Canti Orfici/La Verna/I - La Verna (Diario)
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I - La Verna (Diario)
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LA VERNA. (Diario)
15 Settembre (per la strada di Campigno)
Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono. I complimenti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco che si voltola in terra. Le risa. Le imprecazioni montanine. Le rocce e il fiume.
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Castagno, 17 Settembre
La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare. La pioggia ha reso cupo il grigio delle montagne. Davanti alla fonte hanno stazionato a lungo i Castagnini attendendo il sole, aduggiati da una notte di pioggia nelle loro stamberghe allagate. Una ragazza in ciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la piena ci porterà tutti. Il torrente gonfio nel suo rumore cupo commenta tutta questa miseria. Guardo oppresso le rocce ripide della Falterona: dovrò salire, salire. Nel presbiterio trovo una lapide ad Andrea del Castagno. Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi incavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con una così semplice antica grazia toscana del profilo e del collo che riesce a renderle piacevoli! forse. Come differente la sera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bella la 490 povertà delle sue casupole! Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo luci ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute.
Il canto fu breve: una pausa, un commento improvviso e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute nella notte! Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero solo.
Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buon odore casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti toscani. La chiesa ha un portico a colonnette quadrate di sasso intero, nudo ed elegante, semplice e austero, veramente toscano. Tra i cipressi scorgo altri portici. Su una costa una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi della Falterona, spoglia di macchie, che scopre la sua costruttura sassosa. Con una fiamma pallida e fulva bruciano le erbe del camposanto.
Sulla Falterona (Giogo)
La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sè una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu.
(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)
Campigna, foresta della Falterona
(Le case quadrangolari in pietra viva costruite dai Lorena restano vuote e il viale dei tigli dà un tono romantico alla solitudine dove i potenti della terra si sono fabbricate le loro dimore. La sera scende dalla cresta alpina e si accoglie nel seno verde degli abeti.) Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria sullo sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra e i profondi fruscii del silenzio. Dalla cresta acuta nel cielo, sopra il mistero assopito della selva io scorsi andando pel viale dei tigli la vecchia amica luna che sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame: e risalutai l’amica senza stupore come se le profondità selvagge dello sprone l’attendessero levarsi dal paesaggio ignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso dagli incanti mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, solitario e fumigante vapore sui barbari recessi. E non guardai più la tua strana faccia ma volli andare ancora a lungo pel viale se udissi la tua rossa aurora nel sospiro della vita notturna delle selve.
Stia, 20 Settembre
Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla dei suoi amori lontani a una signora dai capelli bianchi e dal viso di bambina. Lei calma gli spiega le stranezze del cuore: lui ancora stupisce e si affanna: qua nell’antico paese chiuso dai boschi. Ho lasciato Castagno: ho salito la Falterona lentamente seguendo il corso del torrente rubesto: ho riposato nella limpidezza angelica dell’alta montagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente, ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mi facevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi. Ho sostato nelle case di Campigna. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio.
Al di fuori si è fatta la quiete: il colloquio fraterno del cavaliere continua:
Comme deux ennemis rompus |
21 Settembre (presso la Verna)
Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa.
Incantevolmente cristiana fu l’ospitalità dei contadini là presso. Sudato mi offersero acqua. «In un’ora arriverete alla Verna, se Dio vole.» Una ragazzina mi guardava cogli occhi neri un po’ tristi, attonita sotto l’ampio cappello di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, una serenità conventuale addolciva a tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la ragazzina e i suoi occhi consci e tranquilli sotto il cappellone monacale.
Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le torri naturali di roccia che reggevano la casetta conventuale rilucente di dardi di luce nei vetri occidui.
Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita.
22 Settembre (La Verna)
«Francesca B. O divino santo Francesco pregate per me peccatrice. 2O Agosto 189....»
Me ne sono andato per la foresta con un ricordo risentendo la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, la linea delle ciglia: forse mai non aveva saputo: ed ora la ritrovavo al termine del mio pellegrinaggio che rompeva in una confessione così dolce, lassù lontano da tutto. Era scritta a metà del corridoio dove si svolge la Via Crucis della vita di S. Francesco (dalle inferriate sale l’alito gelido degli antri). A metà, davanti alle semplici figure d’amore il suo cuore si era aperto ad un grido ad una lacrima di passione, così il destino era consumato!
Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidi colossali bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un’anfora classica rinchiude la terra ed i gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio a terra, lassù così presso al cielo:
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Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della leggenda Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano. Ora hanno rivestito la sua cappella scavata nella viva roccia. Corre tutt’intorno un tavolato di noce dove con malinconia potente un frate... da Bibbiena intarsiò mezze figure di santi monaci. La semplicità bizzarra del disegno bianco risalta quando l’oro del tramonto tenta versarsi dall’invetriata prossima nella penombra della cappella. Acquistano allora quei sommari disegni un fascino bizzarro e nostalgico. Bianchi sul tono ricco del noce sembrano rilevarsi i profili ieratici dal breve paesaggio claustrale da cui sorgono decollati, figure di una santità fatta spirito, linee rigide enigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepito nella tarda ora si trascina nella penombra dell’altare, silenzioso nel saio villoso, e prega le preghiere d’ottanta anni d’amore. Fuori il tramonto s’intorbida. Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicienti lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano si vedono lentamente sommergersi le vedette mistiche e guerriere dei castelli del Casentino. Intorno è un grande silenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi bagliori che ancora guizza sotto le strette della penombra. E corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bianche braccia ai balconi laggiù: come in un sogno: come in un sogno cavalleresco!
Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si congedano dai 496 pellegrini. Un alito continuo e leggero soffia dalla selva in alto, ma non si ode nè il frusciare della massa oscura nè il suo fluire per gli antri. Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore.