Certi obblighi
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III.
CERTI OBBLIGHI
Quando la civiltà, ancora in ritardo, condanna un uomo a portare una lunga scala in collo da un lampione all’altro e a salire e a scendere questa scala a ogni lampione tre volte al giorno, la mattina per spengerlo, il dopo pranzo per rigovernarlo, la sera per accenderlo; quest’uomo, per forza, quantunque duro di mente e dedito al vino, deve contrarre la cattiva abitudine di ragionar con se stesso, assorgendo anche a considerazioni alte per lo meno quanto quella sua scala.
Quaquèo, lampionajo, è caduto una sera, ubriaco, da quell’altezza. S’è rotta la testa, spezzata una gamba. Vivo per miracolo, dopo due mesi d’ospedale, con una cianca più corta dell’altra, una sconcia cicatrice su la fronte, s’è rimesso a girare, zazzeruto, barbuto e in camiciotto turchino, di nuovo con la scala in collo, da un lampione all’altro. Arrivato ogni volta su la scala all’altezza da cui è caduto, non può fare a meno di considerare che — è inutile — certi obblighi si hanno. Non si vorrebbero avere, ma si hanno. Un marito può benissimo in cuor suo non curarsi affatto dei torti della propria moglie. Ebbene, nossignori, ha l’obbligo di curarsene. Se non se ne cura, tutti gli altri uomini e finanche i ragazzi glielo rinfacciano e gli danno la baja.
— Il becco, Quaquèo! Quando li mettono, Quaquèo, questi becchi?
— Muso di cane! — grida Quaquèo dall’alto del lampione. — Ora me lo dici? Ora che debbo illuminare la città? —
Bella scusa, l’illuminazione della città, per sottrarsi all’obbligo di badare ai torti della moglie. Ma li vede egli forse? Con questi lumetti a petrolio, vede egli forse quando quelli scassinano le porte o si accoltellano per quei sudici vicoli deserti?
— Ladri svergognati e assassini! —
Pur non di meno Quaquèo è andato al municipio; s’è presentato all’assessore cavalier Bissi, a cui deve il posto e qualche gratificazione di tanto in tanto per lo zelo con cui attende al suo ufficio; e gli ha esposto il caso: se egli, cioè, nell’atto d’accendere i lampioni non debba essere considerato come un pubblico funzionario nell’esercizio delle sue funzioni.
— Sicuro, — gli ha risposto l’assessore.
— E dunque chi mi insulta, — ha tirato la conseguenza Quaquèo, — insulta un pubblico funzionario nell’esercizio delle sue funzioni, va bene? —
Pare che non vada bene per il cavalier Bissi. Il quale, sapendo di che genere sono gli insulti di cui Quaquèo viene a lagnarsi, vorrebbe dimostrargli, con bella maniera, che questi insulti non si riferiscono propriamente al lampionajo come tale.
— Ah no, Eccellenza! — protesta Quaquèo. — La prego di credere, Eccellenza! —
E nel dire Eccellenza stringe gli occhi Quaquèo, come se bevesse un liquore prelibato. Dà così dell’Eccellenza, con tutto il sentimento, a quanti più può; ma in ispecie al cavalier Bissi che, oltre agli obblighi che anche lui, come privato, forse non vorrebbe avere, ma che pure ha, se ne è assunti anche tanti altri, altissimi, inerenti alla sua carica d’assessore. Quaquèo di tutti questi obblighi, naturali e sociali, è profondamente compenetrato; e se, alle volte, per qualche gocciolina importuna deve passarsi il dorso della mano sotto il naso, non manca mai di farsi prima riparo della falda del lungo camiciotto turchino.
A sua volta, con bella maniera, ma imbrogliandosi un po’, si prova a dimostrare all’assessore, che se l’insulto, di cui è venuto a lagnarsi, ha qualche fondamento di verità, può averlo soltanto nel tempo che egli è nell’esercizio delle sue funzioni di lampionajo; perchè quando poi non è più lampionajo ed è soltanto marito, nessuno può dir nulla nè di lui nè della moglie. La moglie è con lui saggia, sottomessa, irreprensibile; ed egli non ha potuto mai accorgersi di nulla.
— M’insultano, Eccellenza, quando illumino la città, quando sto su la scala appoggiata al lampione e sfrego al muro il fiammifero per accendere il lume, cioè, quando sanno che non posso lasciare al bujo la città, per correre a casa a vedere che fa e con chi è mia moglie e, all’occorrenza, fare un macello, signor Cavaliere! —
Sottolinea le parole fare un macello con un sorriso quasi di mesta rassegnazione, perchè riconosce che anche quest’obbligo avrebbe, come marito offeso, e proprio non vorrebbe averlo, ma lo ha.
— Ne vuole un’altra prova, Eccellenza? Nelle sere di luna, che i lampioni restano spenti, nessuno mi dice nulla; e perchè? perchè quelle sere non sono un pubblico funzionario. —
Quaquèo ragiona bene. Ma ragionar bene non basta. Bisogna venire al fatto. E, venendo al fatto, spesso i migliori ragionamenti cascano, come cascò lui, quella volta, ubriaco fradicio, dalla scala.
Che vuole concludere, insomma, con quel ragionamento? Il cavalier Bissi glielo domanda. Se crede che la sua disgrazia coniugale sia inerente alla pubblica funzione di lampionajo, ebbene, rinunzi a questa pubblica funzione; o, se non vuole rinunziare, si stia quieto, e lasci dire la gente.
— Perentorio? — domanda Quaquèo.
— Perentorio, — risponde il cavalier Bissi.
Quaquèo saluta militarmente:
— Servo di Vostra Eccellenza. —
⁂
La scala gli pesa ogni giorno di più e ogni giorno di più Quaquèo stenta ad arrampicarsi sui pioli logori dal lungo uso, con quella cianca più corta dell’altra.
Ora, quando è agli ultimi lampioni nelle viuzze più erte in cima al colle, s’indugia un pezzo su la scala, come affacciato, o piuttosto come appeso per le ascelle al braccio del fanale, le mani penzoloni, il capo appoggiato a una spalla; e in quella positura d’abbandono, lassù, seguita a pensare e a ragionar con se stesso.
Pensa cose strane e tristi.
Pensa, per esempio, che le stelle, per quanto fitte sieno, certe notti, allargano sì e pungono il cielo, ma non arrivano a far lume in terra.
— Luminaria sprecata! —
Ma che bella luminaria! E pensa che una notte sognò che toccava a lui d’accenderla, tutta quella luminaria nel cielo, con una scala di cui non ve deva la fine, e che non sapeva dove appoggiare, e i cui staggi gli brandivano tra le mani incapaci di sorreggere un tal peso. E come avrebbe fatto ad arrampicarsi, su, su, per quegli infiniti pioli, fino alle stelle? Sogni! Ma che ambascia e che sgomento nel sogno!
Pensa che è proprio triste quel suo mestiere di lampionajo, almeno per un lampionajo come lui, che abbia contratto la cattiva abitudine di ragionare, accendendo i lampioni.
Ma è mai possibile che anche l’atto materiale di far la luce dove ci sono le tenebre, non dèsti, a lungo andare, anche nel più duro e oscuro cervello certi guizzi di pensiero?
Quaquèo certe sere è arrivato finanche a pensare che egli che fa la luce, fa anche le ombre. Già! Perchè non si può avere una cosa, senza il suo contrario. Chi nasce, muore. E l’ombra è come la morte, che segue un corpo che cammina. Donde la sua frase misteriosa, che sembra una minaccia gridata dal l’alto della scala nell’atto di accendere il lampione, e che non è altro, invece, che la conclusione d’un suo ragionamento:
— Aspetta là, aspetta là, che t’appiccico la morte dietro! —
Infine Quaquèo pensa, che una certa importanza d’ordine davvero superiore, la ha, quel suo mestiere, in quanto ripara a una mancanza della natura, e che mancanza! Quella della luce. C’è poco da dire: egli, per il suo paese, è il sostituto del Sole. Sono due i sostituti: egli e la Luna; e si danno il cambio. Quando c’è la Luna, egli riposa. E tutta l’importanza del suo mestiere appare manifesta in quelle sere che la Luna dovrebbe esserci, e viceversa poi non c’è, perchè le nuvole, nascondendola, la fanno venir meno al suo obbligo di illuminare la terra; obbligo che la Luna forse non vorrebbe avere, ma che ha; e il paese resta al bujo.
Quant’è bello vedere da lontano, in mezzo alle tenebre della notte, qua e là, qualche paesello illuminato!
Quaquèo ne vede parecchi, ogni notte, quando arriva agli ultimi lampioni in cima al colle, e rimane a contemplarli a lungo, con le mani penzoloni dal braccio del fanale e il capo appoggiato a una spalla, e sospira.
Sì, quei lumini là, come una moltitudine di lucciole a congresso, rischiarano penosamente e rimangono tutta la notte a vegliare, nel lugubre silenzio, vicoletti lerci e scoscesi e tane di miseria, forse peggiori di questi del suo paese; ma è certo che, da lontano, fanno un bel vedere, e spirano un dolce e mesto conforto in mezzo a tanta tenebra. Passa di tanto in tanto nella tenebra qualche folata di vento, e tutti quei lumini là aggruppati esitano e pare che sospirino anch’essi.
E a guardare così da lontano, si pensa che i poveri uomini, sperduti come sono sulla terra, tra le tenebre, si siano raccolti qua e là per darsi conforto e ajuto tra loro; e invece no, invece non è così: se una casa sorge in un posto, un’altra non le sorge mica accanto, come una buona sorella, ma le si pianta di contro come una nemica, a toglierle la vista e il respiro; e gli uomini non si uniscono qua e là per farsi compagnia, ma si accampano gli uni contro gli altri per farsi la guerra. Ah, lui, Quaqueo, lo sa bene! E dentro ogni singola casa c’è la guerra, tra quegli stessi che dovrebbero amarsi e star d’accordo per difendersi dagli altri. Non è forse sua moglie la sua più acerrima nemica?
Se Quaquèo beve, beve per questo; beve per non pensare a certe cose che lo farebbero venir meno a tanti di questi obblighi, di cui è così profondamente compenetrato. Ma è vero che se ne hanno poi anche certi altri, che non si vorrebbero avere. Non si vorrebbero avere, ma si hanno.
— Eh, sorcio vecchio? —
Quaquèo si rivolge a un pipistrello. Lo chiama sorcio vecchio, perchè è un sorcio che ha messo le ali. Tante altre volte si rivolge o a qualche gatto che striscia rasente al muro e s’arresta d’un tratto, raccolto e obliquo, a guatarlo, o a qualche cane randagio e malinconico, che si mette a seguirlo da un lampione all’altro, per gli alti vicoli deserti, e gli si accula davanti, sotto ogni lampione, aspettando che egli lo abbia acceso.
⁂
Ma che deve accendere, se non c’è petrolio?
Il paese questa sera rischia di restare al bujo. L’appaltatore dell’illuminazione è in lite col Comune: da più mesi non gli danno un soldo; ha anticipato circa dodicimila lire; ora non vuole più saperne. Quaquèo non ha potuto rigovernare i lumi, dopo mezzogiorno. Venuta la sera, s’è messo in giro con la scala per provare se si accendono con quel po’ di petrolio rimasto dalla notte scorsa. Si accendono per poco, poi s’abbassano e appestano la via. I cittadini protestano, se la pigliano con lui, come se fosse colpa sua. I più tristi e i monellacci gli ricantano più sguajatamente la solita canzone:
— Ci vogliono i becchi! Ci vogliono i becchi! I becchi, Quaquèo, i becchi! —
E la gazzarra cresce. Quaquèo non ne può più. Per sottrarsi alla ressa degli insultatori, lascia la via principale e, con la scala in collo, si mette a salire per uno dei vicoli. Ma parecchi lo seguono. A un certo punto, come Quaquèo, stanco e sfiduciato, s’abbandona secondo il suo solito sul braccio d’un fanale, non si contentano più di dargli la baja a parole, gli strappano la scala sotto i piedi e lo lasciano lì appeso per le ascelle e sgambettante.
Ah sì? Dunque vogliono proprio ch’egli faccia l’obbligo suo, di marito offeso, non potendo quella sera per mancanza di petrolio attendere alla sua pubblica funzione di lampionajo? Lo hanno colto al laccio, giusto quella sera che non può gridar la scusa del l’illuminazione della città? Ebbene: gli ridiano la scala, e sia fatta la loro volontà! La scala! La scala! Lo facciano discendere, corpo di Dio, e vedranno ciò che egli saprà fare!
Tre, quattro, ridendo, gli rimettono la scala sotto i piedi, e tutti, pigliandoselo a godere, a coro, lo ci mentano:
— Il coltello ce l’hai?
— Eccolo qua! —
E Quaquèo si tira su il camiciotto e cava dalla tasca dei calzoni un coltellaccio e lo apre e lo impugna.
— Sangue della Madonna, è buono questo?
— La scanni?
— La scanno, e lo scanno, se li trovo insieme! Testimoni tutti! Venitemi dietro! —
E si slancia avanti, balzando su la punta della cianca più corta, e tutti lo seguono schiamazzando e affollandoglisi attorno, per i buj vicoli tortuosi in salita.
— La scanni davvero? —
Quaquèo s’arresta, si volta e agguanta per il petto uno di quei cimentatori.
— Ah, ve ne pentite? Ora che m’avete preso, perdio, e sono qua armato per fare l’obbligo mio, dovete starci tutti! Tutti, perdio! —
E scuote e scrolla quell’agguantato, e riprende la via. Parecchi allora s’impauriscono, lo seguono ancora per qualche passo sconcertati, perplessi; si tirano per la manica; rimangono indietro; se la svignano. Quattro soltanto e due monelli gli tengono dietro fino a casa, ma costernati anch’essi e non più cimentosi, anzi pronti a impedire che egli faccia per davvero. Difatti, appena davanti alla porta, lo afferrano per le braccia e a coro, con parole scherzose, cercano di portarselo via, in qualche taverna a bere. Ma Quaquèo, stravolto, ansimante, si divincola e li minaccia col coltello impugnato; avventa calci alla porta, e grida alla moglie:
— Apri, mala femmina! Apri! Questa è la volta che la paghi per tutte! Lasciatemi, sangue di.... lasciatemi! Lasciatemi, o vi spacco la faccia! —
Quelli, alla minaccia, si scostano, e allora egli cava subito dalla tasca del camiciotto, sul petto, la chiave e apre la porta; si ficca dentro e la richiude con fracasso. Quelli si precipitano addosso alla porta e la forzano, gridando ajuto. Si sentono dall’interno grida e pianti in alto.
— Carneficina! Carneficina! — urla Quaquèo, col coltello in pugno, dopo aver afferrato per i capelli e buttata a terra la moglie scarmigliata e discinta; e cerca sotto il letto, rovesciando tutto quello che gli capita tra i piedi; cerca nella cassapanca; va a cercare in cucina, sempre gridando:
— Dov’è? dimmi dov’è! dove l’hai nascosto? —
E la moglie:
— Sei pazzo? Sei ubriaco? Che ti salta in mente, buffone? —
Giù, nel vicolo, a loro volta, gridano quei quattro che lo han seguito, e i monelli, e altri accorsi al fracasso; e si schiudono le finestre qua e là, e tutti domandano: — Chi è? Che è stato? — e pugni e calci e spallate alla porta.
Quaquèo balza addosso alla moglie:
— Dimmi dov’è, o t’ammazzo! Sangue, sangue, voglio sangue, questa sera! Sangue! —
Non sa più dove cercare. Gli occhi a un tratto gli vanno alla finestra della cucina che guarda dalla parte opposta del vicolo, su un precipizio. È una finestra piuttosto alta, che sta sempre chiusa, e le cui imposte sono annerite dalla fuliggine.
— Piglia una sedia e apri quella finestra! No? Non vuoi aprirla? Brutta strega, l’apro io! —
Monta su uno sgabello, la apre.... — orrore! Quaquèo arretra, con gli occhi sbarrati, le mani tra i capelli irti. Il coltello gli casca di mano.
Il cavalier Bissi sta lassù, pericolante, nel vano, sul precipizio.
— Ma se, Dio liberi, Vostra Eccellenza scivola! — esclama Quaquèo, appena può rinvenire dal terrore, portandosi le pugna presso la bocca; e subito accorre, tutto tremante e premuroso, per ajutarlo a discendere:
— Piano.... qua, piano, metta qua un piede su la mia spalla, Eccellenza.... Ma come mai Vostra Eccellenza s’è potuto persuadere a nascondersi lassù? Me lo potevo mai figurare? Lassù, col rischio di rompersi il collo per una donnaccia come questa, Lei, un Cavaliere! Ma dice sul serio, Vostra Eccellenza? —
Si volta alla moglie e, appioppandole un pugno in faccia:
— Ma come? — le grida, — lassù, lassù dovevi farlo nascondere? E non c’era un posto più pulito? non hai visto, imbecille, che ho cercato dappertutto tranne che nello stipo a muro, dietro la cortina? Su, piglia una spazzola per il signor Cavaliere! Abbia la bontà, Vostra Eccellenza; per cinque minuti, dentro a quello stipo! Sente come gridano giù per istrada? Si hanno certi obblighi, Eccellenza, creda pure. Non si vorrebbero avere, ma si hanno. Cinque minuti soli: abbia la bontà; li mando via. —
E, condotto il Cavaliere entro lo stipo a muro, va a spalancare la finestra sul vicolo, per gridare alla folla accorsa:
— Non c’è nessuno! Apro la porta.... Chi vuol salire, salga; se volete accertarvene. Ma non c’è nessuno! —