e della spesa debbano salire a livello di quelle della linea per Montedoro, il Governo sarà giustificato se persiste in questo tracciato, dal momento che non sarà nè più lungo, nè più difficile, nè più dispendioso di un altro.


Le linee future. Quanto ad altre linee da costruirsi o da studiarsi in Sicilia, è evidente che non può impegnarsi fin da ora tutto l'avvenire, come è evidente altresì che l'attuale rete ferroviaria non basta. Se Palermo avrà la sua seconda comunicazione colla Sicilia orientale mediante le due Imere, o verso Messina mediante il litorale marittimo, qualora la costruzione del tronco Eboli-Reggio rendesse quest'ultima linea il complemento naturale della grande longitudinale tirrena, non è facile sia deciso fin d'ora. Certo, costruita la linea per le Caldare, questa seconda comunicazione diventa una questione di tempo, subordinata soltanto ad opportunità di finanza. Nè può mettersi in dubbio che i precedenti legislativi e le necessità di commercio rendano desiderata l'esecuzione anche della linea complementare del mezzogiorno, che pure per sole opportunità di finanza potrà essere suddivisa in tronchi successivi; da Siracusa a Noto, da Noto a Modica, da Modica a Vittoria o a Licata. Le linee Messina-Patti, Termini-Cefalù, Caltagirone-Catania, per cui le rappresentanze locali hanno votato sussidi, si presentano pure con qualche diritto di preferenza; e più lontane di speranza e di attuazione, cominciano a disegnarsi le linee Giardini-Randazzo, MazzaraGirgenti, Trapani-Castellammare. Che questi desiderii e questi progetti di nuove ferrovie debbano tutti coordinarsi colle necessità dello Stato, non è chi non veda. L'orizzonte ferroviario si suole abbracciare tutto di un guardo; ma lenti poi e lunghi scorrono gli anni necessari per attraversarlo. Illusioni ed utopie sulle conseguenze di un allacciamento ferroviario non mancano neanche in Sicilia; però non devesi dimenticare che il reddito chilometrico delle reti sicule, previsto nel 1863 di lire 10,000 o 12,000 al massimo, è già arrivato a circa 11,000, malgrado che la mancanza di congiunzione tra i due versanti, le sospensioni frequenti di esercizio e i trasbordi fra le linee interrotte rendano il movimento di scambi enormemente fiacco e inceppato. Forse un sistema favorevole alla costruzione delle linee secondarie nella viabilità siciliana sarebbe quello delle ferrovie economiche, suggerito dall'esperienza di altri paesi, e suffragato dall'opinione di persone competenti. Giacchè il fenomeno che in Sicilia atterrisce le buone volontà, è la grande differenza che, per le condizioni sopra descritte, presenta ivi il costo chilometrico delle ferrovie in confronto delle cifre ordinarie. E questo fenomeno sarebbe in gran parte scongiurato dalle ferrovie a binario ristretto, che per la loro agilità nelle curve e pel minor peso del materiale possono più facilmente superare le difficoltà dei terreni. Il Governo avrebbe anche un altro modo di cautelarsi contro le eccessive esigenze che in fatto di ferrovie potessero assalirlo. E sarebbe di vincolare la concessione delle nuove linee alla esecuzione preventiva delle strade rotabili che per legge spettassero alle provincie. Non parliamo di quelle spettanti ai Comuni, perchè la condizione sarebbe troppo dura, e potrebbe sembrare una ripulsa palliata. Ma l'adempimento degli obblighi di legge per parte delle provincie è una condizione che lo Stato può lealmente esigere come preliminare, e sarebbe utile impulso a doppio beneficio per le popolazioni.

Così la norma direttiva del Governo in questo argomento delle ferrovie potrebbe essere questa: classificare, secondo la varia importanza politica ed economica, le nuove linee; considerare quali fra esse abbiano a loro favore validi antecedenti; promuovere, secondo le risultanze combinate di queste indagini, quelle linee di diritto prevalente che fin d'ora contassero inoltre a proprio vantaggio il concorso più efficace dei corpi morali interessati; ben inteso che le nuove costruzioni ferroviarie non dovrebbero incominciarsi che dove fosse compiuta o resa idonea all'allacciamento arteriale della ferrovia, la rete delle strade rotabili assegnate dalle vigenti leggi allo Stato e alle provincie. Un'ultima osservazione su questa importante materia. Forse non ha giovato al prospero e rapido andamento dei lavori ferroviari nell'Isola, una soverchia concentrazione di attribuzioni tecniche presso i poteri centrali. Le approvazioni richieste e date da questi poteri ai vari progetti, le dilucidazioni chieste e raccolte, le molte ispezioni succedutesi con grande sacrificio di tempo, si è visto che non hanno impedito nè una continua mutazione di questi progetti, nè una libertà esecutiva delle società concessionarie che tornò di grave danno allo Stato. Forse un ufficio locale, composto di personale giovane, intelligente ed energico, fornito di responsabilità e di facoltà speciali per l'esecuzione dei lavori ferroviari, avrebbe potuto provvedere più sollecitamente alle varie difficoltà, ed esercitare sulle società costruttrici un'azione ed una vigilanza che certo mancò. Di siffatti organismi per lavori complessi e speciali non mancano esempi nell'amministrazione italiana; e il Governo potrà vedere se non sia tuttora conveniente di adottare pei lavori ancora da compiersi un provvedimento discentratore di tale natura, come anche lo consigliano uomini tecnici di alta e incontrastata autorità.

Finalmente si lagna non senza ragione il ceto commerciale dell'Isola per l'insufficienza e la precarietà primordiale delle stazioni ferroviarie. Invero, nè Palermo, nè Catania, per esempio, possiedono una stazione conforme all'importanza del centro commerciale ed alla dignità del paese dove son poste. E, specialmente lungo le linee di Palermo-Girgenti e Catania-Leonforte son troppe le stazioni, quantunque provvisorie, dove non solo le persone hanno sconvenienti ricoveri, ma le merci, gli zolfi, i grani, i sommacchi, debbono accatastarsi nei sacchi a cielo aperto, subendo i danni e le diminuzioni di volume o di valore che le intemperie e l'insicurezza sovente arrecano. Una sollecita trasformazione delle stazioni provvisorie in stazioni definitive e un aumento del materiale mobile atto a servire convenientemente il movimento delle derrate non può non essere considerato dalla Giunta come un mezzo di rendere più animati gli scambi e più nudrito il reddito chilometrico.


Le strade ordinarie.

Quanto abbiamo detto a proposito delle ferrovie, servirà ad abbreviarci il cómpito riguardo alle strade rotabili, per cui ricompaiono in molta parte le stesse argomentazioni, gli stessi bisogni, più numerosi lamenti.

Vi è, per esempio, nell'Isola una città, a cui la Giunta avrebbe voluto pure condursi, ma che ci si affacciò da ogni lato inaccessibile, senza pericolo di trovarvisi poi per parecchi giorni rinchiusi. Sciacca, a cui d'inverno il mare impedisce frequentemente l'approdo, che i torrenti privi di ponti chiudono da dritta e da sinistra alle vetture, si trova ancora, dopo 16 anni di Governo liberale, non congiunta da via praticabile nè al capoluogo della sua provincia, Girgenti, nè ai capoluoghi di circondario coi quali confina, Mazzara e Bivona. Lo Stato non ha certo che una colpa indiretta in questa sgraziata condizione di cose, giacchè le linee stradali che circondano Sciacca, furono classificate come provinciali, e soltanto dopo la recente legge del 30 maggio 1875 lo Stato vi prese ingerenza. Ma che rispondere agli uomini estranei ai pubblici negozi quando vi chiedono se sia regolare o tutrice degl'interessi generali una legislazione che in 16 anni non trova modo di ottenere da cui spetta l'adempimento di uno dei più indispensabili scopi della vita civile? In verità alla domanda la risposta è ardua; giacchè tutti i criteri che si possono addurre a giustificazione delle varie necessità amministrative e delle varie autonomie che debbono coordinarsi ed armonizzare colle funzioni di uno Stato libero, si rompono contro il fatto brutale, contro l'isolamento di un grosso paese, contro un così lungo diniego di viabilità.

Il caso di Sciacca è però eccezionale fra i grossi Comuni della Sicilia; ma non pochi ancora dei Comuni minori si trovano in condizioni così meschine di viabilità, da dovere indurre la pubblica amministrazione a riesaminare seriamente il problema. Non è neanche a dire che sia stato in questi anni meschino l'impulso dato alle costruzioni stradali. Se esaminiamo le cifre, queste non ci rispondono sfavorevolmente. Infatti, secondo i dati raccolti dal Possenti, a tutto il 30 marzo 1862, erano privi di strade 244 Comuni, compresi 4 capoluoghi di circondario; e lo sviluppo della viabilità ragguagliavasi a metri 84,50 per chilometro quadrato, e metri 0,914 per abitante. Oggi, vale a dire al 31 dicembre 1875, i Comuni privi di strade sono ridotti a 102; e la viabilità si ragguaglia a metri 139 per chilometro quadrato e metri 1576 per abitante. Vediamo a chi, e in quale proporzione, si devono questi progressi.


Strade nazionali.

Lo Stato innanzitutto, colle due leggi del 30 marzo 1862 e 25 giugno 1866, si era assunta la costruzione di chilometri 605 di strade nazionali, e 105 ponti sulle strade provinciali dell'Isola. Al 31 agosto 1875, si erano costruiti chilometri 458,229, stavano in costruzione chilometri 134,894, non erano ancora appaltati chilometri 12,041; di ponti se ne erano costrutti n° 52; erano in costruzione n° 9; 44 non erano ancora appaltati. Se dunque la legge del 1866, che prescriveva il termine di 10 anni per l'esecuzione di queste opere, non può dirsi totalmente rispettata, è chiaro che la buona volontà non fece difetto, se si vuole tenere conto delle difficoltà tecniche già menzionate a proposito delle ferrovie e delle strettezze di bilancio fra cui si è sempre trovato in questi anni l'erario pubblico.

Nè il legislatore può dirsi avere mancato agli obblighi suoi; giacchè colla legge 30 maggio 1875 decretò larghi concorsi per sette grandi strade provinciali, e col progetto di legge ultimamente discusso nei due rami del Parlamento, ed approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 22 giugno, e dal Senato nella tornata del 1° luglio di quest'anno, completò, mediante un altro assegno in bilancio, la somma necessaria a saldare le eccedenze di spesa, e a compiere le costruzioni.


Strade provinciali.

Le provincie non furono pure restìe a grandi sacrifici per la pubblica viabilità; soltanto questi sacrifizi non sempre furono opportunamente fatti e in qualche caso non servirono che a rendere più difficile il problema stradale. Questo avvenne soprattutto a Girgenti e a Caltanissetta. La provincia di Girgenti, quella appunto che non provvide finora a nessuna comunicazione coi suoi due capoluoghi di circondario, Sciacca e Bivona, contrasse fino dal 1865 prestiti onerosissimi per otto milioni; decretò di costruire con questo fondo tutte le strade comunali della provincia; largheggiò in progetti male redatti da uomini imperiti o mossi da considerazioni di piccoli interessi locali; spese fino a 500 mila lire per soli 7 chilometri di una strada comunale; seminò tronchi di strada senza concetti direttivi e senza ordine amministrativo; e si trova ora con un debito ingente, colle strade provinciali non fatte, colle strade comunali interrotte o male costrutte; col malcontento seminato in ogni ordine di cittadini per questa specie di anarchia stradale; e non senza aver lasciato qua e là il sospetto che in questa anarchia qualcuno abbia avuto il proprio tornaconto, o per lo meno che qualche amministratore della provincia abbia pensato esclusivamente ed egoisticamente agli interessi del singolo Comune dove tiene beni e dimora.

A Caltanissetta pure l'amministrazione provinciale diresse la materia stradale in modo da lasciare aperto l'adito a gravi censure. Lì i partiti si combattono con vigore e sono tenaci ad escludersi. Dopo il 1867 il partito che predominava nel Consiglio provinciale fece decretare una larga rete stradale, comprendendovi, come a Girgenti, molti tronchi di puro interesse comunale. E si contrassero, come a Girgenti, prestiti per la somma di circa 5 milioni. Indi a poco, scavalcato quel partito, e introdottisi nel Consiglio molti amministratori nuovi, prevalse il sistema di affidare in appalto ai Comuni l'esecuzione della rete provinciale. Si appaltavano i tronchi per L. 23,000 al chilometro, i Comuni li riappaltavano per L. 8000 o 9000 e lucravano la differenza. Una grande rilasciatezza nella sorveglianza tecnica fu la conseguenza necessaria di questo sistema; si costrussero ponti, che naturalmente rovinarono, col ginese delle zolfare a guisa di mattoni o di pietre; gli ingegneri che redigevano progetti furono anche chiamati talvolta a collaudarne l'esecuzione; onde i sospetti facilmente attecchirono, e non mancarono deposizioni che attribuirono una parte dei lucri guadagnati sugli appalti comunali agli stessi consiglieri provinciali che di quel sistema erano stati iniziatori e propugnatori.

Nella provincia di Messina le cose andarono diversamente, ma egualmente non bene. L'amministrazione provinciale non sembra, a parere di qualcuno anche fra i suoi componenti, avere un eguale interesse per tutte le parti del territorio da essa vigilato. Però, una rete stradale fu decretata; ma la provincia inciampò in appaltatori insufficienti; con uno di questi, a cui si vuole attribuire qualche influenza presso la prefettura di Messina, pendono già da assai tempo trattative e contestazioni; il risultato fu che appena alcuni chilometri poterono costruirsi di tutta la rete provinciale. La configurazione territoriale di questa provincia è sfavorevole per ciò che un'aspra catena di monti la taglia longitudinalmente per mezzo, e rende quindi assai difficili e costose le comunicazioni fra i due versanti. È inoltre in questa provincia soprattutto che i corsi d'acqua frequentissimi e scorrenti sopra larghissimi letti esigono tal numero di ponti monumentali da soverchiare le forze di ogni provinciale bilancio. Le fiumane della Calabria si ripetono qui cogli stessi caratteri come si riproduce coll'identico tipo l'aspetto delle montagne. E in entrambe le regioni la necessità di provvedere al rimboscamento dei terreni dirupati e all'arginatura di certi fiumi è vivamente sentita, pei danni gravi che una mancanza e l'altra producono agl'interessi locali. A queste difficoltà e a queste deficienze venne però in soccorso lo Stato. Il quale si addossò la costruzione di 85 ponti in questa sola provincia; comprese fra le strade nazionali due traversate montane, quella da San Stefano per Mistretta a Nicosia e quella da Milazzo per Novara a Randazzo; e coll'ultima legge del 1875 si addossò pure la costruzione di due altre grandi strade provinciali, quella da Sant'Agata a Randazzo e quella da Capo Orlando a Bronte. Rimarrebbe una quinta traversata che interessa giustamente la città di Castroreale, non congiunta da strada rotabile con quella parte del suo circondario che rimane al di là della catena. Ma è sperabile che, appena svincolata dalle pastoie legali in cui ora si dibatte coi suoi appaltatori, la provincia pensi a soddisfare questo debito che essa ha veramente verso una parte importante del suo territorio. Quanto alle provincie di Trapani e di Palermo, la loro azione e stata più regolare e più efficace. Palermo ha una rete di chilometri 420 in esercizio, ne ha in costruzione chilometri 49 e sta preparando i provvedimenti per la costruzione di altri chilometri 158. Trapani va compiendo il suo sistema di strade provinciali, cominciate già sotto il precedente Governo, e ha trovato un poderoso aiuto nella legge del 1875 che affidò allo Stato il compimento della lunga e importante linea da Trapani, per Castelvetrano e Sciacca, a Porto Empedocle.

Di Catania e Siracusa non si può dire che bene; dell'ultima soprattutto, la cui rete stradale fu iniziata e ormai compiuta con grande e intelligente coraggio; sicchè può dirsi che la sua viabilità ha poco da invidiare a quella delle meglio servite fra le provincie continentali. Anche nelle provincie di Catania e Siracusa prevalse originariamente il concetto, come a Caltanissetta e a Girgenti, di costruire a spese del bilancio provinciale la rete intercomunale. Era un effetto dell'anteriore legislazione stradale; che, prelevando ogni anno, dal 1843 in poi, una somma di ducati 300,000 (L. 1,275,000) sui bilanci comunali per la costruzione delle strade provinciali, aveva attribuito una specie di diritto ai Comuni stessi, di rivalersi poi sui bilanci provinciali per la continuazione di quella viabilità a cui essi avevano per tanto tempo provveduto del proprio. Fu dopo il 1865 che, dovendosi attuare le classificazioni stradali, quel concetto cominciò ad urtare contro la legge. E d'allora sorsero quelle contestazioni e quelle confusioni, di cui parlammo a proposito di Girgenti e Caltanissetta; perchè molti Comuni non volevano accettare il carico del compimento e della manutenzione di tronchi interrotti e che male servivano alle loro comunicazioni; molti altri si videro ad un tratto possessori di magnifiche reti comunali costruite senza loro spesa e fatica. Si aggiunge che, dopo la legge sulle strade obbligatorie del 1868, sorsero altre contestazioni col Governo, pretendendo le provincie di farsi rimborsare dallo Stato, pei lavori anteriormente compiuti, la quota che per le strade comunali obbligatorie si assumeva l'erario pubblico. Di lì uno stato d'incertezza che rese lunga e complicata l'esecuzione della legge, tantochè, per esempio, nella provincia di Catania soltanto al principio del 1875 passarono ai bilanci comunali le strade fatte costruire anteriormente dalla provincia. Ad ogni modo, ciò che a Girgenti e a Caltanissetta compromise così gravemente le finanze provinciali ad un punto e la pubblica viabilità, a Catania e a Siracusa, per una migliore e più cauta direzione degli affari, non nocque; anzi, è giustizia ripeterlo, a Siracusa la rete è bene compiuta e bene mantenuta, a Catania, quantunque meno bene mantenuta, soltanto 34 o 35 chilometri, attualmente in costruzione, occorrono a compierla. Nel complesso, dal 31 marzo 1862 al 30 giugno 1875, della rete provinciale si sono costruiti chilometri 593,956, sono in corso di esecuzione chilometri 304,302, restano a costruirsi chilometri 714,052.


Strade comunali obbligatorie.

Le note dolenti, quanto a viabilità, si fanno più numerose allorchè dallo Stato e dalle provincie si scende ai Comuni. E l'esaminare la viabilità comunale, vuol dire esaminare l'unico stromento che su quella agisca, la legge 30 agosto 1868 sulle strade obbligatorie. Quella legge, frutto precipuo degli studi della Commissione parlamentare d'inchiesta del 1867, ha pur troppo avuto in Sicilia un'applicazione assai meno efficace che non fosse nell'intendimento degli autori della legge e nel giusto concetto che la ispirò. Tutte le deposizioni si lagnano di questo fatto, quantunque non tutte lo attribuiscano alle stesse cagioni. Che la resistenza all'attuazione pratica di quella legge, teoricamente accolta con plauso, sia stata viva da parte delle amministrazioni comunali, non si può dubitare. Il prefetto di Palermo dice che la legge si eseguisce nei preliminari di ufficio, ma che arrivando allo stadio delle costruzioni si trovano ostacoli grossi nella condizione finanziaria dei Comuni e nella poca esattezza con cui erogano i fondi stabiliti in bilancio per materie stradali. Il prefetto di Catania deplora che la legge del 1868 "sia divenuta una palestra, in cui municipi, sindaci e difensori si studiano a tutto possa di contrastare l'applicazione più larga del provvedimento". Un consigliere provinciale di Catania afferma che molti Comuni non si prestano ad eseguire quella legge, perchè non sono giunti ad un grado di civiltà e d'istruzione da comprendere i vantaggi della viabilità. Nella provincia di Messina i Comuni si prestarono dapprima a fare gli elenchi, ma poi per la compilazione dei progetti, per gli appalti, e tutti i procedimenti esecutivi dovettero supplire la provincia e il Governo. Nella stessa città di Messina l'elenco delle strade obbligatorie fu dovuto redigere d'ufficio dalla prefettura nel 1874. E un membro di quella deputazione provinciale ci assicurava che fino ad ora non si era costrutto nel Comune di Messina un solo chilometro di strade obbligatorie. A Siracusa le cose camminarono in senso inverso; da principio grandi resistenze attive e passive; poi le repugnanze scemarono, le resistenze furono più miti; ora non mancano municipi che gareggiano di zelo nel compiere quelle parti della rete intercomunale che ancora difetta. Nè solo si trovarono ostacoli alla costruzione, ma in qualche luogo le strade costrutte rimangono con manutenzione insufficiente, talchè deperiscono e bisogna talvolta quasi rifarle. Così avvenne nella provincia di Palermo, dove il Governo, con esempio unico nello Stato, fece costruire dall'esercito due gruppi di strade della misura di chilometri 81, anticipando ai Comuni una spesa di L. 876,000, e dove ora, per mancanza di manutenzione, alcuni tronchi importanti, per esempio quello da Caccamo a Sciara, sono divenuti ormai impraticabili. Così avvenne nella provincia di Catania, dove alcune strade comunali, che erano rotabili alcuni anni fa, si debbono ora percorrere a cavallo. E in qualche luogo, come sulla linea Palermo-Messina, si deplora che ponti costruiti dal Governo rimangano inutili per le contestazioni locali che impediscono le strade d'accesso. E per contestazioni della stessa natura osservò la Giunta essere da lungo tempo in deplorevole stato di manutenzione un tronco stradale di moltissima importanza locale, quello che conduce tutti gli zolfi di Lercara alla stazione della ferrovia. Di codeste contestazioni, di codesti ripicchi tra autorità che dovrebbero tutte cooperare al comun bene, pur troppo non vi è penuria in Sicilia; e forse non vi sono rimaste estranee sempre le autorità governative, quando spiriti gretti o rivalità burocratiche riescono a prevalere sulla direzione imparziale e assennata dei pubblici servizi. Gare di questa natura non giovano mai a rialzare il sentimento della giustizia e dell'autorità, come non giovarono in passato alla buona soluzione di alcune questioni stradali, per esempio nel circondario e nella città di Nicosia. Ritornando alle strade obbligatorie, il risultato dell'azione finora ottenuta dalla legge 30 agosto 1868 può riassumersi nelle seguenti cifre. La classificazione delle strade obbligatorie in Sicilia si estende, a tutto il 1874, a chilometri 3809,864, la cui spesa importerebbe una cifra approssimativa di L. 40,363,000. Calcolando l'esecuzione della legge sulla base del fondo speciale stabilito dall'art. 2 e dei sussidi provinciali e governativi, in quindici anni dovrebbero essere costruiti chil. 2561,879; gli altri raggiungerebbero od oltrepasserebbero il ventesimo anno. In fatto si sono redatti, a tutto giugno 1875, progetti regolari per chilometri 1733, dei quali 676 parte dai Comuni e parte dalle provincie, 1057 direttamente dall'amministrazione governativa; i progetti redatti dalle provincie costarono sino a 600 lire al chilometro, quelli compilati d'ufficio ascesero ad una media chilometrica di L. 223. A tutto agosto 1875 si erano decretate linee stradali per chilometri 534, si erano concessi sussidi dallo Stato per L. 1,247,810, si erano eseguiti lavori per L. 982,762 (escluse le linee eseguite per mezzo dell'esercito) e si era pagata in sussidi la somma di L. 219,056. Se poi si prendono le mosse dalla solita epoca del 1862, l'aumento delle strade comunali verificatosi nell'Isola ascende a chilometri 705; nel complesso, tra nazionali, provinciali e comunali, la viabilità siciliana sarebbe cresciuta dal 31 marzo 1862 al 30 giugno 1875 di chilometri 1638,210; una media annua di chilometri 117.


Effetti della scarsa viabilità. Il risultato, bisogna dirlo, non è brillante, pensando che a questo concorsero le forze dei Comuni, delle provincie e dello Stato. Dalle cifre è apparso però che soprattutto nella viabilità comunale la sproporzione è sfavorevole. Infatti, mentre lo Stato ha costruito chilometri 458 sopra 605, vale a dire più di tre quarti del debito suo, mentre le provincie hanno costruito chilometri 594 sopra 1612, vale a dire più di un terzo dell'opera loro, i Comuni, sopra una rete obbligatoria di chilometri 3810, non ne hanno costruito che 705, vale a dire meno di un quinto del lavoro totale. Il linguaggio delle cifre diventa anche più doloroso, se si guarda all'entità dei risultati ottenuti dalla legge 30 agosto 1868; giacchè l'avere in 7 anni potuto erogare soltanto una somma di circa un milione, mentre il preventivo sommario della rete complessa tocca per lo meno i 40 milioni, dimostra quanto siamo lontani dall'avere finora a nostra disposizione un mezzo efficace per raggiungere lo scopo. Continuando in queste proporzioni, non venti nè venticinque, ma duecento ottanta anni occorrerebbero per compiere la rete obbligatoria delle strade comunali in Sicilia. Nè sarebbe esatto il dire che l'opera o il sussidio dello Stato abbiano avuto minore larghezza nell'Isola che nel Continente. Le somme spese in tutto il regno per l'esecuzione della legge del 1868 ammontavano a tutto giugno 1875 alla cifra di L. 7,915,779; e di queste, per progetti, lavori e sussidi, toccarono alla Sicilia L. 1,449,146, vale a dire quasi il doppio di ciò che in proporzione di territorio e di abitanti le sarebbe spettato. Ed è giusto che sia così, giacchè dove è maggiore il bisogno, ivi dev'essere più robusto lo sforzo. È vero che ormai il primo periodo, il periodo più difficile della preparazione è già spinto innanzi, e che ora i procedimenti dell'amministrazione pubblica potranno essere ridotti alla metà, al quarto della loro durata, ma risultati maggiori la legge del 1868, così come è, non potrà darne; ed è impossibile che si lasci per altri cinquant'anni la Sicilia alle prese con uno sviluppo così lento della primaria viabilità.

È questo il primo bisogno dell'Isola, la causa più frequente e più intima delle sue sofferenze. L'efficacia dannosa dell'odierno sistema stradale si tocca, si vede, si indovina in ogni manifestazione della vita o degli interessi dell'Isola. Nell'ordine economico, turba i fenomeni ordinari dello scambio, impedisce le coltivazioni accurate come i convenienti commerci, allontana i proprietari dalle loro terre, scoraggia i costruttori di case agrarie e gli intraprenditori di migliorie, si oppone alla introduzione delle macchine, pesa sulla elasticità dei prezzi e dei salari, rende fiacco e lento il progresso industriale, affatica lo sviluppo minerario, perpetua dove c'è, il regime del latifondo e il regno della malaria. Nell'ordine morale, contribuisce a mantenere i pregiudizi e gli errori delle classi popolari, alimenta in esse l'abitudine dell'inerzia e dell'egoismo, impedisce quei contatti che servono a dirozzare le menti, a spegnere le diffidenze, a rendere largo e sicuro il sentimento delle solidarietà umane e dei progressi civili. Nell'ordine politico, i danni poi sono continui e complessi. Senza strade, la pubblica amministrazione si trova ad ogni passo inceppata. Non può vigilare l'esecuzione delle leggi, lasciate troppe volte in balìa di sindaci, che dell'isolamento del loro Comune si formano uno stromento di dominio od un pretesto di resistenza passiva. La pubblica sicurezza non vi può essere guarentita, perchè il servizio periodico si rende difficile, e tardi e scarsi i soccorsi straordinari in caso di turbamenti. Estremamente onerosi e dispendiosi riescono gli obblighi che il sistema liberale dello Stato impone ai cittadini; come i servizi dei giurati, delle testimonianze, della leva, dei tributi; e così più lenti e inefficaci rimangono i servizi che i cittadini possono esigere dallo Stato, ad esempio, per la posta, per la giustizia civile e penale, per le ispezioni scolastiche. Da che ognuno vede quale discredito ne venga al sistema politico e quale continua lotta tra gli interessi privati e le esigenze dello Stato. La mancanza di strade crea poi un grosso turbamento in tutta la materia delle circoscrizioni, così amministrative, come giudiziarie; giacchè spesse volte Comuni che si trovano in linea chilometricamente diretta a poca distanza dal loro capoluogo sono costretti, per incompleta viabilità, a percorrere lunghissimi spazi e attraversare, per giungervi, territori soggetti ad altre giurisdizioni; e talvolta avviene pure che un piccolo tronco costruito da un Comune o da una provincia confinante aumenti il danno e quasi il ridicolo della loro situazione, mettendoli a due passi da un capoluogo che non è il loro, e lasciando il loro a distanza di tre o quattro giorni di viaggio disagiato e pericoloso.


Circoscrizioni amministrative e giudiziarie. Queste circoscrizioni, così amministrative, come giudiziarie, come anche politiche, dànno luogo a molti reclami; di cui alcuni verranno scemando man mano che la viabilità, progredendo, sani e corregga certe anormalità passeggiere e certi squilibri attuali; altri dovrebbero veramente essere soddisfatti, perchè mossi da intollerabili difetti di circoscrizione. Sciacca e Sambuca, per esempio, si trovano ora in più facili comunicazioni con Palermo che con Girgenti, e quindi il desiderio di avere la prima città anzichè la seconda per capoluogo di provincia può essere ora scusato. Non lo sarà più quando siano aperte le linee stradali in costruzione, che metteranno Sciacca e Sambuca a pochissima distanza dal capoluogo attuale. Piazza Armerina si lagna d'essere l'unico capoluogo di circondario in Italia che non sia sede di un collegio elettorale, essendo invece suddivisa fra due o tre collegi finitimi la sua popolazione. Agira, che la ferrovia ha posto a qualche ora di distanza da Catania, si trova annessa alla giurisdizione del tribunale di Nicosia, da cui lunghe e malagevoli strade la dividono e dove nessun altro interesse la chiama. Cammarata e Casteltermini, che in tre ore per la ferrovia possono venire a Girgenti, sono sotto la giurisdizione dei tribunali circondariali di Sciacca e di Bivona, paesi a cui non possono accedere se non per aspri e inospiti sentieri, spesso pericolosi e non sempre praticabili, specialmente d'inverno. Reclami di questa natura sono molti, nè li possiamo noverar tutti.

Grave però e veramente dannosa è la condizione della provincia di Siracusa che tuttora trovasi annessa alla giurisdizione della Corte d'appello di Palermo. I cittadini di quella provincia che sono, mediante la ferrovia, in diretta e brevissima comunicazione con Catania, dove risiede una Corte d'appello, vedono i loro affari soggetti a lunghi ritardi, e devono per recarsi personalmente al loro tribunale, traversare tre vaste provincie, mentre una grande sollecitudine di trattazione ed una grande economia di spese e di tempo verrebbe loro dal trovarsi sottoposti alla giurisdizione della Corte di Catania. I reclami per questo disagio furono unanimi in tutta la provincia di Siracusa. Veramente è assurdo che, mentre la Corte di Palermo esercita la sua giurisdizione su cinque provincie, e quella di Catania si restringe a una sola, non si aggiunga a quest'ultima la provincia finitima di Siracusa, i cui affari e i cui cittadini, obbligati già a passare da Catania, perdono inutilmente tutto il tempo e tutta la spesa che esige l'attraversare le provincie di Caltanissetta e di Palermo, e il ripercorrerle nel ritorno. Non pare alla Giunta che questa ripartizione sia ora giustificata da nessuna esigenza legittima, da nessun interesse di pubblico servizio. E siccome questa condizione di cose non potrà essere mutata da nessun fenomeno di viabilità, giacchè i paesi della provincia di Siracusa dovranno ancora essere avvicinati a Catania, non potranno esserne allontanati, la Giunta ritiene che il Governo farebbe cosa giusta e utile alle popolazioni, promovendo la separazione della provincia di Siracusa dalla Corte d'appello di Palermo, e aggiungendola alla Corte d'appello di Catania. Questo provvedimento, anche isolato, non comprometterebbe in nessuna guisa la questione più larga della riforma delle circoscrizioni giudiziarie, mediante la riduzione dei tribunali circondariali. È un quesito codesto che non tocca la sola Sicilia, per quanto in Sicilia possa trovare argomenti maggiori a vantaggio suo. Certo, in alcune delle residenze più aspre e disagiate dei monti siciliani, nè il numero degli affari è tale da giustificare la residenza di un tribunale, nè riesce facile di mantenervi sempre un personale, così giudicante, come patrocinante, che dia buone guarentigie per la buona trattazione degli affari stessi. Troppe volte, così in Sicilia come altrove, i tribunali circondariali sono piuttosto diretti a soddisfare interessi locali di altra indole, anzichè gl'interessi alla cui tutela i tribunali provvedono. Le turbate condizioni della pubblica sicurezza possono sole creare in qualche caso la convenienza morale di un centro giudiziario altrimenti superfluo. E sotto questo rapporto la questione si collega coll'ordinamento delle preture, di cui ci avverrà parlare più tardi. Ad ogni modo, trattandosi di provvedimento ordinario e duraturo, la Giunta addita al Governo come degna di studio una circoscrizione del territorio dei tribunali dell'Isola, più conforme agli interessi della popolazione e della giustizia; e la convenienza di ridurne anche il numero, a riguardo degl'interessi medesimi, tenendo sempre in gran conto lo stato della viabilità.

Prima di chiudere questo argomento, la Giunta non può a meno di dire una parola sopra un reclamo, per verità d'interesse locale, ma che, per l'eccezionalità del caso, merita l'attenzione del Governo, ed un'equa soluzione troppo ritardata fin qui. La città di Noto, rimasta per quasi 30 anni capoluogo della provincia di Siracusa, si vide con una legge del 1865 nuovamente privata di questo vantaggio. Per una logica di centralità che potè sembrare eccessiva, perdette la prefettura, perdette il tribunale, perdette il liceo. Tali spostamenti, verificatisi quasi ad un tratto, non poterono che agire sfavorevolmente sulla prosperità materiale e sulla tempra morale della città. Proposta alla Camera una petizione per ottenere dei compensi, questa petizione, dopo un'ampia discussione, veniva rinviata al Ministero, il quale accettava l'impegno di studiare che cosa potesse farsi per migliorare la situazione di Noto. Questa deliberazione favorevole della rappresentanza nazionale veniva poi rafforzata presso i cittadini di Noto da un dispaccio del Ministro dell'interno che "assicurava essersi presa in attento esame la questione dei compensi da accordarsi a codesta città per la perdita del capoluogo". Malgrado ciò, dei tanti modi escogitati o proposti dal Comune di Noto per raggiungere questo scopo, nessuno fu sinora accettato. Fu chiesta la sede di istituti giudiziari importanti, e non si poterono concedere. Non si concesse la sede del distretto militare, non si concesse la dimora di un reggimento, mediante offerta gratuita dei locali, non si concesse la continuazione del tronco ferroviario sino a Noto, si accordò e poi non si mantenne un sussidio per l'arginamento del fiume Eloro. Pare alla Giunta che il caso eccezionale e la forza dei precedenti non lascino il Governo senza obbligo di provvedere a che la città di Noto non possa considerare come vuote di senso e di serietà le dichiarazioni solenni dei grandi poteri dello Stato.


La legge del 30 agosto 1868. Il viluppo degli argomenti ci ha portato lungi dal tema fondamentale, da cui ci eravamo dipartiti: la necessità di dare più rapido impulso alla viabilità, e di migliorare quindi sotto tale aspetto la legge del 30 agosto 1868. Si è visto che in molti casi quella legge trovò ostacoli nella resistenza passiva dei Comuni; in molti più casi la trovò eziandio nella difficoltà finanziaria della sua applicazione. E questa difficoltà deriva da cause varie. In alcuni luoghi, per esempio, nella provincia di Palermo, la resistenza assoluta di quella deputazione provinciale a concedere un aumento della sopratassa fondiaria oltre il limite accennato dalla legge del 14 giugno 1874, impedì la costituzione del fondo speciale, previsto dall'articolo 2 della legge del 1868, a tutti quei Comuni che con altre spese obbligatorie avevano raggiunto quel limite. Altrove le circoscrizioni comunali ristrette rendono quel fondo speciale affatto insufficiente, anche portando la sovrimposta al di là del limite fisso, e quindi aggravando molto la imposta individuale. In altri Comuni le difficoltà nacquero o dalla mancanza di un appaltatore dei lavori o dalla impossibilità di trovare i mutui necessari alla intrapresa stradale. Certo, se lo Stato potesse recarsi in mano tutto l'andamento e tutta la responsabilità di questo servizio, rivalendosi esso delle spese anticipate sui bilanci e sui contribuenti comunali, con quei mezzi che possiede, e quei temperamenti che potrebbe adottare, la costruzione della rete obbligatoria camminerebbe assai più spedita, e i voti delle popolazioni isolane saluterebbero con indubbia soddisfazione questo sistema. Almeno quando si tratta di consorzi comunali, a termini dell'articolo 21 della legge 30 agosto 1868, un intervento più diretto dello Stato varrebbe una benefica abbreviazione delle infinite lungaggini che rendono impotente l'opera del legislatore. E l'esempio già avuto, che i progetti sono stati compilati più sollecitamente dallo Stato, e che quei progetti sono costati meno, prova quanto più rapidamente ed economicamente funzionerebbe in questa materia l'ingerenza governativa. Ma se fin lì non si può o non si vuole arrivare, bisognerebbe però in alcune parti rendere la legge più pratica e più efficace. L'articolo 1 dovrebbe essere interpretato con temperanza affinchè la classificazione obbligatoria non imponga oneri troppo gravi a Comuni privi di ogni potenza economica. L'articolo 2, che costituisce il fondo speciale, poco risponde allo scopo. La prestazione d'opera soprattutto, fonte di liti e d'incertezze nell'esigenza, allontana gli appaltatori che temono da quella forma di concorso, ritardi di pagamento o malfidi operai. E andrebbe ad ogni modo aumentata, se si vuole utile, l'aliquota del 5 per cento sulle tasse erariali, e permesso di oltrepassare per tale intento il limite fisso. Quanto al sussidio dello Stato, regolato dall'articolo 9, due modificazioni sarebbero di grande utilità: 1° permettere la concessione anticipata del sussidio, almeno per quelle strade alla cui costruzione si procede d'ufficio, giacchè è crescere le difficoltà del Comune l'obbligarlo ad anticipare anche quella parte di spesa che non gli spetta; 2° portare la quota del sussidio ad un terzo, almeno in casi determinati, invece del quarto. Nè queste modificazioni altererebbero gravemente il concetto originario della legge e le previsioni finanziarie che l'avevano accompagnata. Infatti, coll'ingenuità del desiderio ottimista, quella legge stabiliva che il sussidio annuo per le strade obbligatorie non fosse inferiore a tre milioni. L'esperienza ha provato che questa cifra superava di gran lunga gli stimoli della legge e l'attività del paese, giacchè in sette anni, invece di spendere 21 milioni, se ne sono potuti spendere soli 8. Per cui aumentando anche di un dodicesimo il sussidio erariale, è difficile che si arrivi mai ad erogare tutta la somma annuale che la legge del 1868 aveva prescritta. Se vi si arriva, sarà un giorno beato per la viabilità italiana. Però la questione più grossa non è forse quella del sussidio. Ai due terzi della spesa deve sempre provvedere il Comune. E come vi provvede? Quali sono le fonti, gl'istituti a cui rivolgersi per ottenere un'anticipazione di capitali così importante? Abbiamo veduto quali trabalzi abbiano avuto in Sicilia gl'istituti di credito, e come siano oggi obbligati a trincerarsi cautamente nelle operazioni di sconto e nei prestiti a breve scadenza. Il credito mobiliare e il credito fondiario non hanno finora istituti importanti a loro servizio, e il capitale privato non osa ancora avventurarsi fuori delle usate vie, o, quel che è peggio, fuori dei nascondigli. I Comuni siciliani non hanno dunque che due casse pubbliche a cui rivolgersi: la Cassa dei depositi e prestiti e la Cassa di soccorso per le opere pubbliche in Sicilia; istituzioni che, quantunque amministrate da una sola autorità, secondo l'ordinamento provvisorio attuato col decreto 4 gennaio 1872, conservano però divise le attribuzioni e separato il bilancio. Ora, la Cassa del depositi e prestiti ha bensì largito ai corpi morali della Sicilia una somma di lire 13,570,000 dall'anno 1863 in poi; ma di queste una tenuissima parte può dirsi avere avuto influenza sulle costruzioni della rete stradale; la più gran somma andò a beneficio delle grandi città o delle provincie: Palermo ebbe 4 milioni, Catania quasi 3 milioni, Siracusa 2,600,000, un milione e mezzo Girgenti, un milione Caltanissetta; denari consacrati ad opere grandiose certo ed utili, come piazze, teatri, palazzi provinciali, ma che assorbirono inopportunamente ogni fondo, a danno dei piccoli Comuni e della interna viabilità dell'Isola.


La Cassa di soccorso per le opere pubbliche. La Cassa di soccorso per le opere pubbliche rimase per verità più fedele all'indole della sua fondazione, ma il suo capitale è affatto insufficiente al bisogno. Fu una delle poche istituzioni borboniche, meritevoli di plauso, e che sopravvissero al Governo assoluto. Regolata da un decreto del 23 luglio 1843, apriva le sue operazioni con un modico capitale (circa 200 mila ducati), proveniente dalla liquidazione delle antiche amministrazioni regie stradali. Prestava alle casse provinciali e comunali "le somme necessarie per accelerare la costruttura delle strade ed altre opere più importanti". Per norma costante, tali imprestiti "si sconteranno" dice il regolamento "nel corso di 20 anni coll'interesse scalare del 3 per cento". Le stesse norme segue oggi ancora l'amministrazione di questa Cassa, la quale al 31 dicembre 1875 chiudeva la sua situazione con un attivo netto di lire 5,976,316, di cui lire 82,880 in numerario ed il resto in crediti che rateatamente si esigono. Con questo capitale, che ogni anno si aumenta dei propri interessi, la Cassa ha potuto dal 1861 fino ad ora prestare ai Comuni della Sicilia la somma di lire 9,478,497; vale a dire una media di circa lire 630,000 all'anno. È poco, e si comprende come, con capitale così scarso di anticipazioni, l'esecuzione della rete obbligatoria, invece di 20 anni minacci di durare più di cinquanta. L'aumento dei fondi della Cassa di soccorso o l'istituzione di una Cassa speciale destinata a simili prestiti vincerebbe d'un tratto la maggior parte delle lentezze e delle difficoltà che assediano lo svolgimento della rete comunale obbligatoria e ne assicurerebbe il compimento in poco numero d'anni. Ma il problema non è facile a risolvere; nè di grande aiuto potrebbero essere per i primi anni i risparmi provenienti dalle Casse postali di nuova istituzione, prescindendo anche dal considerare se depositi di quella natura possano essere investiti in prestiti a così lunghe scadenze.


Il quarto dei beni ecclesiastici. A questo bisogno pare alla Giunta che risponderebbe assai bene un altro provvedimento che da molto tempo oscilla nelle regioni amministrative e che in tutta la Sicilia è con un solo grido invocato. Trattasi dell'applicazione integrale della legge 7 luglio 1866 sulla soppressione delle corporazioni religiose. Ognuno sa che coll'articolo 35 di quella legge, ai Comuni di Sicilia era dato il quarto della rendita di quei beni, a datare dal 1° gennaio 1867, coll'obbligo di pagare il quarto delle pensioni dovute ai religiosi. Sopravvenuta poi la legge 15 agosto 1867 per la liquidazione dell'Asse ecclesiastico, s'imponeva con l'articolo 18 di quella legge una tassa straordinaria del 30 per cento sul patrimonio ecclesiastico rappresentato dal Fondo pel culto. L'amministrazione di quel Fondo che, non avendo ancora fatte le liquidazioni, teneva presso di sè le rendite di tutte le corporazioni religiose abolite coll'antecedente legge del 1866, pretese che la tassa straordinaria del 30 per cento colpisse anche la rendita iscritta a favore dei Comuni di Sicilia. E in qualche caso, incoatasi lite, la vinse. È però un fatto, a cui l'equità difficilmente si rassegna, questo, che uno Stato possa, dopo concesso un diritto, ritornare sulla sua concessione e roderne un brano. Al 1° gennaio 1867, il diritto dei Comuni di Sicilia a possedere la rendita iscritta corrispondente al quarto dei beni, salvo l'obbligo del quarto delle pensioni, restava pieno ed intero. La legge posteriore del 15 agosto 1867 non poteva più considerare quella parte di beni come un patrimonio ecclesiastico; era divenuta un patrimonio comunale; e non si capisce come potesse colpirsi di una tassa retroattiva, non si capisce come la tardanza dello Stato a fare le liquidazioni e consegnare la rendita, vale a dire l'indugio del Governo nella esecuzione dei suoi doveri, dovesse poi volgersi a suo vantaggio e a danno dei Comuni. L'intenzione del legislatore del 1866 fu evidentemente di usare un riguardo speciale ai Comuni della Sicilia; e questo riguardo trovava forse il suo corrispettivo nella massa maggiore di beni che, in proporzione delle altre regioni italiane, lo Stato trovava nella Sicilia, rimasta fino allora vergine di qualunque legge di soppressione e quindi ricca di tutto l'originario patrimonio del clero regolare. Questa intenzione non poteva certo essere mutata, a così poca distanza di tempo, dal legislatore del 1867. Il pensare diversamente equivarrebbe a supporre che si abbia voluto con una mano togliere il beneficio recato dall'altra; molto più che l'onere delle pensioni imposto dalla legge del 1866 restava intero, e solo si sottraeva circa un terzo dell'utile. Quanto nuocerebbe al credito ed alla dignità del Governo presso le popolazioni siciliane questa interpretazione delle due leggi non è mestieri percorrere la Sicilia per indovinarlo. Il sentimento pubblico sarebbe laggiù gravemente offeso da questa soluzione che, a torto o a ragione, sarebbe considerata come una mistificazione. La fiducia nelle promesse, nella parola del legislatore ne andrebbe scossa; e al malcontento che desta il bisogno poco soddisfatto della viabilità s'aggiungerebbe quello di vedersi contesi, per una interpretazione di legge, se non ingiusta, certo durissima, i mezzi di potere in parte provvedere a tale bisogno. Giacchè non si può dimenticare che la stessa concessione del quarto dei beni era fatta col vincolo d'impiegarlo in opere di pubblica utilità. Ora, se non tutti, molti di questi Comuni hanno fatto debiti, hanno anticipato somme per costruzione di scuole o di strade. Gli altri aspettano per costruirle che la rendita di quel quarto sia loro consegnata. Non c'è della durezza a lagnarsi che non abbiano pensato ad entrambi gli scopi contemporaneamente, mentre lo Stato, loro debitore, trattiene presso di sè le somme necessarie per conseguirli entrambi?

La Giunta non può avere dubbio sulla soluzione più equa da darsi a questa pratica. Essa fa voti, non solo perchè il Governo solleciti le liquidazioni definitive dei beni delle soppresse corporazioni religiose in Sicilia, ma perchè la tassa straordinaria imposta coll'articolo 18 della legge 15 agosto 1867 non sia applicata al quarto della rendita corrispondente ai detti beni, da iscriversi a favore dei Comuni di Sicilia, a termini dell'alinea secondo dell'articolo 35 della legge 7 luglio 1866. E se questa disposizione avrà bisogno di un nuovo atto legislativo e si potrà con esso vincolare espressamente la restituzione di questo quarto alla costruzione della rete stradale, il beneficio non sarà che doppio e la questione della viabilità otterrà quello sviluppo più sollecito che aveva cercato di imprimerle la legge 30 agosto 1868.


Altre questioni di viabilità.

Non vogliamo abbandonare la materia dei lavori pubblici, senza dire una parola sulle trazzere e sulle bonifiche. Le trazzere, che sono larghe striscie di terreno, non selciate nè mantenute, che seguono l'andamento naturale del suolo e che, praticabili nell'estate, divengono nell'inverno alti e pericolosi strati di fango, sono però le uniche vie di comunicazione per cui uomini e quadrupedi accedono a parecchi Comuni. L'usurpazione dei proprietari e la trascuratezza dei Comuni tendono in molti luoghi a rendere inutile anche questo primitivo mezzo di viabilità. Non è inopportuno che si ricordi a chi ne ha debito la vigilanza su questa proprietà e su tale servizio. Quanto alle bonificazioni, la mancanza di una legge speciale non ha dato al Governo altre ingerenze che quelle consentite dagli articoli 128, 129 e 130 della legge sulle opere pubbliche. Nè sono mancate trattative fra le parti interessate per addivenire al prosciugamento dello stagno di Mondello nelle vicinanze di Palermo e delle paludi Pantano e Pantanelli nelle vicinanze di Siracusa. Vi è pure un'impresa per l'arginazione del Simeto nella piana di Catania, che, perfezionata, porterebbe assai vantaggio alla produzione ed alla salubrità di quella vasta contrada. L'effetto però di queste pratiche non ha potuto dirsi salutare, giacchè l'impresa di Mondello è sempre allo stato di progetto, il Simeto perde tuttora lungo le rive due terzi della fertilizzante sua onda, e le paludi dell'Anapo sono oggi ancora sconfinate e insalubri, come all'epoca in cui menavano strage fra gli eserciti greci che Demostene conduceva ad assediare Siracusa. Finalmente non può la Giunta dimenticare affatto alcuni lagni che toccano da vicino le civili necessità di un paese. La manutenzione delle strade è su molte linee trascurata troppo; il materiale di consolidamento è, secondo i tronchi, o insufficiente o eccessivo; di rado sparso a tempo sull'asse stradale. I difetti di costruzione e di manutenzione che si deplorano nelle strade rotabili di alcune provincie erano già molto esattamente riassunti nella Relazione dell'ingegnere Possenti del 1865; sono anche oggidì confermati da deposizioni di uomini tecnici, nè pare, malgrado ciò, che molti miglioramenti si facciano. La situazione è poi intollerabile laddove, per un'acuta previsione di un felice futuro, sono stati adottati sistemi di manutenzione provvisoria e quindi economica, per quei tronchi paralleli alle ferrovie, destinati poi a cadere sul bilancio delle provincie.

Questo deperimento di viabilità ordinaria cominciato dieci, dodici, quindici anni prima che sia praticabile la viabilità ferroviaria non pare alla Giunta nè logico, nè giusto; giacchè per un trapasso di stanziamenti nei pubblici bilanci non devono i cittadini vedersi stremati i mezzi di comunicazione attuale in vista di una più rapida comunicazione futura.

Ne deriva un altro e non lieve disagio; che su vie così trascurate e disuguali possono difficilmente correre vetture comode, ma vi si trascinano informi veicoli, turpi di aspetto e inospitali per ogni civile persona, che servono in Sicilia ai trasporti postali. Le cartelle d'oneri che l'amministrazione delle poste aggiunge ai capitolati speciali colle imprese appaltatrici, non impongono sufficienti condizioni per la qualità delle vetture, ed anche quelle pattuite non si rispettano. E siccome il privilegio dato alle imprese postali rende difficile la concorrenza, i viaggiatori, piuttosto che perdere le corse, si rassegnano ad accatastarsi in quei disgraziati veicoli, che dovrebbero trasportare soltanto quattro persone e che talvolta ne trasportano otto. Eppure anche questi veicoli sono talvolta desiderati lungo le linee stradali che costituiscono una interruzione fra due tronchi di ferrovia. E il non esservi servizio di trasbordo organizzato fra queste percorrenze è un inconveniente gravissimo, specialmente in paesi dove nessun ricovero notturno è consentito e dove riesce impossibile trovare, se non ci si è pensato prima e a gravi spese, alcun mezzo di locomozione. Oltrechè la mancanza di queste necessarie agevolezze allontana i passeggieri e le merci, e diminuisce il reddito delle ferrovie. Se queste potessero in Sicilia costruirsi colla sollecitudine che altrove è consentita, e se le strade parallele o intermedie fossero percorse da vetture postali, si capirebbe che nessuna cura si prendesse si Governo per ciò. Ma, essendo per colpa delle circostanze e della natura, così diverse laggiù le condizioni delle cose, non è desiderio eccessivo che, durante questa lunga precarietà, il Governo pensi un po' anche alle persone, non soltanto alle lettere e ai gruppi.

Sono queste cause molteplici e connesse che inaspriscono gli animi nell'Isola e li sconfortano dalla fiducia. I confronti col passato sono in questa materia sfavorevoli, giacchè il Governo borbonico provvedeva con una certa larghezza al servizio delle vetture e dei corrieri lungo le linee stradali allora esistenti. Ora è noto che si dimentica più sollecitamente il bene che il male, e quando si è alle prese coll'ultimo difficilmente si pensa a far paragoni col primo. Togliere queste cagioni d'inferiorità supposta o reale, mostrare una cura più costante e più benevola per tutti i miglioramenti della locomozione, spingere la viabilità d'ogni natura verso il più rapido e il più largo sviluppo, vorrà dire avere sciolto per quattro quinti il problema di governo in Sicilia(214).