Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta)/Nel dolce tempo de la prima etade
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Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et anchor quasi in herba
la fera voglia che per mio mal crebbe,
perché cantando il duol si disacerba,
canterò com’io vissi in libertade,5
mentre Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe.
Poi seguirò sí come a lui ne ’ncrebbe
troppo altamente, e che di ciò m’avenne,
di ch’io son facto a molta gente exempio:
benché ’l mio duro scempio10
sia scripto altrove, sí che mille penne
ne son già stanche, et quasi in ogni valle
rimbombi il suon de’ miei gravi sospiri,
ch’aquistan fede a la penosa vita.
E se qui la memoria non m’aita15
come suol fare, iscúsilla i martiri,
et un penser che solo angoscia dàlle,
tal ch’ad ogni altro fa voltar le spalle,
e mi face oblïar me stesso a forza:
ché tèn di me quel d’entro, et io la scorza.20
I’ dico che dal dí che ’l primo assalto
mi diede Amor, molt’anni eran passati,
sí ch’io cangiava il giovenil aspetto;
e d’intorno al mio cor pensier’ gelati
facto avean quasi adamantino smalto25
ch’allentar non lassava il duro affetto.
Lagrima anchor non mi bagnava il petto
né rompea il sonno, et quel che in me non era,
mi pareva un miracolo in altrui.
Lasso, che son! che fui!30
La vita el fin, e ’l dí loda la sera.
Ché sentendo il crudel di ch’io ragiono
infin allor percossa di suo strale
non essermi passato oltra la gonna,
prese in sua scorta una possente donna,35
ver’ cui poco già mai mi valse o vale
ingegno, o forza, o dimandar perdono;
e i duo mi trasformaro in quel ch’i’ sono,
facendomi d’uom vivo un lauro verde,
che per fredda stagion foglia non perde.40
Qual mi fec’io quando primer m’accorsi
de la trasfigurata mia persona,
e i capei vidi far di quella fronde
di che sperato avea già lor corona,
e i piedi in ch’io mi stetti, et mossi, et corsi,45
com’ogni membro a l’anima risponde,
diventar due radici sovra l’onde
non di Peneo, ma d’un piú altero fiume,
e n’ duo rami mutarsi ambe le braccia!
Né meno anchor m’agghiaccia50
l’esser coverto poi di bianche piume
allor che folminato et morto giacque
il mio sperar che tropp’alto montava:
ché perch’io non sapea dove né quando
me ’l ritrovasse, solo lagrimando55
là ’ve tolto mi fu, dí e nocte andava,
ricercando dallato, et dentro a l’acque;
et già mai poi la mia lingua non tacque
mentre poteo del suo cader maligno:
ond’io presi col suon color d’un cigno.60
Cosí lungo l’amate rive andai,
che volendo parlar, cantava sempre
mercé chiamando con estrania voce;
né mai in sí dolci o in sí soavi tempre
risonar seppi gli amorosi guai,65
che ’l cor s’umilïasse aspro et feroce.
Qual fu a sentir? ché ’l ricordar mi coce:
ma molto piú di quel, che per inanzi
de la dolce et acerba mia nemica
è bisogno ch’io dica,70
benché sia tal ch’ogni parlare avanzi.
Questa che col mirar gli animi fura,
m’aperse il petto, e ’l cor prese con mano,
dicendo a me: Di ciò non far parola.
Poi la rividi in altro habito sola,75
tal ch’i’ non la conobbi, oh senso humano,
anzi le dissi ’l ver pien di paura;
ed ella ne l’usata sua figura
tosto tornando, fecemi, oimè lasso,
d’un quasi vivo et sbigottito sasso.80
Ella parlava sí turbata in vista,
che tremar mi fea dentro a quella petra,
udendo: I’ non son forse chi tu credi.
E dicea meco: Se costei mi spetra,
nulla vita mi fia noiosa o trista;85
a farmi lagrimar, signor mio, riedi.
Come non so: pur io mossi indi i piedi,
non altrui incolpando che me stesso,
mezzo tutto quel dí tra vivo et morto.
Ma perché ’l tempo è corto,90
la penna al buon voler non pò gir presso:
onde piú cose ne la mente scritte
vo trapassando, et sol d’alcune parlo
che meraviglia fanno a chi l’ascolta.
Morte mi s’era intorno al cor avolta,95
né tacendo potea di sua man trarlo,
o dar soccorso a le vertuti afflitte;
le vive voci m’erano interditte;
ond’io gridai con carta et con incostro:
Non son mio, no. S’io moro, il danno è vostro.100
Ben mi credea dinanzi agli occhi suoi
d’indegno far cosí di mercé degno,
et questa spene m’avea fatto ardito:
ma talora humiltà spegne disdegno,
talor l’enfiamma; et ciò sepp’io da poi,105
lunga stagion di tenebre vestito:
ch’a quei preghi il mio lume era sparito.
Ed io non ritrovando intorno intorno
ombra di lei, né pur de’ suoi piedi orma,
come huom che tra via dorma,110
gittaimi stancho sovra l’erba un giorno.
Ivi accusando il fugitivo raggio,
a le lagrime triste allargai ’l freno,
et lasciaile cader come a lor parve;
né già mai neve sotto al sol disparve115
com’io sentí’ me tutto venir meno,
et farmi una fontana a pie’ d’un faggio.
Gran tempo humido tenni quel vïaggio.
Chi udí mai d’uom vero nascer fonte?
E parlo cose manifeste et conte.120
L’alma ch’è sol da Dio facta gentile,
ché già d’altrui non pò venir tal gratia,
simile al suo factor stato ritene:
però di perdonar mai non è sacia
a chi col core et col sembiante humile125
dopo quantunque offese a mercé vène.
Et se contra suo stile ella sostene
d’esser molto pregata, in Lui si specchia,
et fal perché ’l peccar piú si pavente:
ché non ben si ripente130
de l’un mal chi de l’altro s’apparecchia.
Poi che madonna da pietà commossa
degnò mirarme, et ricognovve et vide
gir di pari la pena col peccato,
benigna mi redusse al primo stato.135
Ma nulla à ’l mondo in ch’uom saggio si fide:
ch’ancor poi ripregando, i nervi et l’ossa
mi volse in dura selce; et così scossa
voce rimasi de l’antiche some,
chiamando Morte, et lei sola per nome.140
Spirto doglioso errante (mi rimembra)
per spelunche deserte et pellegrine,
piansi molt’anni il mio sfrenato ardire:
et anchor poi trovai di quel mal fine,
et ritornai ne le terrene membra,145
credo per piú dolore ivi sentire.
I’ seguí’ tanto avanti il mio desire
ch’un dí cacciando sí com’io solea
mi mossi; e quella fera bella et cruda
in una fonte ignuda150
si stava, quando ’l sol piú forte ardea.
Io, perché d’altra vista non m’appago,
stetti a mirarla: ond’ella ebbe vergogna;
et per farne vendetta, o per celarse,
l’acqua nel viso co le man’ mi sparse.155
Vero dirò (forse e’ parrà menzogna)
ch’i’ sentí’ trarmi de la propria imago,
et in un cervo solitario et vago
di selva in selva ratto mi trasformo:
et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo.160
Canzon, i’ non fu’ mai quel nuvol d’oro
che poi discese in pretïosa pioggia,
sí che ’l foco di Giove in parte spense;
ma fui ben fiamma ch’un bel guardo accense,
et fui l’uccel che piú per l’aere poggia,165
alzando lei che ne’ miei detti honoro:
né per nova figura il primo alloro
seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra
ogni men bel piacer del cor mi sgombra.