Avventure di Robinson Crusoe/46
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Scoperta importante.
Gli descrissi i paesi dell’Europa, e singolarmente l’Inghilterra donde io procedea, e le usanze nostre di vivere e il modo di comportarci così verso il Dio unico che adoriamo, come gli uni rispetto agli altri, e il nostro traffico marittimo esteso a tutte le parti del mondo. Nel dare ad esso un’idea del vascello su cui feci naufragio, gli accennai, come potevasi in quella distanza, il luogo ove arrenò; ma, andato in pezzi da tanto tempo, non ne rimanea più vestigio. Potei bensì mostrargli i frantumi di quella scialuppa che senza averci potuto condurre a salvamento era stata trasportata dalla burrasca sopra la spiaggia e che tutte le mie forze non furono buone di smovere.
Veduta quella scialuppa, Venerdì stette meditabondo e senza dir nulla per qualche tempo; onde chiestogli finalmente a che cosa pensasse, mi rispose:
— «Me veder cosa simile a cosa venuta stare con mia gente.»
Mi ci volte un pezzo a capirlo; ma finalmente, fattolo spiegar meglio, intesi che una scialuppa simile a quella era venuta a stare su la spiaggia del suo paese, cioè, come disse in appresso, vi era stata portata dall’impeto di una burrasca. In quel momento m’immaginai che qualche nave europea essendo naufragata presso quella costa, se ne fosse staccata una scialuppa, gettata indi dal furor delle ondate sopra la spiaggia; ma fui sì duro d’intelletto da non venirmi una sola volta in mente ch’essa contenesse uomini sottrattisi al naufragio. Nè pensai alla nazione cui la scialuppa appartenesse, e mi limitai soltanto a chiedere una descrizione di essa: descrizione che il mio Venerdì mi fece, se vogliamo, con qualche garbo; ma il momento in cui si conciliò tutta l’attenzione mia fu quando aggiunse con certo interessamento:
— «Noi aver salvati uomi bianchi da annegarsi.
— Come! gli chiesi, vi erano uomi bianchi nella scialuppa?
— Sì, barca piena d’uomi bianchi.
— Quanti erano?»
Venerdì ne contò su le dita diciassette.
— «E che cosa è avvenuto di loro?
— Loro vivere; stare con mia gente.»
Ciò suscitò nuovi pensieri nella mia mente; credei cioè appartener tali uomini al vascello naufragato a veggente della mia isola com’era solito chiamarla io; mi figurai che quando il vascello fu battuto contro allo scoglio e videro irreparabile la loro perdita, si fossero gettati nella scialuppa, approdando a qualunque rischio in quella terra selvaggia. Qui le mie indagini si fecero più minute, onde tornai a domandare che cosa fosse avvenuto di essi. Venerdì mi assicurò di nuovo che viveano tuttavia; aggiunse che rimaneano colà da quattro anni; che i selvaggi li lasciavano in pace, ed anzi li fornivano di vettovaglie.
— «Ma come può darsi, gli domandai, che i vostri non gli abbiano uccisi e mangiati?
— Oh no! star pace fra nostri e quelli; nostri mangiar solo fatti battersi in guerra.» S’intendea dire: «I nostri mangiano soltanto chi fa ad essi la guerra e rimane vinto e prigioniero.»
Era trascorso qualche tempo quando trovatomi su la cima del monte alla parte orientate dell’isola, là donde, come ho detto, in tempo sereno aveva scoperto il continente di America, Venerdì (era serena anche quella giornata) guardò con ansietà verso la stessa parte, poi si diede a saltare e a ballare, indi a chiamarmi, perchè era in qualche distanza da lui.
— «Che cosa è stato? gli chiesi.
— Oh che contentezza! esclamò. Oh che gioia! Guardar là mio paese! mia nazione!»
Una gioia straordinaria gli si leggeva in quel momento sul volto; le pupille sue scintillavano, e tutto l’aspetto di lui manifestava tale stravagante entusiasmo, che parea mosso da un’ardente brama di essere nuovamente nel proprio paese. Ciò mi diede tanto da pensare, che su le prime non feci così buon viso come in passato al mio servo. Non dubitai in quel momento che se Venerdì fosse tornato addietro fra i suoi, avrebbe posto in dimenticanza non solamente la sua religione, ma quante obbligazioni mi professava, e forse sarebbe andato più in la: avrebbe scoperto (furono queste allora le mie paure) ai suoi compatriotti il mio ricovero, e, tornato addietro con un centinaio o due di essi, costoro avrebbero fatto allegro pasto delle mie carni come usavano co’ nemici presi in guerra. Quale ingiuria io faceva a quella povera onestissima creatura! e ne fui ben dolente in appresso; ma per un po’ di tempo i miei timori si rincalzarono, onde per alcune settimane stetti più circospetto con esso, nè me gli mostrai così famigliare ed affabile come in addietro; nel che fui veramente dal torto. Quel buon giovine, pieno di gratitudine, non avea mai concepito un pensiere che non s’accordasse co’ principî e del cristianesimo da lui abbracciato e della sua amorevole gratitudine, come con piena mia soddisfazione ne fui certo da poi.
Finchè i miei ingiusti timori durarono, potete ben credere che non mi stetti dallo scalzarlo ogni giorno, per trargli qualche cosa di bocca in conferma de’ miei sospetti. Ma lo trovai sì ingenuo, sì leale in quanto mi diceva e rispondeva, che non trovai la menoma cosa atta ad accrescerli; laonde, con tutte le mie cattive suspizioni, tornò a guadagnarsi interamente il mio affetto; nè egli si era accorto menomamente del mio turbamento, nè per conseguenza io potei supporre che cercasse insidiosamente d’addormentarmi.
Camminavamo un giorno su lo stesso monte, ma essendo coperta di nebbia la parte che guardava il mare, non potevamo vedere il continente.
— «Venerdì, gli dissi, non v’augurate mai di rivedere il vostro paese, la vostra nazione?
— Sì; me augurar tornarli a vedere!
— Che cosa poi vorreste far là? Tornare selvaggio! mangiar carne umana! essere di nuovo un barbaro come foste altra volta!»
Mi volse un’occhiata in cui leggeasi la costernazione del suo animo; crollò la testa, poi disse:
— «No, no, Venerdì insegnar loro vivere bene, col timor di Dio, e mangiar pane di farina, carne di capra, latte; uomi non più!
— In questo caso ammazzeranno voi.»
Mi diede una grave occhiata e soggiunse:
— «No, no; non ammazzar me; piacer imparare.»
Intendea dire con ciò, che amavano di essere ammaestrati; in prova di che soggiunse, che aveano già imparate molte cose dagli uomi dalla barba venuti nella scialuppa. Allora gli chiesi, se voleva tornare alla sua patria. Sorrise nel rispondere:
— «Me non saper nuotare tanto lontano!
— Fabbricherò una scialuppa per voi.
— Me andar là se voi venire con me.
— Io andar là! mi mangerebbero a prima giunta.
— No, no; me fare loro non mangiar voi; me fare loro grande amar voi.»
S’intendeva dire che gli avrebbe informati del modo con che aveva uccisi i suoi nemici e gli aveva salvata la vita. Qui mi raccontò alla meglio tutte le ospitalità che i suoi compatriotti avevano usate agli uomi bianchi, o agli uomi dalla barba (chè in uno di questi due modi solea chiamarli) spinti alla loro spiaggia dalla burrasca.
D’allora in poi, lo confesso, non m’abbandonò più la tentazione di arrischiarmi a questa traversata, e veder di raggiugnere gli uomi dalla barba, ch’io non dubitava più non fossero Spagnuoli o Portoghesi. Mi sembrava ben certo che, conseguito simile intento e trovatomi una volta sul continente e in buona compagnia, qualche espediente di liberazione non sarebbe stato per me tanto difficile ad immaginarsi, quanto in un’isola ov’era solo e privo d’aiuti, lontano quaranta miglia dalla terra ferma. Dopo alcuni giorni pertanto presi nuovamente ad investigare Venerdì in via di discorso col dirgli che voleva fornirlo d’una barca per tornarsene co’ suoi compatriotti. E però lo condussi all’altra estremità dell’isola, ove stava sott’acqua quella mia così della fregata, e fattala venire a galla, gliela mostrai, e vi entrai dentro in sua compagnia. M’accorsi allora della molta sua destrezza nel governare una barca, destrezza da vero superiore alla mia.
Qui gli dissi: — «Ebbene, Venerdì, volete tornarvene al vostro paese?»
Fece occhi instupiditi a tale proposta, e credo fosse perchè quella navicella gli sembrava troppo piccola per una traversata sì lunga.
In fatti gli soggiunsi che ne aveva una più ampia; e nel giorno seguente lo condussi laddove giacea la prima barca che fabbricai senza riuscire a vararla. Questa gli parve grande abbastanza; ma c’era un altro guaio: rimasta quivi da ventitrè o ventiquattro anni, e non me ne avendo io preso veruna cura, il sole l’area sconnessa e inaridita sì, che potea quasi dirsi andata a male. Venerdì ciò non ostante m’assicurò che quel la barca potea portare grande quantità di pane, di beveri e di cibori, parole del suo dizionario.
In somma io era allora sì fermo nel mio divisamento di andare con lui al continente, che gli dissi:
— «Con questa no, ma una simile a questa la fabbricheremo e dentro essa ve ne tornerete a casa.»
Non rispose una parola, ma si fece serio e malinconico. Gli chiesi che cosa avesse, ed egli chiese a me:
— «Per che cosa in collera con Venerdì? Che cosa avervi fatto?
— Io non sono niente in collera con voi.
— Non in collera! non in collera! Perchè dunque voler mandare Venerdì a suo paese?
— Ma non vi auguravate voi stesso di esservi?
— Sì, augurare esservi tutt’e due; non augurare Venerdì là e padrone qui!»
In una parola non voleva intenderla di partire senza di me.
— «Io andar là, Venerdì! a far che?
— A far che? mi rispose con la massima vivacità. A far bene grande! A far buoni e mansueti uomi selvaggi! A far loro conoscere Dio, pregar Dio e vivere vita nuova!
— Oh Dio! Venerdì, tu non sai quel che tu dica. Non sono nulla meglio d’un ignorante io medesimo.
— Mai più! Voi aver insegnato me il bene; insegnare il bene loro!
— No, no, Venerdì; andrete senza di me; lasciatemi vivere qui solo, come ho fatto in passato.»
Rimase confuso non si può dir quanto all’udire questa dichiarazione; poi tratto a mano un de’ coltelli ch’era solito portare, me lo presentò.
— «Che cosa ho a farmi di questo coltello? gli chiedo.
— Ammazzar Venerdì!
— Perchè ammazzarlo? soggiunsi.
— Perchè volerlo mandar via? ripetè con forza. Ammazzare Venerdì, sì! mandar via Venerdì, no!»
Con tanta veracità di affetto diceva queste cose, che gli vidi gli occhi molli di pianto. In fine scopersi sì pienamente e l’affezione di quel poveretto per me e la ferma risoluzione di non lasciarmi, che lo assicurai e allora e più volte appresso del mio stabile proposito di non privarmi di lui, fintantochè fosse rimasto volentieri con me.