Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Capitolo XXIII
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XXIII.
Qualità fisiche e coltura esteriore.
Dirò ancora una parola del mio fisico. Ero sano senza essere robusto, nè alto nè basso, non bello, ma senza alcuna bruttezza rimarcata e in somma ero un uomo come gli altri. Se avessi avuta una statura eminente, overo una leggiadria decisa di forme probabilmente ne sarei andato superbo, ma ero troppo astuto per mostrare di avere in pregio quelle qualità che non possiedevo. Pertanto fui sempre disprezzante dei requisiti del corpo e di quanto non dipendeva dallo spirito, e mai mi avvilii alla sequela studiata delle mode e alla ricerca di ornamenti vani. Dicevo che l’apparatura abbelliva le Chiese e le camere, e che l’ornamento dell’uomo erano la ragione e le azioni buone. Fedele e forse ostinato nella applicazione di questo principio alla età di diciotto anni mi vestii tutto di nero, e così ho vestito sempre e vesto, sicchè chiunque non mi conobbe fanciullo non mi vide coperto con abiti di altro colore. Portai la spada ogni giorno come i cavalieri antichi e fui probabilmente l’ultimo spadifero dell’Italia, finchè nel 1798 sotto il Governo repubblicano questo costume nobile e dignitoso decadde affatto. Al mio sarto ho lasciata sempre la cura di tagliarmi gli abiti a suo modo ordinandogli solo di evitare qualunque ombra di affettazione, e mai ho saputo, come adesso non so, in qual foggia si vestano gli uomini di buon gusto. Avrei creduto di avvilirmi donando un minuto di pensiero a queste meschinità e tutti quei galantuomini che ho veduto occuparsene seriamente mi hanno fatto pietà. Si deve vestire nobilmente e decorosamente, e si deve evitare di rendersi ridicolo cadendo in qualunque estremo ma chi perde il tempo nell’illustrare le vere o pretese bellezze del corpo dimostra che non può o non sa impiegarlo in coltivare quelle dell’animo.