Canti della guerra latina/La preghiera di Doberdò
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LA PREGHIERA DI DOBERDÒ
[SETTEMBRE MCMXVI]
LA PREGHIERA DI DOBERDÒ
1. San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio sul gradino spezzato dell’altare maggiore.
2. Per lo squarcio del tetto il mattino di settembre gli illumina le piante dei piedi piagate; ed è come un lume che raggi dalle sue stìmate di amore.
3. In questo lume soffrono i feriti della notte colcati su la paglia lungo il muro superstite della povera casa di Dio.
4. Non ha più tovaglia la tavola dell’altare, né candellieri, né palme, né ciborio, né turribolo, né ampolle, né messale, né leggìo.
5. A mucchio su la tavola dell’altare stanno gli elmetti dei morti, le scarpe terrose dei morti. Per ciò il Poverello qui piange.
6. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.
7. Gli elmetti ch’eran tenuti dalla soga sotto il mento dei morti, e per torli fu fatto un poco di forza alla mascella dura.
8. Le scarpe ch’eran rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e furono rotti i legàccioli per tirarle dai piedi freddi allineati su l’orlo della sepoltura.
9. Le spoglie del capo e dei piedi, serbate pei vivi che nella battaglia morranno, gravano l’altare del sacrificio incruento.
10. Solo v’è con le spoglie il Cristo che porta la croce, la sesta Stazione, un’imagine di purità e di patimento.
11. Il medico, tra fiaschi fasce garza e cotone, curvo su la cimasa della balaustrata di legno malferma scrive le sue tristi tabelle.
12. Da presso, ripiegate, contro il muro cadente, simili a vecchie bandiere chiuse nelle custodie di tela, maculate di rosso e di bruno, poggiano le bianche barelle. 13. I feriti dell’assalto notturno, discesi dalle trincee scavate nelle petraie del colle, simili a un armento sublime giacciono sopra la paglia.
14. Bocconi giacciono a covare il dolore, o supini a fisarlo, o sul fianco e sul gomito, o rattratti, o col braccio dietro il capo, o col capo tra i ginocchi, o con un sorriso d’infante nella bocca assetata, o con nelle occhiaie torbide la vertigine della battaglia.
15. Non si lagnano, non chiamano, non dimandano, non fanno parola. Taciturni, aspettano che di strame in strame li trasmuti la Patria, con le tabelle quadre legate al collo da un filo, ov’è scritta la piaga e la sorte.
16. Stanno tra paglia e macerie, sotto travi stroncate, lungo un muro fenduto, nella chiesa senza preghiere. E guatano per lo squarcio del tetto se non si curvi sul loro patire l’angelo col dìttamo bianco o col papavero nero la morte.
17. Sanguinano gli adulti, robusti e irsuti, con vólti intagliati dall’ascia latina. Domina taluno il dolore, con cipiglio selvaggio, masticando la gialla festuca.
18. Sanguinano i giovinetti: e le stille si rappigliano giù per la lanugine prima. Socchiude taluno le ciglia, e sente la mano materna sotto la nuca.
19. Biondi e foschi, pallidi come l’abete della gabbia che chiude la granata dall’ogiva d’acciaio, fuligginosi come se escissero fabbri lesi dalla fucina tremenda.
20. Sembrano corpi formati di terra con in sommo un viso di carne che duole. Ai ginocchi delle brache consunte è rimasto il sigillo rossastro del Carso. Ma una rosa verace fiorisce a fior d’ogni benda.
21. Pochi su poca paglia, tra macerie e rottami, in una miseranda ruina, dove tutte le imagini della Passione furono abbattute o distrutte, tranne una: la sesta.
22. E, com’essi respirano ed ansano, il luogo si riempie d’una santità vivente come quella che precede il Signore quando si manifesta.
23. Costui dal capo bendato, dalla barba crespa che imbiutano i grumi, con negli occhi di fiera l’ardore intento della fede novella, non è simile ai giovani discepoli in Cristo, a Filippo di Betsaida, ad Andrea fratel di Simone, quando il Figliuolo dell’uomo non avea pur dove posare la guancia?
24. E questo imberbe dallo sguardo cilestro, dal virgineo vólto inclinato, ove un fuoco chiuso traspare pel teschio che solo è coperto di carne quanto basta a significare il dolore, non somiglia Giovanni il diletto quando si piega verso il costato che sarà trafitto dal colpo di lancia?
25. Pochi su poca paglia, tra un muro fenduto e un muro crollato. E dietro hanno i loro monti, le loro valli, le loro fiumane, le lor dolci contrade, le lor città di grazia in ginocchio davanti ai lor duomi costrutti con la pietra natale.
26. E qui sanguina l’Umbria, e sanguina qui Lombardia, e sanguina Venezia la bella, sanguina la Campania felice, sanguina Sicilia l’aurata, e Puglia la piana, e Calabria la cruda, e Sardegna in disparte, e meco la terra mia pretta, e tutta la Patria riscossa con Roma la donna immortale.
27. Or chi mai su la povera casa di Dio, a raccogliere tanta offerta di porpora, gira su lo squarcio del tetto, con arte titanica, una si vasta cupola in gloria?
28. È l’artefice dei templi novelli, simile a un Buonarroto ventenne, pari al Genio vittorioso che calca il barbaro schiavo e guata di là dalla vittoria?
29. Silenzio, umiltà, pazienza. Stagna la vena. La rosa è colma. Taluno s’addorme, col braccio sotto la gota. Lo vegliano i fratelli che non hanno tregua al penare.
30. Entra una barella carica d’altre spoglie di morti, carica di scarpe terrose e d’elmetti forati. Si ferma davanti all’altare.
31. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.
32. Le scarpe lorde di terra rossigna, con qualche scheggia di sasso, con qualche fil d’erba calcata, con qualche foglia di quercia confitta dal chiodo che lustra. Per ciò il Poverello qui piange.
33. Piange inginocchiato su la sua tonaca logora ai ginocchi, lacera agli orli che scoprono i piedi suoi scalzi. Lacrima, e non s’ode. Tanto ama, e rompersi non s’ode il suo petto.
34. Entra una barella che porta un soldato con la benda su gli occhi, con una gamba prigione tra due assi grezze. Ed è come il mendico di Gerico, Bartimeo. È come l’infermo della piscina, l’uomo di Betesda, sul letto.
35. Forse non sa ch’egli è cieco. E dice anch’egli forse nel cuore: «Figliuolo dell’uomo, abbi misericordia di me.» Ed ecco appesa gli è al collo, con un frusto di corda, la tabella ov’è scritto il male e il destino.
36. Ma d’improvviso entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine spersa, l’ultima rondine; e nel silenzio getta un grido, due gridi. Sorvola l’altare. Sorvola le macerie, lo strame, le piaghe, l’ambascia, l’attesa. Getta un grido, due gridi. Dà un guizzo di luce. Ha seco il mattino.
37. E il Santo rapito si volge alla creatura di Dio, con ferme su la faccia le lacrime come la rugiada su la foglia è prima del sole. E tutte si volgono rapite alla messaggera d’una stagione sublime le facce del glorioso dolore.
38. E tutti sono fanciulli, tutti nel sangue innocenti. E il cieco si leva sul gomito, con l’anima trapassa le fasce, si tende verso l’ala invisibile che muove l’aura del miracolo intorno. E ode ridiscendere nella casa disfatta il Signore.
+ Novena di San Francesco d’Assisi.
Settembre 1916.