Relazione sulla Federconsorzi/VII
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Capitolo Settimo
Dal commissariamento al concordato preventivo
Alcuni dati
Per meglio comprendere l'importanza sociale ed i riflessi, anche sull'occupazione, di quanto si esporrà, giova rammentare che, alla data del 31 dicembre 1990, la Federconsorzi aveva 1.311 dipendenti e le società controllate e collegate 2.711, per un totale di 4.022.
I produttori agricoli che avevano conferito il loro prodotto alla Federconsorzi erano circa 50.000.
I progetti riformatori del ministro Goria e la gestione commissariale
2.1 I presupposti di tali progetti
Qualsiasi progetto riguardante la Federconsorzi commissariata doveva tener conto di due aspetti essenziali: l'ammontare delle passività e l'ammontare delle attività.
Cominciando da queste ultime e tenendo conto dei dati allora disponibili quali emergevano dal bilancio 1990, giudicato per altro non attendibile, le attività si componevano di crediti, di beni mobili ed immobili e di partecipazioni.
Per quanto riguarda in particolare gli immobili, esisteva una notevole discrasia tra i valori di libro ed i valori loro attribuiti dai consulenti che avevano elaborato il progetto di rilancio della Fedit.
Infatti, nel programma ufficiale di rilancio del gruppo Fedit, il valore degli immobili della società era indicato in 870 miliardi.
Immobili iscritti per 55 miliardi nel bilancio Fedit venivano stimati 480 miliardi; immobili iscritti nel bilancio delle immobiliari per 90 miliardi venivano stimati 390 miliardi.
Nello studio sopra indicato si evidenziava che:"Il patrimonio immobiliare è concentrato per il 43 per cento nel comparto terziario (commerciale) e presenta le massime opportunità di realizzo. Il comparto abitativo è concentrato su Roma ove il mercato è molto attivo e può consentire rapidi smobilizzi. La forte presenza di tipologie abitative commerciali e terziario nei maggiori centri urbani con immobili di pregio favorisce in linea teorica una immediata liquidabilità."
2.2 Il programma originario
Il commissariamento fu accompagnato da un comunicato stampa che indica con chiarezza il progetto riformatore del mMinistro Goria: "Negli ultimi anni la situazione economica della Federconsorzi è andata progressivamente peggiorando (…). Ad oggi la prospettiva per il futuro, pur tenendo conto della già avviata e indispensabile ristrutturazione dell’intero sistema distributivo facente capo alla organizzazione dei consorzi agrari, non lascia sperare di poter fronteggiare gli oneri finanziari connessi con l’indebitamento via via determinatosi.
E’ dunque necessario intervenire senza ritardi attraverso un piano di sistemazione della posizione debitoria, piano che consenta ai creditori di recuperare le proprie spettanze in linea di capitale e, alla Federconsorzi, di continuare a svolgere, in modo equilibrato, la sua funzione al servizio della agricoltura.
La organizzazione é in grado di pagare i propri debiti solo che le banche creditrici, nei confronti delle quali si mette a disposizione, sino all’ultima lira, l’intero patrimonio, si rendano disponibili, nel loro precipuo interesse, a preservare il valore delle attività e a cogestire, nelle forme più trasparenti, la realizzazione dell’attivo patrimoniale".
Contemporaneamente al provvedimento di commissariamento, il Ministro rese pubbliche anche le linee principali di sistemazione della Federconsorzi che obbediscono ad una ispirazione fondamentale di privatizzazione, riecheggiano le idee del consulente del ministro Saccomandi, il dottor Artusi, e traducono in piano operativo le esigenze di consolidamento della posizione debitoria che la stessa dirigenza della Federconsorzi aveva tentato di realizzare.
L'ipotesi elaborata dal Ministro, verosimilmente grazie ad apporti tecnici che non è stato possibile individuare, prevedeva la concentrazione delle attività della Federconsorzi in tre società per azioni:, una prima destinata a raccogliere le attività "liquide" (liquidità vera e propria, crediti commerciali, giacenze di magazzino, ecc.) e, al passivo, i debiti verso i fornitori, il fondo accantonamento per il personale, e altri debiti di gestione; una seconda società destinata a raccogliere le attività mobiliari (crediti finanziari, partecipazioni, - Bna-Fata-Credito agrario ferrarese-Fedital ecc.) ed infine una terza società destinata a raccogliere le attività immobiliari e i crediti a più lungo realizzo.
Per quanto riguarda i debiti, si prevedeva che le banche ricalcolassero gli interessi relativi agli anni '89 e '90 sulla base dell’allora vigente tasso legale (pari al 10dieci per cento), e consolidassero il loro credito al 31 dicembre 1990, omettendo di computare gli interessi dal 1°gennaio 1991.
Il debito della Fedit verso le banche sarebbe stato ripartito sulle tre società in proporzione al patrimonio di ciascuna di esse e sarebbero stati concordati i modi di realizzo dei cespiti.
Non si mancava di prevedere la gestione di quelli immobiliari attraverso la collaborazione di una società, la SIB spa, che faceva capo allo stesso consulente del ministro Goria, il dottor Della Valle!
La prima società per azioni, essendo destinata a continuare la gestione in forma di centrale d’acquisto come semplice mediatrice "e dopo una radicale riorganizzazione", avrebbe realizzato la trasformazione del sistema, segnando la fine di quello consortile.
Non si prevedeva la cessazione di consorzi agrari, ma il rilevamento delle attività di quelli in crisi da parte di altri consorzi o di altri non meglio qualificati soggetti di nuova costituzione.
Si trattava, come appare evidente, di una prospettiva di rivoluzione del sistema che si realizzava senza il minimo concorso dei soci della Fedit e cioè dei consorzi agrari, senza alcuna modifica legislativa, senza un dibattito parlamentare, senza chiarezza di prospettive, in virtù apparentemente della sola volontà del ministro Goria, tradottasi in uno scarno decreto.
La struttura ipotizzata corrispondeva alle richieste che provenivano dall'interno della Fedit di liberare il governo della holding dalle limitazioni statutarie che ne condizionavano le determinazioni operative aprendo, inoltre, alla partecipazione dei privati, ed assicurava un risultato politico di notevole rilievo: la fine del dominio delle associazioni di categoria e della Coldiretti e, quindi, di quella parte della Democrazia cristiana che essa esprimeva.
Il progetto fu abbandonato perché fu presto chiaro che un nuovo computo ed una moratoria degli interessi sui crediti alla Fedit da parte delle banche, per gli anni precedenti, non erano assolutamente possibili dal punto di vista giuridico per l’assenza di uno strumento che lo consentisse.
Anzi, lo vietavano il codice civile e la normativa tributaria.
Di conseguenza il peso schiacciante degli interessi avrebbe impedito qualsiasi produzione di utili alla nuova prevista società.
Il commissariamento produsse, inoltre, l'effetto di una immediata sospensione dell'erogazione di crediti da parte di tutto il sistema, con conseguenti insostenibili problemi di liquidità; pertanto il progetto non poteva più trovare attuazione perché esso presupponeva la persistenza degli affidamenti bancari che, invece, furono tutti immediatamente sospesi.
2.3 Il nuovo progetto Agrisviluppo
Il ministro Goria continuò a perseguire, con chiara determinazione, la trasformazione della Fedit in una società per azioni che continuasse ad esercitarne le funzioni, anche dopo l'insuccesso delle sue proposte iniziali.
Fu quindi elaborato dai Commissari governativi, in brevissimo tempo, un secondo progetto che ebbe la luce il 29 maggio 1991.
Si ipotizzò la costituzione di una società alla quale affidare tutte le attività di commercializzazione svolte dalla Federconsorzi, presupponendo che i consorzi agrari riconoscessero alla nuova entità un ruolo rappresentativo dei propri interessi e concentrassero in essa i propri approvvigionamenti di merci.
A loro volta i fornitori della Federazione avrebbero dovuto sottoscrivere degli accordi-quadro con la nuova società, per la commercializzazione dei propri prodotti nella rete di distribuzione dei consorzi agrari.
Alla nuova società, raggruppante tutte le attività commerciali svolte dalla Federconsorzi, si progettava di affidare il compito di offrire ai produttori agricoli un pacchetto integrato di prodotti, tecnologie e servizi, nonché la collocazione sul mercato delle produzioni agricole.
Il progetto si incarnò nella Fedit-Agrisviluppo spa, costituita in regime commissariale, in base ad uno studio elaborato da una società del gruppo IMI, il 6 giugno 1991 e cioè dopo soli 19 giorni dal commissariamento.
Si procedette alla trasformazione di una preesistente società del gruppo, e cioè la Fedexport-Federconsorzi-Export-Import srl, con il dichiarato fine di svolgere tutte le attività di commercializzazione e di prestazione di servizi svolte dalla Fedit, assicurando "la continuità nella fornitura ed erogazione di mezzi e servizi utili all'agricoltura e salvaguardando l'integrità del sistema distributivo rappresentato dai consorzi agrari e dalla loro Federazione".
Essa era concepita come strumento per la soluzione del problema Fedit e si concretizzava in una società per azioni al cui capitale (inizialmente di 30, a regime di 250 miliardi) avrebbero potuto concorrere i maggiori creditori della Fedit, e cioè le banche, i fornitori, i consorzi agrari, ed altri operatori del settore agricolo.
La principale innovazione sul piano economico-funzionale sarebbe consistita nel fatto che l’attività sarebbe stata svolta non più attraverso l’acquisto e la rivendita dei beni, ma mediante una mera intermediazione.
Le forniture sarebbero state fatte dal fabbricante/fornitore direttamente ai consorzi.
I consorzi agrari sarebbero diminuiti di numero da 70 a 50.
Si ipotizzava che la Federconsorzi restasse ente ammassatore ma l’attività venisse seguita e non più gestita da una sezione con autonomia contabile e amministrativa.
Nel progetto, la nuova società avrebbe movimentato un giro d’affari di 3.650 miliardi.
Si prevedeva la cessazione dell'attività creditizia della Federconsorzi, a causa della situazione di illiquidità in cui essa si era venuta a trovare, e si affidava a future innovazioni legislative la soluzione del problema del credito agrario.
Il progetto fu accostato - da uno dei commissari, il dottor Locatelli - a quello che aveva interessato il Banco Ambrosiano con la costituzione del Nuovo Banco Ambrosiano.
Dichiarava il ministro Goria alla Commissione agricoltura e foreste del Senato in data 4 giugno 1991: "Ci si domanda se la proposta di un piano di sistemazione della situazione debitoria della Federconsorzi e di rilancio della sua attività sia stata davvero fondata sulla situazione economica e finanziaria della organizzazione e non piuttosto su ragioni diverse. E ci si domanda anche se la strada scelta sia stata la migliore o anche soltanto l’unica possibile (…).
Le domande, tutte legittime, muovono da un equivoco che va subito chiarito con estrema chiarezza.
Lo stato di potenziale insolvenza della Federconsorzi non è stato evidenziato dalla proposta di sistemazione della situazione debitoria e di rilancio della sua attività e tanto meno dalla nomina dei commissari (…).
La situazione di potenziale insolvenza era evidente sulla base di numerosi comportamenti ed è stata comunque denunciata con straordinaria chiarezza dall’approvazione dei bilanci della Fedit e delle società controllate per l’esercizio 1990.
Per cogliere interamente quanto sopra richiamato, sono sufficienti pochi accenni preceduti dalla constatazione secondo la quale, per quanto ad oggi risulta, il bilancio 1990 è corrispondente alla vera situazione dell'organizzazione.
E’ proprio tale bilancio, redatto anche grazie alla decisione degli amministratori in forma consolidata, a evidenziare però con chiarezza lo stato di difficoltà dell’organizzazione.
E’ infatti puntigliosamente annotato negli atti come il sostanziale pareggio del conto consolidato e di quello della Fedit si ottiene esclusivamente attraverso annotazioni del tutto straordinarie e comunque non attinenti alla gestione. Spiccano in particolare le cancellazioni di debiti ritenuti prescritti per 253 miliardi e la registrazione di plusvalenze per 275 miliardi. E’ di tutta evidenza che, anche solo in assenza di tali eventi - si ripete - del tutto estranei alla gestione, la perdita dell’esercizio sarebbe stata di circa 528 miliardi su ricavi totali inferiori a 4000 miliardi.
(…) In più, se lasciata evolvere senza interventi radicali, la situazione avrebbe condotto ad una perdita dell’esercizio 1991 non inferiore a 1000 miliardi, rappresentata sostanzialmente da circa 100 miliardi di perdita della gestione operativa, da oltre 600 miliardi di oneri finanziari e da circa 300 miliardi di crediti inesigibili da registrarsi nell’anno come tali.
Dalla situazione richiamata, si deducono alcune conclusioni difficilmente controvertibili.
La prima: non reagire in modo drastico ad una simile situazione, avrebbe comportato per tutti coloro che verso di essa portano una certa responsabilità un peso personale e politico difficilmente sostenibile.
La seconda: non esistendo possibilità di nessun genere circa un miglioramento della gestione tale da incidere in termini ragionevoli sul risultato economico, qualsivoglia idea di recupero della situazione non può in alcun modo prescindere dal blocco nel computo degli interessi passivi relativi alla situazione debitoria in essere.
La prima verifica della situazione successiva all’inizio della gestione commissariale ha peraltro dimostrato, in termini incontrovertibili, l’impossibilità di procedere nella gestione normale; la liquidità era praticamente a zero; gli affidamenti, di fatto, ritirati da tempo (…).
(...) Tutto ciò premesso, occorreva comunque valutare anche il patrimonio, certamente cospicuo. Ed è proprio sulla base di tale valutazione che si é ritenuto di poter proporre ai creditori un accordo (…). E’ di straordinaria evidenza che la proposta di accordo (che nelle sue linee essenziali appare ancora quella che meglio coglie anche l’interesse dei creditori) configura di fatto una cessio bonorum (…). Anche la proposta, certo non "centrale", di ricalcolare gli interessi maturati negli ultimi due anni rispondeva dichiaratamente all’esigenza di rendere più certo il raggiungimento dell’obiettivo dichiarato.
(…) La proposta può essere modificata secondo mille ipotesi. Un dato solo non può essere modificato: senza il blocco nel computo degli interessi, non esiste alcuna possibilità di sistemare la situazione debitoria secondo formule concordate, e in tal caso, vista la situazione economica sopra descritta, restano unicamente le forme coatte di liquidazione.
(…) Circa l’organizzazione del nuovo soggetto, si è predisposto un progetto dettagliatissimo che è disponibile al confronto con chiunque e aperto ad ogni miglioramento.
Circa invece la capitalizzazione ed il controllo, si è proposto a quante Banche vogliono concorrere a sostenere l’attività della Fedit di sottoscrivere la parte di capitale che non fosse immediatamente collocabile nel mondo dell’agricoltura nella funzione di consorzio di collocamento, con l’impegno di renderlo disponibile al mondo agricolo via via che quest’ultimo andrà ad organizzarsi per riceverlo.
(…) Corollario del tutto, è il piano di riassetto della rete periferica dei Consorzi Agrari Provinciali, che è già stato presentato e che va, ad ogni costo, rapidamente attuato".
2.4 Il fallimento del progetto Agrisviluppo
A sottoscrivere le azioni della nuova società furono chiamati i consorzi agrari ed i rappresentanti del mondo agricolo, ma in realtà la condizione economica e finanziaria dei consorzi non consentiva che in pochi casi la partecipazione alla nuova iniziativa, denominata con felice sintesi giornalistica Fedit 2.
La categoria dei "rappresentanti del mondo agricolo" era inoltre assai nebulosa e non era quindi chiara e definita la composizione della compagine sociale e l'attribuzione della direzione.
Dopo qualche iniziale resistenza, il progetto Agrisviluppo fu approvato dall'ABI, nel contesto di un protocollo di intesa globale con il Ministero dell'Aagricoltura che prevedeva anche la disponibilità delle banche a considerare congelati i saldi creditori verso la Fedit e parimenti congelati gli interessi dal 1° gennaio al 31 novembre 1991.
Il tentativo non ebbe successo perché non prestarono la loro collaborazione molte banche italiane e tutte le banche estere per le ragioni che saranno più oltre illustrate.
Infatti l'intesa tra Ministero ed ABI non fu approvata, come richiesto dal ministro Goria e dai commissari governativi, da tutte le banche ed al suo fallimento, alla fine di giugno 1991, fece seguito la richiesta di concordato preventivo.
Va notato che tra le banche italiane che non aderirono al progetto di rilancio vi 'era la Banca Nnazionale del lavoro, che era la maggiore creditrice del gruppo Fedit-Agrifactoring.
Ciò sembra significare che neppure il Dicastero del tesoro, in quel momento retto dal dottor Guido Carli, sosteneva il progetto.
3. Il concordato preventivo: epilogo non annunciato del commissariamento
I progetti del ministro Goria di tamponare la voragine debitoria con una moratoria e di rilanciare una Fedit di servizio aperta ai privati non più controllata dalle due associazioni di categoria, che da anni la dominavano e che, anche per il suo tramite, concorrevano a governare la politica agricola nazionale, fallirono senza appello.
Su di essi si coagulò una invincibile opposizione.
Dello schieramento facevano parte le banche estere, che non volevano e forse istituzionalmente non potevano investire nulla e che continuavano a chiedere di essere pagate integralmente e subito; numerose banche italiane, che non intendevano aderire alle richieste di rinuncia agli interessi e di nuovi investimenti, in particolare la Banca Nnazionale del lavoro - che già fortemente riottosa ad accettare di rinunciare a parte del dovutole, non intendeva assolutamente partecipare, evidentemente in conformità alla linea politica del Tesoro, alla rischiosa scommessa di investimenti (occorrevano a regime 300 miliardi) ad incerto ritorno), nella Fedit 2 progettata dal ministro Goria - ed infine le due associazioni di categoria, Coldiretti e Confagricoltura, e, le rispettive rappresentanze politiche.
Nel descritto contesto, il ministro Goria ed il presidente del Consiglio Andreotti decisero il ricorso al concordato preventivo per la Fedit.
Per quanto taluni,o come il commissario governativo dottor Cigliana, abbiano insistito nel voler presentare come naturale la decisione, essa non fu affatto un epilogo naturale del commissariamento.
Molteplici convergenti indicatori attestano che il ministro Goria non aveva affatto in mente una soluzione esterna ed eterogestita ed ancor meno una cessione giudiziale dei beni.
Egli, che voleva davvero, ancorché velleitariamente, rifondare il sistema, cambiando la struttura della Federconsorzi e preservando i consorzi, aveva però costantemente e pubblicamente affermato che, se il suo progetto non avesse trovato l'adesione delle banche, avrebbe fatto ricorso alla liquidazione coatta amministrativa.
Concludendo la sua audizione in Senato, primasopra ricordata, affermava infatti il ministro Goria: "(…) Resta, a questo punto, del tutto evidente che una risposta negativa o anche solo fuori tempo da parte dei creditori (…) testimonierebbe chiaramente la scelta esplicita a favore degli strumenti amministrativi di liquidazione e lascerebbe ai creditori medesimi ogni responsabilità di tale decisione".
Si può ipotizzare che il ministro Goria, quando si rese conto di aver perso la partita, fece prevalere considerazioni politiche e di opportunistica convenienza sulla coerenza.
Dopo aver subìto un grave smacco politico - - il primo (ed unico) "no" delle banche italiane al Governo - la scelta di dar corso ad una immensa liquidazione coatta che lo avrebbe mantenuto sotto il fuoco incrociato delle esigenze occupazionali e di quelle liquidatorie, e che avrebbe fatto apparire ogni giorno sempre più grave la sua disfatta, doveva apparirgli come un'era impresa titanica e forse suicida.
Molto più semplice e pagante sotto il profilo politicamenteo poteva apparirgli trasferire il problema nell'ambito giudiziario: ciò gli avrebbe consentito una dignitosa uscita di scena.
Le valutazioni politiche del presidente del Consiglio Andreotti non potevano essere diverse.
Il commissariamento aveva inferto un gravissimo colpo ad un sistema di potere al quale la sua corrente non partecipava che in minima misura.
Era stata presa una decisione coerente con la politica generale di contenimento della spesa pubblica. Il Governo non aveva alcun interesse ad assumersi il peso della gestione liquidatoria.
La decisione di procedere alla liquidazione coatta amministrativa sarebbe, inoltre, sembrata come una ulteriore dichiarazione di ostilità alla lobby della Coldiretti ma, a differenza di quella concernente il commissariamento, non sarebbe stata giustificabile in termini di assoluta necessità.
La scelta del ministro Goria, tecnicamente fatta passare come una decisione in linea di continuità tra liquidazione volontaria con vendita dei beni e concordato con cessione di beni, che i creditori avrebbero mostrato di gradire ma che in realtà avevano respinto, era del tutto incoerente con i suoi precedenti pubblici proclami, ma soddisfaceva l'esigenza di trasferire ad un organo esterno, il Tribunale di Roma, la gestione della crisi.
Essa non sembrò segnare l'avvio concertato del progetto SGR.
Anzi, in un primo tempo il ministro Goria non si mostrò favorevole all'operazione, esternando pubblicamente forti riserve sulla congruità del prezzo offerto. Di seguito cambiò sicuramente opinione, non sollevando più obiezioni.
Favorevole era invece, a giudizio della Commissione, il senatore Andreotti.
Il ministro Goria si mosse abilmente - è da ritenere sotto la guida del presidente del Consiglio Andreotti - spiegando le vele al vento vincente, tanto che la vicenda Fedit non ne segnò affatto, come avrebbe potuto e dovuto, la fine della carriera politica per inadeguatezza.
L'onorevole Goria fu nominato ministro delle finanze nel successivo Governo Amato - che immediatamente presentò un progetto di ripiano dei debiti pubblici verso la Fedit - e scomparve dalla scena solo quando si dimise perché coinvolto nella vicenda penale riguardante la Cassa di risparmio di Asti.
La Commissione ritiene che anche il commissariamento in precedenza non sia stato affatto concordato con colui – - il professor Capaldo - che doveva, di lì a poco, dare il suo nome all'operazione SGR e che, non a torto, continua a rivendicare di averlo sconsigliato.
Tenuto conto delle modalità con le quali il commissariamento avvenne; un banchiere anche meno provveduto del professor Capaldo, non solo non avrebbe operato violando ogni regola del mondo bancario, che non glielo avrebbe certo perdonato, ma non si sarebbe mai alienato la Coldiretti e quella parte della Democrazia cristiana, la sinistra di base, che l'aveva portato ad essere il più autorevole consulente della Fedit.
Il ministro Goria decise il commissariamento d'intesa con il presidente del Consiglio Andreotti e con il consenso dell'onorevole Forlani e non tramando con il professor Capaldo ma, anzi, contro la Coldiretti - che aveva designato quest'ultimo a presidio della Fedit e che tentò fino all'ultimo di scongiurare il commissariamento o quanto meno di non farlo gestire da altri.
Di fatto, una volta iniziata la procedura concorsuale, il ministro Goria perse un ruolo propositivo nella vicenda.
4. La richiesta di concordato preventivo
La richiesta di ammissione alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni, autorizzata dal Ministro il 3 luglio 1991, fu depositata presso la cancelleria del Tribunale di Roma il 4 luglio 1991.
L'Assemblea dei soci e cioè dei rappresentanti dei consorzi agrari la ratificò il 9 luglio.
Nella richiesta si evidenziavano i limiti ed i costi della struttura della FedrconsorziFederconsorzi e l’irreversibilità della sua crisi.:
"La mancanza di un capitale di rischio adeguato sia da parte della Federconsorzi, sia da parte dei Consorzi, aveva già comportato la necessità di ricorrere costantemente e pesantemente al credito per qualsiasi necessità economica e finanziaria, con conseguente aumento degli oneri da indebitamento. Va tuttavia ricordato che negli anni di prosperità erano stati accumulati margini cospicui, divenuti mezzi patrimoniali della Federconsorzi e da quest’ultima investiti in immobili e partecipazioni.
I risultati operativi dei Consorzi si sono dimostrati in genere largamente inferiori a quelli previsti. (…) E ciò ha comportato la necessità di rilevanti interventi finanziari, da parte della Federconsorzi, sia con lo sconto e il rinnovo massiccio di cambiali agrarie (spesso aventi carattere tipicamente finanziario); sia con interventi straordinari nei casi di dissesto dei Consorzi (acquisto di immobili il cui uso veniva poi ceduto a condizioni vantaggiose; annullamento di crediti, per centinaia di miliardi, negli ultimissimi anni; prestiti a lungo termine a tasso di favore). Sulle società industriali controllate dalla Federconsorzi incidevano invece sia la situazione di crisi e di inefficienza di molti Consorzi; sia (più ultimamente) la crisi della Federconsorzi (che ritardava al massimo i pagamenti delle merci fornite); sia una concezione dell’intero Gruppo che aveva caratteristiche tendenzialmente autarchiche e poco orientate sui valori di mercato.
Le dilazioni di pagamento concesse dal Consorzio agli agricoltori erano maggiori rispetto a quelle riconosciute dai fornitori alla Federconsorzi, con conseguenti ulteriori oneri finanziari per quest’ultima. La quale imponeva poi ai consorzi una intermediazione che a volte era inutile e spesso costosa. (…).
Tale rapida disamina evidenzia gli irreversibili sintomi di impossibilità a far fronte economicamente alle mutate esigenze dei tempi ed alle sfide internazionali che attendono l’agricoltura italiana. Assenza di capitale, onerosità di strutture e sistemi d’intervento che privilegiano "il servizio a scapito dell’economicità" hanno determinato progressivamente, quanto irreversibilmente, il dissesto della Federconsorzi (…).
I Commissari nominati con il Decreto citato, hanno immediatamente constatato che la situazione si era deteriorata rispetto a quanto già riscontrato dal Ministero vigilante. Non solo, infatti, la gestione si svolgeva in condizioni di crescente deficit di conto economico, ma peggiorava di giorno in giorno, essendosi ormai utilizzate, fino all’estremo limite, le possibilità di manovra finanziaria all’interno del Gruppo e nei confronti dei fornitori. In particolare:
- i pagamenti ai fornitori erano da alcuni mesi in situazione di forte ritardo;
- ancora più grave appariva la situazione debitoria nei confronti di taluni importanti Società industriali controllate, fornitrici della Federconsorzi.
Il Commissariamento ha inoltre determinato il blocco completo dei finanziamenti bancari con conseguente situazione di totale illiquidità.
(…) I Commissari hanno sottoposto al Ministro dell’Agricoltura di richiedere al Tribunale di Roma l’ammissione alla procedura di Concordato Preventivo, ottenendo la relativa autorizzazione in data odierna.
Ricorrono infatti tutte le condizioni previste all’articolo 160 della legge fallimentare per l’ammissione a tale procedura che tra l’altro appare la più omogenea rispetto al già operato tentativo di liquidazione volontaria che ha trovato l’adesione di una cospicua pluralità di creditori".
Fin dalla richiesta, si evidenziava un vizio in grave contrasto con la procedura scelta e che dipendeva sia dallo stato della organizzazione tecnico-contabile della Fedit, sia dalla rapidità delle decisioni adottate.
Non si procedette ad una esposizione estimativa delle componenti del patrimonio e dei criteri di valutazione adottati ma solo ad una elencazione analitica dei beni.
5. La questione Agrifactoring ed i suoi riflessi sulla vicenda Federconsorzi
Il tracollo della Fedit comportava la crisi irreversibile anche di una seconda grande debitrice del sistema bancario italiano ed estero: l'Agrifactoring, la società del factoring agricolo di proprietà del gruppo Banca nNazionale del lavoro, del Banco di Santo Spirito e della Federconsorzi, che aveva 10 miliardi di capitale ed un passivo di oltre 1250 miliardi.
La società Agrifactoring spa era stata costituita nel 1982 ed era una società captive partecipata dalla Banca nazionale del lavoro holding al 40 per cento, dalla Fedit al 20 per cento, dal Banco di Santo Spirito al 20 per cento, e per il 20 per cento da altre banche contigue minori, che operava pressoché esclusivamente con la Fedit ed i consorzi agrari.
Il concordato preventivo Agrifactoring fu chiesto in data 15 luglio 1991; il concordato preventivo Fedit fu chiesto qualche giorno prima, in data 4 luglio 1991. Le due richieste sono quindi coeve, interdipendenti ed inscindibili.
Le due banche italiane azioniste dell'Agrifactoring non rischiavano solo la perdita del capitale ma ben di più, perché erano esposte per cifre considerevoli.
Il gruppo Banca Nnazionale del lavoro (Banca Nnazionale del lavoro ed Efibanca) vantava crediti per 329 miliardi circa, mentre il Banco di Santo Spirito vantava crediti per 64 miliardi circa.
Se a tali cifre si sommano i crediti nei confronti della Fedit, l'esposizione totale assomma all'ingente cifra di ben 465 miliardi per la sola Banca Nnazionale del lavoro. Le banche estere chiedevano con veemenza che le due banche italiane si assumessero i debiti, quali azioniste di Agrifactoring, invocando una prassi internazionale secondo la quale le banche garantivano il loro para-bancario.
Non si trattava, in verità, di una pretesa anomala delle sole banche giapponesi, ma di una richiesta del sistema.
Ciò è avvalorato dalle richieste ufficiali rivolte in tal senso all'Abi dalla omologa organizzazione francese (Abe).
Ma la Banca nNazionale del lavoro, la banca del Mministero del tesoro, retto dal dottor Guido Carli, non era ancora uscita del tutto dalla gravissima crisi derivante dallo scandalo di Atlanta, che aveva determinato la sostituzione del presidente Nesi, e non poteva assumersi oneri impropri.
Non intendeva, quindi, come del resto non poteva legittimamente fare neppure il Banco di Santo Spirito, farsi carico dei debiti Agrifactoring e doveva, anzi, tentare di limitare i danni.
A tutto ciò va aggiunto che l'unica aspettativa di soddisfazione dei crediti verso Fedit e verso Agrifactoring era legata alla possibilità ed all'entità del realizzo dei beni della Fedit.
A differenza di quanto accadde per la Fedit, che pur versava nelle medesime condizioni patrimoniali e giuridiche, l'Agrifactoring fu messa in liquidazione in applicazione dell’articolo 2448 codice civile, avendo perduto totalmente il suo capitale sociale.
Il decreto di ammissione fu emesso in data 7 novembre 1991 e depositato in data 12 novembre 1991; la sentenza di omologazione fu pronunciata in data 23 luglio 1992 e depositata in data 3 agosto 1992 e, quindi, prima di quella relativa alla Fedit.
La sentenza recepiva e faceva proprie le deduzioni sulle ragioni della crisi e sulla sussistenza delle condizioni di cosiddetta meritevolezza contenute nel ricorso della società e ribadite dal commissario giudiziale Francesco Giorgianni.
Il decreto di ammissione fu pronunciato da un collegio presieduto dal dottor Greco e composto dai giudici Severini ed Urbani, mentre la sentenza di omologazione fu pronunciata un collegio presieduto dal dottor Greco e composto dai giudici Celotti e De Vitis.
Si tratta, sostanzialmente, dello stesso collegio che omologò il concordato Fedit.
L’Agrifactoring chiese di essere ammessa al concordato, assumendo di essersi trovata in una condizione di grave crisi finanziaria a causa della sospensione, dopo il commissariamento, dei pagamenti da parte della Fedit e di molti consorzi agrari, che costituivano pressoché la totalità dei suoi clienti, e della conseguente revoca o sospensione degli affidamenti e dei crediti da parte delle banche presso le quali si alimentava.
Nella sentenza di omologa si legge ripetutamente che la crisi della Agrifactoring non era prevedibile e che essa fu dovuta esclusivamente alla parimenti imprevedibile crisi della Fedit.
In particolare scriveva l’estensore, dottor Greco: "(…) Passando all’esame della meritevolezza, va detto, richiamando quando già si è accennato in precedenza, che detto requisito esiste certamente in relazione alle cause che hanno provocato il dissesto (articolo 181 n.4 legge fallimentare).
(…) Intervenuta l’imprevedibile crisi della Federconsorzi, l’Agrifactoring fu conseguentemente travolta senza possibilità alcuna di potervi resistere.
(…) Il consistente credito vantato nei confronti della Federconsorzi e l’impossibilità di vederlo soddisfatto, sia nel suo concreto ammontare sia in tempi brevi, trascinò l’Agrifactoring verso una situazione di grave illiquidità (…).
(...) L’insolvenza, dunque, della società ricorrente fu dovuto a fattori imprevedibili ed esterni, di guisa che anche l’assenza di talune cautele, che nei confronti di qualunque altro terzo avrebbero rappresentato strumenti di ovvia precauzione, per la Federconsorzi, ritenuta cliente senza rischio di insolvenza, appare aspetto non imputabile a negligente gestione.
Il requisito, dunque, della meritevolezza, sia considerato in relazione alle cause del dissesto che in relazione alla condotta del debitore, appare sussistente".
L’assunto del Tribunale è così sintetizzabile in linguaggio non tecnico: la società Agrifactoring si trovò imprevedibilmente nell’impossibilità di far fronte ai suoi debiti perché il suo principale debitore, che riteneva sicuramente solvibile, e cioè la Federconsorzi, imprevedibilmente era divenutodivenne insolvente.
Nessun addebito, pertanto, poteva essere mosso agli amministratori della società.
Le valutazioni del Tribunale (e del commissario giudiziale) sembrano tuttavia contrastare con fatti non controvertibili.
L’Agrifactoring era una società prigioniera "captive" di uno dei suoi soci, la Fedit. Gli altri soci erano tutti creditori, in misura crescente da anni , della Fedit.
Essa era presieduta dalla stessa persona, e cioè il ragionier Scotti, che era nel contempo presidente della Fedit e che, quindi, ne conosceva perfettamente le sempre maggiori difficoltà finanziarie.
La crisi della Federconsorzi non era, quindi, affatto imprevedibile per il management della società.
Né essa poteva essere recepita come imprevedibile dal Tribunale ed in particolare dal presidente Greco, officiato della procedura di concordato preventivo della Fedit, tenendo conto che la Fedit era stata commissariata per "persistente – - dunque duratura - condizione di squilibrio finanziario" dal Ministro dell’agricoltura e che, per affermare la sussistenza delle condizioni di meritevolezza concordataria della Fedit, lo stesso Tribunale distingueva le responsabilità degli amministratori precedenti da quella dei commissari e stigmatizzava la gestione finanziaria precedente che, quindi, avrebbe dovuto allarmare gli amministratori della società Agrifactoring e sconsigliare operazioni ad altissimo rischio.
In realtà il semplice esame della progressione dell’indebitamento Fedit nei confronti di Agrifactoring avrebbe consentito di accertare come esso fosse andato aumentando a dismisura oltre ogni limite di ragionevolezza e che la società era stata utilizzata, senza scrupoli, dalla Fedit e dai suoi amministratori come una fonte senza limiti di approvvigionamento finanziario.
Quanto all’insolvenza di molti consorzi agrari, questa non si era manifestata improvvisamente, ma si trascinava da anni ed andava progressivamente aumentando.
Un sempre maggior numero di consorzi veniva commissariato per ragioni economiche e finanziarie.
La crisi del sistema consortile era nota al sistema bancario, agli operatori economici, al mondo politico e formava oggetto di periodici articoli di stampa.
Una minimale diligenza avrebbe dovuto indurre a ben diverse determinazioni gli amministratori di Agrifactoring spa se avessero ispirato la loro condotta, giudicata immune da colpe dal Tribunale, alla tutela di interessi autonomi della società amministrata e non esclusivamente a quelli della società holding.
6. La questione dell'insolvenza della Federconsorzi
Una delle questioni sulle quali la Commissione ritiene di aver raggiunto maggiore chiarezza è costituita dall’accertamento delle reali condizioni economiche e finanziarie della Fedit ed in particolare se essa era, al momento del commissariamento o, al tempo del concordato preventivo, in stato d’insolvenza.
Premesso che l'insolvenza di un’impresa è comunemente definita come l'impossibilità in cui essa si trova di soddisfare le proprie obbligazioni con gli ordinari mezzi di pagamento, si sono registrate varie tesi:
la Fedit non era insolvente all’atto del cCommissariamento e non lo divenne neppure dopo e, quindi, fu ammessa al concordato preventivo senza che ne sussistessero le condizioni.;
la Fedit divenne non insolvente a seguito e/o a causa del commissariamento;
la Fedit era insolvente prima del commissariamento.
La prima tesi è propugnata da chi afferma che la Fedit non doveva essere commissariata per reali ragioni economiche e finanziarie; il commissariamento sarebbe, quindi, stato deciso solo per ragioni politiche: si adombra un cosiddetto "patto scellerato", caro all'onorevole Lobianco.
L'esonero degli amministratori da ogni responsabilità, se non civile e penale, almeno morale, ne dovrebbe costituire, nonostante la sentenza d’omologa del concordato, che conclamò l’accertamento giudiziale dell’insolvenza dell’impresa, importante corollario.
Essa mira ad accentuare le responsabilità politiche del ministro Goria e di parte della Democrazia cCristiana.
L’assunto appare del tutto infondato per molti motivi .che sembrano alla Commissione, inoppugnabili.
Ed invero:
da molti anni gli esercizi della Fedit erano in reale perdita;
solo grazie ad artifici contabili e a vere e proprie falsificazioni si era giunti ad esporre attivi e da ultimo un pareggio;
l'indebitamento con le banche e con Agrifactoring aveva raggiunto livelli non sostenibili;
nell'attivo delle Fedit comparivano poste di migliaia di miliardi di crediti verso i consorzi agrari che venivano esposti al loro valore nominale mentre erano in gran parte privi di valore; la Fedit non aveva disponibilità proprie presso le banche ma operava come intermediaria nella fatturazione dei consorzi; i consorzi, infatti, acquistavano da Fedit che, a sua volta, acquistava dai fornitori; il sistema aveva concorso a far la fortuna della Fedit, che ricavava una rendita parassitaria dall'intermediazione;
esso aveva funzionato fino a quando i consorzi avevano potuto pagare regolarmente;
le difficoltà dei consorzi non si erano infatti scaricate né sui fornitori, che continuavano ad essere pagati da Fedit, né sulle banche, ma sulla Fedit che aveva cominciato a concedere credito sotto varie forme, indebitandosi a sua volta con il sistema bancario, mediante lo sconto di cambiali che assai spesso non venivano pagate alla scadenza;
l'intero sistema dei consorzi era in crisi, aggravata sempre di più dagli stessi vincoli che i legami con Fedit comportavano (sistema fornitori-costi-oneri finanziari);
gli affidamenti di cui godeva la Fedit non erano collegati con operazioni produttive ma semplicemente con operazioni commerciali e, quindi, non rappresentavano costi di investimento ma costi di esercizio;
gli affidamenti non erano sfruttati appieno perché il livello del giro di affari non lo esigeva;
il pieno utilizzo, avrebbe, inoltre, postulato un deciso aumento del fatturato ma avrebbe, nello stesso tempo, non diminuito ma, al contrario, aumentato l'indebitamento finanziario;
nella gestione della Fedit dell'anno 1990 si colgono segni di minore progressione ma non di riduzione dell'indebitamento;
del resto non poteva essere altrimenti perché nulla era cambiato; non era stato possibile neppure vendere cespiti non strategici, per acquisire liquidità;.
per proseguire la gestione, la Fedit non poteva che continuare ad alimentarsi del credito bancario che sarebbe inevitabilmente aumentato;
essa aveva tanta necessità di nuovi finanziamenti da negoziare proprio nei giorni che precedettero il commissariamento un prestito di ben 250 miliardi con il Credito Italiano;
t uttavia nessuna banca avrebbe fatto mancare nell’immediato il credito; la Fedit non aveva sospeso i pagamenti e nessuno dei fornitori aveva sospeso le forniture.
Si può quindi affermare, con ragionevole tranquillità, che la Fedit era, agli inizi dell’anno 1991, in una condizione d’irreversibile e grave dissesto ben noto agli amministratori.
L’insolvenza non si era ancora manifestata ad alcun creditore o fornitore, ma ciò era dovuto, come si è rilevato, al credito bancario che non faceva che aumentare il passivo non pioù sostenibile.
In sostanza i crediti ricevuti non erano rimborsabili, se non a prezzo d’ulteriori e crediti miliardari .
Ben presto la Federconsorzi, senza soccorsi straordinari, non sarebbe stata più in grado di operare.
All'atto del commissariamento, la Fedit non era, dunque, in uno stato di ma iin una condizione di grave dissesto, tanto contiguo all’insolvenza da confondersi con l’insolvenza stessa.
Il commissariamento rese pubblico ciò che era conosciuto da pochi; la sospensione degli affidamenti e l'interruzione del circuito delle forniture rese insostenibile, nell'immediato, la situazione economica e finanziaria; mancarono persino i mezzi per pagare gli stipendi.
Si determinò una condizione di conclamata ed evidente insolvenza.
È noto alla Commissione che sul tema dell’insolvenza si è pronunciato il Tribunale penale di Roma e, che di tale decisione hanno mostrato di volersi avvalere alcuni amministratori per esimersi da responsabilità per il dissesto.
Si tratta della sentenza depositata il 14 settembre 1998 e passata in giudicato, emessa dalla VI sezione penale il 16 giugno 1998 nei confronti dei dottori Pellizzoni, Bambara, Lorenti, Dodi, Botti, Ilari, Franzero, Corso e Simon.
Il Tribunale era chiamato a stabilire se la restituzione da parte della Fedit di somme rilevanti al Credito Italiano, lo stesso giorno del commissariamento, costituisse un pagamento preferenziale e dunque una bancarotta.
I presupposti dell’imputazione erano costituiti dall’esistenza di una condizione di insolvenza e dalla riconoscibilità della stessa.
Va considerato che, come emerge dalla lettura del documento giudiziario, ciò che importava principalmente, al Tribunale stabilire non era stabilire se sussisteva uno stato di insolvenza, o ma se questa fosse riconoscibile e se quindi la bBanca avesse ricevuto la restituzione di quanto pur dovutole, in quanto consapevole dalle reali condizioni della Fedit e, quindi, in violazione virtuale della "par condicio" tra i creditori concorsuali.
Tanto vale ad assegnare alla sentenza la sua reale portata.
Uno dei capisaldi della decisione è, ad ogni modo, costituito dal seguente argomento: il decreto di commissariamento fa riferimento ad uno stato di squilibrio economico e finanziario e non d’insolvenza e la finalità del commissariamento fu il riequilibrio dell'impresa, considerata, pertanto, vitale.
Si deve in proposito osservare che, a prescindere dalla difficoltà ontologica di commissariare un’impresa affermandone l'insolvenza, dichiarazione che avrebbe comportato automaticamente la liquidazione coatta o la richiesta di fallimento, il reale e gravissimo squilibrio economico e finanziario della Fedit non era per niente transitorio o curabile con mezzi normali.
Il ministro Goria, lo stesso giorno in cui rese pubblico il commissariamento, circostanza che il Tribunale sembra aver trascurato del tutto, presentò effettivamente un progetto di risanamento, ma esso, non mirava a risanare la Fedit ma a crearne una nuova.
Si trattava di un riconoscimento del dissesto così chiaro che nessuno si fece illusioni in merito.
Il decreto inoltre si basava sulla constatazione, ad opera del consulente del Ministro, professor Dezzani, degli artifici contabili - che sembrerebbero dei veri e propri falsi - che avevano portato ad esporre un bilancio in pareggio occultando pesanti perdite.
In nota :Il prof. Dezzani dichiarò al P.M. di Perugia il 7 marzo 1996:
"Conoscevo il Ministro Goria da anni e penso che per questo mi pregò di aiutarlo ad interpretare i bilanci della Fedit nel periodo 1989-90, bilanci formalmente in pareggio;(n.d.r. in realtà il primo denunciava un lieve attivo) ma già da una prima lettura vi erano indicazioni di forti perdite .Confermai anch’io che le impressioni di Goria erano giuste e stimai le perdite del 1989 in 400 miliardi circa ed quelle del 1990 in circa 500 miliardi.
L’indebitamento Fedit verso le banche a fine 90 lo desunsi dai documenti di provenienza Fedit in 3.150 miliardi circa .Vi erano poi debiti verso i fornitori per oltre 1.000 miliardi nel 1989 e 860 miliardi nel 1990. Vi erano poi i debiti dei Cap per oltre 2.000 miliardi verso le banche e i debiti delle società controllate da Fedit ammontavano a circa 500 miliardi.
Il dato aggregato del sistema consortile a fine 1990 era di una esposizione verso le banche di circa 6.000 miliardi……So per certo che lui si esprimeva comunque nel senso che l’attivo della Fedit raggiungesse almeno il 60-70% di tutti i debiti Fedit".
Il bilancio in pareggio era il frutto di una dissimulazione delle reali condizioni. Per questo motivo, alla pubblicazione del bilancio che non seguì alcuna iniziativa delle banche creditrici che sarebbe stata del tutto ingiustificata.
Altro argomento di rilievo per il Tribunale - che doveva giudicare proprio se la stessa banca aveva goduto di un rimborso preferenziale illecito - è la decisione del Credito Italiano di concedere un finanziamento d’altri 250 miliardi alla Fedit proprio nell'imminenza del commissariamento ad attestazione che non v’erano timori.
L'assunto trascura un dato significativo: per la prima volta una banca chiese una garanzia, un pegno, prima sulle azioni della Banca nazionale dell'agricoltura in portafoglio Fedit e poi sui crediti della Fedit verso il MAF, e, quindi una garanzia non solo seria ma anche idonea a costituire privilegio in caso di fallimento.
Dunque, in realtà il Credito Italiano intendeva premuniresi adeguatamente.
È vero invece che ben pochi tra i creditori, anche del ceto bancario, si attendevano, che la Fedit potesse essere commissariata.
Va rimarcata un’ultima valutazione del Tribunale: il decreto di commissariamento non provocò lo stato d’insolvenza;
furono le banche che avevano concesso i crediti per fiducia politica a tornare sui loro passi quando essa venne meno.
A ciò va decisivamente opposto che le banche si trovarono di fronte ad un commissariamento per squilibrio economico e finanziario che imponeva, se non altro per doverosa prudenza, un’immediata autotutela.
Non vi fu per nulla il ritiro di un affidamento politico ma una reazione tecnica alla gravità della situazione rappresentata nel provvedimento del Ministro, che segnalava la rischiosità dei crediti già maturati e ne sconsigliava di futuri.
La sospensione degli affidamenti, da parte del sistema bancario, determinò una condizione d’immediata illiquidità ma prevenne la formazione di un più grave passivo.
L’impresa era, al momento del commissariamento, in quello stato che taluni ritengono sovrapponibile all’insolvenza, altri di minore contenuto, costituito dal "dissesto".
Ma, se la Fedit era in stato di dissesto non poteva legittimamente continuare a ricorrere al credito, a pena delle sanzioni penali previste dall'articolo 218 della legge fallimentare che proibisce il ricorso abusivo al credito dissimulando il dissesto.
E, se non poteva continuare a ricorrere al credito, non poteva sopravvivere.
7. L’operato dei primi cCommissari governativi
I tre Ccommissari governativi nominati dal ministro Goria erano, almeno in parte, espressione della lottizzazione politica che caratterizzava il cosiddetto Governo del CAF.
Il dottor Pompeo Locatelli era un commercialista milanese, molto vicino all'area socialista, che non risulta si fosse mai occupato in precedenza di agricoltura e consorzi agrari.
Il professor Agostino Gambino era un tecnico di area democristiana, che poteva vantare una conoscenza delle problematiche della gestione della Federconsorzi per conto della quale aveva espresso un parere scritto sulla possibilità di sistemare i crediti che essa aveva nei confronti dei consorzi agrari.
Il suo nome compare in un verbale del cComitato esecutivo della Fedit in epoca anteriore al commissariamento come quello di un "consulente" della Fedit.
Il dottor Giorgio Cigliana era lontano dal mondo federconsortile, aveva avuto importanti esperienze bancarie e fu nominato per la fiducia che in lui riponeva il ministro Goria.
Essi rimasero in carica dal 17 maggio 1991 al 9 giugno 1992, quando rassegnarono le dimissioni.
Investiti del mandato, essi si trovarono ad affrontare la complessa situazione descritta nei paragrafi precedenti quali esecutori della volontà politica del ministro Goria, il quale stava giocando una partita importante per il rilancio della sua carriera politica, che aveva già raggiunto il vertice della Ppresidenza del Consiglio per segnare poi un notevole declino.
L’onere principale dell’incarico fu ben presto assunto dal dottor Cigliana che ha lasciato copiosa documentazione del suo operato, anche in appunti rinvenuti presso la sede della Federconsorzi dal commissario governativo Lettera, e da questi consegnati alla magistratura di Perugia, nonché in agende esibite a questa Commissione.
Dal complesso delle annotazioni del dottor Cigliana si evince che i tre commissari non costituivano – - ma non poteva essere diversamente – - una squadra affiatata protesa a raggiungere un unico scopo.
Il prof.essor Gambino puntava risolutamente alla liquidazione coatta amministrativa.
Il dottor Cigliana sembra essersi sempre ispirato ad una linea di dignità tecnica e di fedeltà istituzionale senza una propria ed originale progettualità.
Nessuno dei commissari concorse a suggerire il commissariamento e il ricorso al concordato preventivo.
Anzi il dottor Gambino era "furibondo"
In nota: come si legge nel diario del dott.Cigliana
quando apprese che il ministro Goria non intendeva far seguire al provvedimento amministrativo del commissariamento quello della liquidazione coatta, che avrebbe visto i tre commissari nella nuova e diversa veste di liquidatori ed aperto spazi gestionali che sembravano molto suggestivi al dottor Locatelli.
Dei tre commissari il dottor Cigliana ed il professor Gambino non ebbero alcun rapporto con il professor Capaldo ed il suo piano.
Sembra , invece che il dott.or Locatelli In nota : come si legge nel diario del dott.Cigliana dapprima elaborò nel febbraio 1992 ( e, quindi, due mesi prima della ufficializzazione della proposta Capaldo) un proprio progetto che prevedeva l’acquisto di tutti di beni da parte di un gruppo di creditori sottoponendolo al ministro Goria ed interessando anche un "M. Casella" che sembra di poter identificare nell’avvocato prof.essor Micheleario Casella che sarebbe stato di lì a poco l’ideatore e l’esecutore tecnico del Ppiano Capaldo.
Successivamente, sempre secondo la stessa fonte, il dott.or Locatelli avrebbe rinunciato ad una autonoma iniziativa, dopo iniziali approcci con il prof.essor Capaldo che lo avrebbe ben presto estromesso.
Non sembra, comunque, alla Commissione che possano muoversi addebiti di rilevo alla gestione commissariale.
Il fallimento dei progetti del ministro Goria non è imputabile ai commissari.
I tre commissari si dimisero sia perché ritennero esaurito il loro compito sia perché il Ministro che li aveva officiati si apprestava a lasciare il ministero dell’Aagricoltura. Inoltre, la gestione del concordato preventivo, per la parte relativa alle responsabilità governative, non poteva più vederli come protagonisti, perché il Piano Capaldo , come si è visto, non li riguardava .
Scriveva il dottor Cigliana il 25 settembre 1997 all'Ispettorato del Ministero di grazia e giustizia a seguito di un esposto presentato contro l'avvocato Lettera: "fu proprio la sgradevole sensazione che qualche trattativa fosse in corso all'insaputa dei tre commissari ad indurre costoro a presentare le dimissioni il 27 maggio nella prospettiva anche di un imminente cambio di Governo che li avrebbe privati del riferimento al Ministro che li aveva chiamati".
Come si è visto in realtà i commissari, o quanto meno il dott.or Cigliana ed il dott.or Locatelli, sapevano che era in corso di elaborazione un intervento; in data 23 marzo 1992, e quindi in data anteriore di circa un mese alla pubblicizzazione dell’offerta, il dottor Cigliana annotò:
"Dda Picardi .(il commissario giudiziale; n.d.r.) Capaldo è stato da Greco (il presidente del Tribunale fallimentare n.d.r.) e da lui: Ggli hanno detto di rivolgersi a noi (ma non lo farà certo con me!)".
E’, quindi, opinione della Commissione che i tre Ccommissari si dimisero perché si resero conto di non aver più prospettive operative perchéin quanto l’iniziativa era nelle mani di altri soggetti - i quali, che li avevano scavalcati e che non intendevano avvalersi di loro - e che non era prevedibile nessun loro ruolo attivo, in difformità dalle aspirazioni da essi dichiarate, neppure nel prosieguo della procedura fallimentare.
In nota ibidem; la circostanza è stata altresì confermata dal dott. Greco nel corso della sua audizione
8. Il ruolo delle banche estere
Premesso che il debito complessivo dell’Agrifactoring ammontava a 1.216 miliardi e che di questi ben 429 miliardi rappresentavano il debito nei confronti di tre sole banche italiane (Banca Nnazionale del lavoro, Efibanca, Banco di Santo Spirito, - poi confluito nella Banca di Roma), per comprendere il meccanismo della tacitazione delle banche estere ed il collegamento con il Piano Capaldo occorre considerare la concatenazione della debitoria Fedit-Agrifactoring (cfr. schema che segue).
Agrifactoring non aveva nessun bene di valore apprezzabile, ma solo crediti. Il debitore principale era la Fedit. Quindi solo i beni della Fedit potevano soddisfare i creditori di Agrifactoring e di Fedit.
A tal fine era indispensabile che entrambi i concordati ricevessero l'approvazione dei creditori, e delle banche estere creditrici, in particolare, e del Tribunale di Roma.
Alla fine del 1991 fu elaborata, ad iniziativa apparente della Banca Nnazionale del lavoro, una proposta tecnica per consentire l'approvazione del concordato Agrifactoring e, nello stesso tempo, fu dato mandato dal professor Capaldo allo studio Casella di Milano di dar corso concreto al suo progetto.
Era infatti prossima una scadenza fondamentale per le sorti di Fedit e di Agrifactoring.
A distanza di qualche giorno l'una dall'altra erano state fissate, nel mese di gennaio 1992, le due udienze, dinanzi al tribunale fallimentare e, più concretamente, dinanzi allo stesso giudice Greco che era delegato a seguire entrambe le procedure, nel corso delle quali i creditori avrebbero votato per esprimere il loro consenso o meno al concordato.
Ebbene, con atto deli data 20 febbraio 1992, denominato tecnicamente postergazione, le tre banche principali creditrici di Agrifactoring rinunciarono ad essere soddisfatte dei loro crediti mediante divisione paritaria del ricavato del concordato, in favore delle banche estere.
Le banche italiane azioniste di Agrifactoring,N cui si unirono successivamente le altre banche italiane creditrici della Federconsorzi, conferirono ai creditori stranieri il diritto di rivalersi con priorità sul ricavato del concordato Fedit e, quindi, concessero loro di poter contare sul rientro totale dei loro crediti verso Agrifactoring, attraverso quella parte del ricavato delle vendite dei beni Fedit che si stimava sarebbe spettato ad Agrifactoring, previsto in tale quantità da assicurare il pagamento totale dei creditori esteri resi privilegiati.
Per effetto della loro rinuncia, le banche italiane poterono soddisfare i loro crediti solo su quanto rimasto, dopo aver pagato i creditori stranieri.
Senza la postergazionedi essa, le tre banche creditrici di Agrifactoring avevanoavrebbero nutrito la ragionevole l’aspettativa di ottenere almeno il 40 per cento di 429 miliardi e cioè 171,6 miliardi.
Si trattava di una promessa di soddisfacimento totale che comportava per esse il cospicuo sacrificio della perdita di capitali e crediti.
Le banche estere, che non trovavano l'ascolto desiderato né presso il Governo italiano, né presso la Banca d'Italia né presso l'ABI, si indussero ad accettare la proposta che presentava indubbi vantaggi e votarono favorevolmente in entrambe le procedure, pur mantenendo una posizione di vigilanza armata.
Fu così che si rese possibile l'approvazione dei due progetti di concordato da parte delle maggioranza dei creditori, senza opposizioni significative ed imbarazzanti. Tuttavia era una aspettativa di pagamento che aveva bisogno, per inverarsi, della conclusione positiva di entrambe le procedure e della vendita in tempi rapidi dei beni Fedit.
A tanto provvedeva lo schema generale del progetto del professor Capaldo elaborato dall'avvocato Casella. (cfr. infra)
Nel maggio 1992 fu ufficializzata la proposta di acquisto di tutti i beni della Fedit a nome di una costituenda società per la somma di lire 2.150 miliardi.
L'omologazione del concordato Agrifactoring avvenne senza difficoltà nel luglio 1992.
In virtù e per effetto del beneficio ricevuto nella procedura Agrifactoring, le banche straniere non si opposero alla vendita in massa dei beni Fedit alla SGR.
Sul versante dei crediti vantati da Agrifactoring, si verificò invece una sconcertante anomalia.
La società vantava nei confronti della Fedit 826 miliardi di crediti. Essi furono fatti valere tutti nella procedura Fedit come crediti ordinari, chirografari nel linguaggio giuridico.
Invece essi, quasi per la totalità, secondo una prospettazione fatta valere giudizialmente dalla stessa Agrifactoring, sarebbero stati in realtà assistiti da privilegio. Si trattò di un errore ?
Non è possibile dare un risposta certa all'interrogativo.
Infatti il Tribunale fallimentare di Roma, con sentenza definitiva, ha escluso la rilevanza pratica della questione, per motivi tecnici propri della procedura di concordato e non ha deciso sul merito.
Schema dei rapporti Agrifactoring-Fedit-Cap
BANCHE ESTERE Clienti 189 md.
BNL
Bnl (Holding)
Efibanca Agricoltori 386 md.
230
244 Controllate 294 md.
346 Altri 805 md.
(crediti)
al 30/11/91
900
Agrifactoring Fedit Cap
Capitale 10 md. Capitale 4,5 ml. 2220 md. (crediti)
20%
50%
BANCHE TOT FORNITORI PASSIVO TOTALE
3011 837 5088: 4410chirografari
3011+ 275 privilegiati
837 403 in prededuzione
3848 su tot 4410
9. Una risposta al commissariamento: il progetto So.con.agri.
In risposta al commissariamento della Fedit ed al tentativo di lanciare una Fedit 2, pochi giorni dopo la presentazione della richiesta di ammissione al concordato preventivo, Coldiretti e Confagricoltura concretizzarono un loro progetto alternativo che si tradusse nella promozione di un'altra società che fosse sotto il loro totale controllo.
Il 9 luglio 1991, infatti, i consorzi di Ravenna, Benevento e Treviso/Belluno, acquisirono il capitale di una società, la New Door, e costituirono la So.con.agri. srl Aderirono alla società 37 consorzi agrari, di cui 21 in gestione ordinaria, 6 commissariati, 3 in amministrazione controllata e 7 in liquidazione coatta. Le funzioni di presidente provvisorio furono affidate al dottor Libero Iannella del consorzio di Benevento.
Quanto alla presidenza definitiva si era fatto il nome di un personaggio di prestigio del mondo agricolo, il senatore Alfredo Diana.
Il tentativo di clonazione della Fedit con la stessa impostazione e con le stesse referenze era sicuramente anacronistico e velleitaria l'idea di realizzare l'attività di coordinamento e sostegno dei consorzi agrari con una società con un capitale sociale di trecento milioni, che erano tanti rispetto al capitale della Fedit, che era di solo 4,65 milioni, ma pochissimi rispetto ai fini annunciati.
La So.con.agri. incarnava, pertanto, un messaggio politico di vitalità della Coldiretti piuttosto che un vero progetto operativo.
Insieme con il progetto So.con.agri. fu elaborato un progetto finanziario denominato Fiordaliso, con il compito di rastrellare capitali tra gli agricoltori, oltre che dalle banche e da altri privati.
Le due società, So.con.agri. e Fiordaliso, essendo complementari tra loro dovevano essere presiedute dalla stessa persona.
Riferisce l'onorevole Lobianco alla Commissione, nel corso dell'audizione del 1° febbraio 2000: "Per quanto riguarda il progetto So.con.agri., noi riunimmo i nostri presidenti dei consorzi agrari e quelli della Confagricoltura per poterli assistere, perché in quella situazione si parlava di Agrisviluppo, e non c'era più coordinamento.
Allora si pensò di fare una società in cui entrassero i consorzi agrari disposti al coordinamento per poterli assistere, sia nelle vicende del concordato, sia successivamente nei rapporti con i commissari per continuare l'azione di assistenza. Questo progetto So.con.agri. è andato molto lento; ultimamente ho letto che la società è stata sciolta".
Il progetto So.con.agri non si è mai attuato.
Esso costituisce testimonianza della dura opposizione delle associazioni di categoria alle idee del ministro Goria e della loro persistente e perseverante volontà monopolistica.