Che cosa è l'arte?/I
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Capitolo Primo.
Il problema dell’arte.
Per produrre il menomo ballo, opera seria o buffa, quadro, sonata o romanzo, migliaia di persone sono costrette ad un lavoro spesso umiliante e penoso. Il male non sarebbe tanto grande se gli artisti compiessero essi stessi la somma di lavoro richiesta dalle loro opere; mentre invece occorre loro la prestazione d’innumerevoli operai. La quale prestazione essi ottengono in uno od altro modo, ora sotto forma di contribuzione offerta dai ricchi, ora di sovvenzione dello Stato; e in quest’ultimo caso il denaro proviene dal popolo, costretto in gran parte a privarsi del bisognevole per pagare i balzelli, senza potere poi partecipare ai godimenti dell’arte. Il fatto parrebbe naturale, trattandosi d’un artista greco o romano, oppur anche d’un artista russo della prima metà del nostro secolo, quando cioè v’erano ancora degli schiavi; poichè costoro potevano credersi in diritto di farsi servire dal popolo. Ma ora che tutti gli uomini hanno, se non altro, un vago sentore dell’uguaglianza nei diritti, non si può più ammettere che il popolo lavori a contraggenio per vantaggio dell’arte, se prima non si riesca a mettere in sodo fino a qual segno l’arte sia utile e importante, si da compensare largamente i mali di cui è cagione.
Quindi in una società cultrice delle arti fa d’uopo ricercare se si possa veramente chiamare arte tutto ciò che si crede esser tale, e se, giusta il presupposto che vige nella nostra società, tutto ciò che rientra nell’arte sia buono per questo solo fatto, e degno dei sacrifizi che per essa si richiedono. Del resto codesta questione deve premere anche agli artisti, trattandosi per loro di sapere se ciò che fanno abbia veramente tutta l’importanza che si crede, e se non rimangono nella falsa convinzione di lavorare utilmente solo per i pregiudizi della chiesuola in cui vivono, e se d’altro lato quanto prendono agli altri per i bisogni dell’arte e della loro vita individuale, trovi qualche compenso nel valore dei loro prodotti. Che cos’è adunque l'arte, questa entità ritenuta così preziosa e indispensabile per il genere umano?
“Bella domanda! L’arte è l’architettura, la scultura, la pittura, la musica, e la poesia in tutte le loro forme.„
Così risponderanno senza dubbio i profani, gli amatori d’arte, e gli artisti stessi, tutti ben persuasi che l’oggetto della loro risposta sia chiarissimo e inteso da tutti a un modo. E allora noi domanderemo; rispetto all’architettura, ci sono o non ci sono degli edifizi, che non contano come opere d’arte, ed altri ancora, che con tutte le loro pretensioni artistiche, sono brutti e sgradevoli a vedersi, e perciò non si possono considerare come opere artistiche? E non si può dire lo stesso della scultura, della musica, della poesia? In tal caso in che cosa risiede la nota caratteristica d’un’opera, d’arte? L’arte in tutte le sue forme da una parte è limitata dall’utilità pratica, dall’altra dal brutto, dall’incapacità a produrre l’arte. Ma come la potremo distinguere da questi due termini che la limitano? Per quest’altro quesito le semplici persone cosidette colte, e l’artista medesimo, supposto che non sia infarinato d’estetica, crederanno d’aver pronta la risposta, e che sia già trovata da un pezzo, e ovvia ad ognuno. “L’arte, vi diranno, è l’attività che produce il bello„.
Ma se l’arte, chiederete, consiste in questo, un ballo, oppure un’operetta saranno prodotti artistici? E le persone colte e l’artista torneranno a rispondervi, sebbene con qualche esitazione: “Sì, un buon ballo, una graziosa operetta, in quanto siano una manifestazione del bello appartengono all’arte„.
Se vorrete poi sapere dai vostri interlocutori in che cosa si distinguono dai loro contrari un buon ballo, una graziosa operetta, non troveranno facilmente la risposta. E a chi domandasse loro, se l’opera dei disegnatori di costumi e dei parrucchieri, così importanti per i balli e per le operette, quella dei sarti, dei profumieri, dei cuochi sia da considerare come opera d’arte, probabilmente risponderebbero di no. Ma qui s’ingannerebbero, appunto perchè sono della gente solita, e non specialisti, non esperti nelle questioni estetiche. Se avessero messo il naso in tali questioni avrebbero letto, per esempio, nell’opera del grande Renan, Marc Aurèle, una dissertazione che prova l’opera del sarto essere un’opera d’arte, e che coloro i quali non ritengono le acconciature femminili essere la più alta manifestazione artistica, sono esseri inintelligenti e spiriti volgari. “Quella è la grande arte„ afferma il Renan. I vostri interlocutori dovrebbero puranco sapere che nella maggior parte dei moderni sistemi estetici gli abiti, i profumi, la gastronomia sono considerate come arti speciali. Così particolarmente la pensa il dotto professore Kralik, nella sua Beauté Universelle, essai d’une esthétique générale; tale è il parere del Guyau nei suoi Problèmes de l’esthétique contemporaine.
“Esiste, dice il Kralik, un pentacolo delle arti fondato sui cinque sensi dell’uomo„; e perciò distingue le arti che si riferiscono al gusto, all’odorato, al tatto, all’udito, alla vista.
Della prima di codeste arti egli discorre così: “Ci siamo troppo avvezzi a non voler riconoscere se non per due o tre sensi il privilegio di fornire il materiale all’arte. Ma non si vorrà negare che, quando l’opera del cuoco riesce a trasformare per l’uomo il cadavere d’un animale in una fonte di svariati piaceri, ci troviamo dinanzi a una vera produzione estetica„.
La stessa opinione ricorre nell’opera citata del francese Guyau che molti tra gli scrittori più recenti onorano d’una stima eccezionale. Esso parla con tutta serietà del tatto, del gusto, e dell’olfatto, come di sensi idonei a somministrarci delle impressioni estetiche. “Se il tatto, egli dice, è estraneo alla sensazione del colore, ci fornisce in cambio una nozione, a cui non basta l’occhio di per sè stesso, e che non è di piccola importanza estetica, la nozione cioè del fino, del morbido, del liscio. La bellezza del velluto riceve la sua impronta, oltrechè dal suo aspetto brillante, anche dalla sua morbidezza. Nel concetto che ci formiamo della bellezza femminile entra come elemento essenziale anche la finezza della pelle. Tutti probabilmente, a pensarci alquanto, ricorderanno soddisfazioni tali del palato da potersi chiamare veri godimenti estetici„. E qui l’autore, in via d’esempio, racconta d’una tazza di latte bevuta in montagna, che gli procurò un vero godimento estetico.
Da tutto, ciò si ricava che il concetto dell’arte considerata come la manifestazione del bello, non è tanto semplice quanto si crederebbe a prima vista. Ma la gente solita o ignora codeste questioni, o vi si ribella, e persiste nella persuasione che tutti i problemi concernenti l’arte si risolvano nettamente col riconoscere che la bellezza è l’oggetto dell’arte.
Trova cosa pienamente intelligibile e lampante, che la funzione dell’arte sia quella di manifestare la bellezza. La bellezza le pare sufficiente a risolvere tutte le questioni relative all’arte.
Ma che cos’è poi codesto bello che è oggetto dell’arte? Come lo si può definire? In che cosa consiste?
Secondo il solito, quanto più le idee che una parola ci suggerisce riescono nebulose e confuse, la parola stessa è adoperata con tanta maggiore sicumera, e si sostiene che il senso ne è troppo semplice e troppo chiaro, perchè valga la pena di determinarlo meglio. È la solita magagna delle questioni religiose; e si riscontra altresì in codesto concetto della bellezza. Si crede accordato che tutti sappiano e intendano il significato della parola bellezza. Ora la verità è questa; non solo è falso che tutti lo intendano, ma per di più, sebbene negli ultimi centocinquant’anni (dopochè Baumgarten ebbe fondato l’estetica nel 1750) dai pensatori più dotti e più profondi si siano scritti monti di libri intorno a questo argomento, resta pur sempre insoluto il quesito che verte intorno all’essenza del bello, e ogni nuova trattazione d’estetica vi risponde in modo diverso. Una delle ultime scritture lette da me in proposito è un libriccino tedesco di Giulio Mithalter, intitolato l’Enigma del bello. E codesto titolo esprime egregiamente la vera posizione del problema. Dopo che migliaia di dotti si sono scervellati per centocinquant’anni intorno al senso della parola bellezza, codesto senso rimane sempre enigmatico. I tedeschi lo definiscono a loro modo in cento guise differenti. La scuola fisiologica a cui appartengono gl’inglesi Spencer, Grant Allen e altri, risponde a suo modo; lo stesso vale per gli eclettici francesi, e il Taine, e il Guyau, e i loro successori; e tutti costoro trovano, esaminandole, insufficienti tutte le definizioni già date dal Baumgarten, dal Kant, dallo Schiller, dal Fichte, dal Winckelmann, dal Lessing, dall’Hegel, dallo Schopenauer, dall’Hartmann, dal Cousin, e da mille altri.
Ora, che sarà mai codesta singolare nozione del bello, che sembra tanto ovvia a quelli che ne parlano a caso, ma da centocinquant’anni a questa parte è refrattaria a tutte le definizioni; la qual cosa tuttavia non trattiene gli estetici dal fondare su quella nozione tutte le loro dottrine intorno all’arte?
Nel nostro russo, la parola krasota (bellezza) significa semplicemente ciò che piace alla vista. E sebbene da qualche tempo ci si parli anche in russo d’una “brutta azione„ o d’una “bella musica„, si offende con quelle frasi la proprietà della nostra lingua. Un popolano russo, ignaro delle lingue straniere, se gli direte che un uomo, che regala tutto il suo, ha fatto una “bella„ azione, oppure che una certa canzone costituisce della “bella„ musica, non vi capirà affatto. Nella lingua russa un’azione può essere buona e caritatevole, oppur malvagia e cattiva. La musica può essere gradevole e buona, oppure spiacevole e cattiva. Ma i russi non sanno che cosa sia una “bella„ azione o una “bella„ musica. L’aggettivo “bello„ può solo riferirsi a un uomo, a un cavallo, a una casa, a un luogo, a un moto. Quindi la parola e la nozione del “buono„ per noi, in un certo ordine di cose, implicano la nozione del “bello„ mentre quest’ultima nozione non implica necessariamente il concetto del “buono„. Allorchè d’un oggetto tenuto in pregio per la sua apparenza visibile diciamo che è “buono„, intendiamo dire che quest’oggetto è “bello„: se invece lo affermiamo “bello„, non ne deriva di necessità che lo crediamo “buono„.
Nelle altre lingue d’Europa, appartenenti cioè alle nazioni tra le quali prese piede la dottrina che considera la bellezza come la cosa essenziale in arte, le parole “beau„, “schön„, “beautiful„, “bello„, ecc., pur conservando il loro senso originario, vennero altresì a esprimere la bontà, potendo così sostituire la parola “buono„. Oramai in siffatte lingue sono correnti e naturali le espressioni di questo genere; “bell’anima„, “bel pensiero„, “bell’azione„. Siffatte lingue sono giunte al segno di non posseder più alcun vocabolo proprio per designare la bellezza della forma; quindi a quell’uopo ricorrono a combinazioni di parole, quali sarebbero “beau de forme„, “beau à voir„, ecc.
Ma, dunque, che cos’è precisamente codesta “bellezza„, che muta senso a seconda dei popoli e dei tempi?
Per rispondere a questa domanda, per determinare che cosa intendano oggidì per “bellezza„ le nazioni Europee, dovrò addurre almeno un piccolo saggio delle definizioni più largamente accettate nei sistemi estetici moderni. Ma innanzi tratto mi fa d’uopo scongiurare il lettore di non infastidirsi troppo della noia che risulterà dalle citazioni, e di rassegnarsi a leggerle, o, meglio, a leggere alcuno degli autori, dei quali andrò citando i passi opportuni. Per non discorrere che di opere semplici e spicciative, si prendano, per esempio, il libro tedesco del Kralik, quello inglese del Knight, o quello francese del Lévéque. È indispensabile aver letto un trattato d’estetica per formarsi un concetto della divergenza d’opinioni e dell’oscurità spaventosa tuttora dominante in questo ramo del sapere filosofico.
Eccovi per esempio che cosa dice l’estetico tedesco Schasler nella prefazione della sua celebre, voluminosa, e minuziosa opera sull’estetica: “In nessun’altra parte del dominio filosofico la divergenza d’idee è grande quanto è nell’estetica. Nè in alcun’altra disciplina filosofica si trova maggior copia di vana fraseologia, di parole vuote di senso, o mal determinate, un’erudizione più pedantesca, e a un tempo più superficiale”. E in realtà basta leggere l’opera dello Schasler medesimo per intendere quanto sia giusta la sua osservazione.
Sul medesimo argomento il francese Véron, nella prefazione del suo libro notevole intorno all’estetica, scrive: “Non c’è scienza, la quale sia stata abbandonata alle fantasticherie dei metafisici più dell’estetica. Da Platone sino alle dottrine ufficiali dei nostri giorni, si è fatto dell’arte non so qual miscela di fantasie sublimate e di misteri trascendentali, che trovano la loro suprema espressione nel concetto assoluto del bello ideale, prototipo immutabile e divino delle cose reali„.
Voglia compiacersi il lettore di scorrere le poche definizioni della bellezza, che seguono, e sono tolte solo agli estetici di gran fama; e potrà giudicare da sè quanto sia giustificata questa critica del Véron.
Non citerò, come per lo più fanno tutti, le definizioni del bello attribuite agli autori antichi, Socrate, Platone, Aristotele, e gli altri sino a Plotino, poichè realmente, come dirò più tardi, gli antichi avevano dell’arte un concetto affatto diverso da quello che è il fondamento e l’oggetto dell’estetica moderna. Ravvicinando alla nostra presente concezione del bello i giudizi che essi ne facevano, s’attribuisce alle loro parole un significato del tutto alieno da esse.