Canti Orfici/Passeggiata in tram in America e ritorno
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PASSEGGIATA IN TRAM IN AMERICA
E RITORNO
Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo ferreo di fili curvi mentre la mole bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enormi palazzi regali e barbari, i diademi elettrici spenti. Corro col preludio che tremola si assorda riprende si afforza e libero sgorga davanti al molo alla piazza densa di navi e di carri. Gli alti cubi della città si sparpagliano tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati d’azzurro: nel mentre il mare tra le tanaglie del molo come un fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce verso l’eternità del mare che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte.
Ma mi parve che la città scomparisse mentre che il mare rabbrividiva nella sua fuga veloce. Sulla poppa balzante io già ero portato lontano nel turbinare delle acque. Il molo, gli uomini erano scomparsi fusi come in una nebbia. Cresceva l’odore mostruoso del mare. La lanterna spenta s’alzava. Il gorgoglio dell’acqua tutto annegava irremissibilmente. Il battito forte nei fianchi del bastimento confondeva il battito del mio cuore e ne svegliava un vago dolore intorno come se stesse per aprirsi un bubbone. Ascoltavo il gorgoglio dell’acqua. L’acqua a volte mi pareva musicale, poi tutto ricadeva in un rombo e la terra e la luce mi erano strappate inconsciamente. Come amavo, ricordo, il tonfo sordo della prora che si sprofonda nell’onda che la raccoglie e la culla un brevissimo istante e la rigetta in alto leggera nel mentre il battello è una casa scossa dal terremoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia beffarda nell’aria, una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse di danza bizzarre che la scuotono!
C’erano due povere ragazze sulla poppa: «Leggera, siamo della leggera: te non la rivedi più la lanterna di Genova!» Eh! che importava in fondo! Ballasse il bastimento, ballasse fino a Buenos-Aires: questo dava allegria: e il mare se la rideva con noi del suo riso così buffo e sornione! Non so se fosse la bestialità irritante del mare, il disgusto che quel grosso bestione col suo riso mi dava... basta: i giorni passavano. Tra i sacchi di patate avevo scoperto un rifugio. Gli ultimi raggi rossi del tramonto che illuminavano la costa deserta! costeggiavano da un giorno. Bellezza semplice di tristezza maschia. Oppure a volte quando l’acqua saliva ai finestrini io seguivo il tramonto equatoriale sul mare. Volavano uccelli lontano dal nido ed io pure: ma senza gioia. Poi sdraiato in coperta restavo a guardare gli alberi dondolare nella notte tiepida in mezzo al rumore dell’acqua........
Riodo il preludio scordato delle rozze corde sotto l’arco di violino del tram domenicale. I piccoli dadi bianchi sorridono sulla costa tutti in cerchio come una dentiera enorme tra il fetido odore di catrame e di carbone misto al nauseante odor d’infinito. Fumano i vapori agli scali desolati. Domenica. Per il porto pieno di carcasse delle lente file umane, formiche dell’enorme ossario. Nel mentre tra le tanaglie del molo rabbrividisce un fiume che fugge, tacito pieno di singhiozzi taciuti fugge veloce verso l’eternità del mare, che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte.