Chi non sa quanto puote
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Ben si somiglia in parte | Ripigliate, augelletti | ► |
XII
LA CANTATRICE
A Settimia, figliuola di Giulio Romano
Chi non sa quanto puote
l’umano canto in noi
colle vezzose note
de’ bei numeri suoi,
overo il canto angelico non crede,
venga ad udir costei, che ne fa fede.
Ella, mentre, sedendo,
va co’ taciti avori
di sue dita scorrendo
gli altri avori sonori,
canta in tal guisa e cosí dolcemente,
che per l’orecchie i cor fura alla gente.
Or volanti passaggi,
or affetti e sospiri,
ora fughe e viaggi,
or riposi e rispiri,
ora suole alternar dolci durezze,
ora suole intrecciar dure dolcezze.
Quando schiude un accento
tremolante e soave,
quando move un concento
armonioso e grave,
quand’alto forma il canto e quando basso,
quando vivace il fa, quando il fa lasso.
E, quasi un rio corrente,
qui mormorar appena,
lá gemer altamente
tu l’odi in nota piena;
qui gir quïeta e placida l’ammiri
lá gorgogliar con tortuosi giri.
Né nuda spada in mano
di snello schermidore
girò mai per lo vano
con sí presto splendore,
e sí ratta e sí lieve e sí veloce
quanto la bella e delicata voce.
Anz’ella, a chi sentendo
ne sta l’alta dolcezza,
non giá una parendo,
ma tre per la prestezza,
fa all’orecchie talor l’istesso inganno
che le lingue de’ serpi agli occhi fanno.
Or quando mai piú vanto
si diede alcun d’udire
nel paradiso il canto
senza prima morire,
com’oggi avvien a noi, mentre ch’udiamo
questo spirto celeste e vivi siamo?
O nel velo mortale
angelo dimorante,
se ’n ciel si canta tale
qual in terra tu cante,
io qui, perché lassú ne possa girmi,
voglio veracemente or or morirmi.
E s’ancor non è giunto
alla fragil mia vita
il destinato punto
della mortal partita,
far vo’ sí sante gesta e sí giust’opre,
ch’io merti, poi che moia, andar lá sopre.
Ché, chi ben mira il vero,
tu stata esser non puoi
senza divin mistero
qua giú mandata a noi;
ma a ciò ch’alzando a Dio l’umano zelo,
facci la terra innamorar del cielo.