Asolani/Libro terzo/XVI

Libro terzo - Capitolo XVI

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E senza dubbio, figliuolo, se tu, il velo della mondana caliggine dinanzi a gli occhi levandoti, vorrai la verità sanamente considerare, vedrai alla fine altro che stolto vaneggiamento non essere tutti i vostri più lodati disii. Che per tacere di quegli amori, i quali di quanta miseria sien pieni li perottiniani amanti e Perottino medesimo essere ce ne possono abondevole essempio, che fermezza, che interezza, che sodisfazione hanno perciò quegli altri ancora, che essi cotanto cercar si debbano e pregiare, quanto Gismondo ne ha ragionato? Senza fallo tutte queste vaghezze mortali che pascono i nostri animi, vedendo, ascoltando e per l’altre sentimenta valicando e mille volte col pensiero entrando e rientrando per loro, né come esse giovino so io vedere, quando elle a poco a poco in maniera di noi s’indonnano, co’ loro piaceri pigliandoci, che poi ad altro non pensiamo, e gli occhi alle vili cose inchinati, con noi medesimi non ci raffrontiamo giamai, e infine, sì come se il beveraggio della maliosa Circe preso avessimo, d’uomini ci cangiamo in fiere; né in che guisa esse così pienamente dilettino so io considerare: pogniamo ancora che falso diletto non sia il loro, quando elle sì compiute essere in suggietto alcuno non si vedono, né vedranno mai, che esse da ogni parte sodisfacciano chi le riceve, e pochissime sono le più che comportevolmente non peccanti. Senza che esse tutte ad ogni brieve caldicciuolo s’ascondono di picciola febbre che ci assaglia, o almeno gli anni vegnenti le portan via, seco le giovanezza, la bellezza, la piacevolezza, i vaghi portamenti, i dolci ragionamenti, i canti, i suoni, le danze, i conviti, i giuochi e gli altri piaceri amorosi traendo. Il che non può non essere di tormento a coloro che ne son vaghi, e tanto ancor più, quanto più essi a que’ diletti si sono lasciati prendere e incapestrare. A’ quali se la vecchiezza non toglie questi disii, quale più misera disconvenevolezza può essere che la vecchia età di fanciulle voglie contaminare, e nelle membra tremanti e deboli affettare i giovenili pensieri? Se gli toglie, quale sciocchezza è amar giovani così accesamente cose, che poi amare quelli medesimi non possono attempati? e credere che sopra tutto e giovevole e dilettevole sia quello, che nella miglior parte della vita né diletta né giova? Ché miglior parte della vita nostra è per certo quella, figliuolo, in cui la parte di noi migliore, che è l’animo, dal servaggio de gli appetiti liberata, regge la men buona temperatamente, che è il corpo, e la ragione guida il senso, il quale dal caldo della giovanezza portato non l’ascolta, qua e là dove esso vuole scapestratamente traboccando. Di che io ti posso ampissima testimonianza dare, che giovane sono stato altresì, come tu ora sei; e quando alle cose, che io in quegli anni più lodar solea e disiderare, torno con l’animo ripensando, quello ora di tutte me ne pare, che ad un bene risanato infermo soglia parere delle voglie che esso nel mezzo delle febbri avea, che schernendosene conosce di quanto egli era dal convenevole conoscimento e gusto lontano. Per la qual cosa dire si può che sanità della nostra vita sia la vecchiezza e la giovanezza infermità; il che tu, quando a quegli anni giugnerai, vederai così esser vero, se forse ora veder no ’l puoi.