Asolani/Libro terzo/IX

Libro terzo - Capitolo IX

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Detta questa canzone, volea Lavinello a’ suoi ragionamenti ritornare, ma la Reina, che del suo dire di tre canzoni nate ad un corpo non s’era dimenticata, essendonele questa piaciuta, volle che egli eziandio alle altre due passasse, onde egli la seconda in questa guisa incominciando seguitò, e disse:

Se ne la prima vogha mi rinvesca
L’anima desiosa, e pur un poco
Per levarmi da lei l’ale non stende,
Meraviglia non è, di sì dolc’esca
Movono le faville e nasce il foco,
Ch’a ragionar di voi, donna, m’accende.
Voi sete dentro, e ciò che fuor risplende
Esser altro non pò che vostro raggio;
Ma perch’io poi non haggio
In ritrarlo ad altrui le rime accorte.
Ben ha da voi radice
Tutto quel che per me se ne ridice.
Ma le parole son debili e corte;
Che se fosser bastanti,
Ne ’nvaghirei mille cortesi amanti.

Però che da quel dì, ch’io feci imprima
Seggio a voi nel mio cor, altro che gioia
Tutto questo mio viver non è stato;
E se per lunghe prove il ver s’estima,
Quantunque ch’io mi viva o ch’io mi moia,
Non spero d’esser mai se non beato,
Sì fermo è ’l piè del mio felice stato.
E certo sotto ’l cerchio de la luna
Sorte gioiosa alcuna,
E un ben, quanto ’l mio, non si ritrova;
Ché s’altri è lieto alquanto,
Immantenente poi l’assale il pianto;
Ma io non ho dolor che mi rimova
Da la mia festa pura,
vostra mercé, Madonna, e mia ventura.

E se duro destin a ferir viemmi
Con più forza talor, di là non passa
Da la spoglia, ond’io vo caduco e frale;
Ché ’l piacer, di che Amor armato tiemmi,
Sostiene il colpo e gir oltra no ’l lassa,
Là ’ve sedete voi, che ’l fate tale.
Però s’io vivo a tempo, che mortale
Fora ad altrui, non è per proprio ingegno:
Io per me nacqui un segno
Ad ogni stral de le sventure humane;
Ma voi sete il mio schermo,
E perch’io sia di mia natura infermo,
Sotto ’l caso di me poco rimane.
Lasso, ma chi pò dire
Le tante guise poi del mio gioire?

Che spesso un giro sol de gli occhi vostri,
Una sol voce in allentar lo spirto
Mi lassa in mezzo ’l cor tanta dolcezza,
Che no ’l porian contar lingue né inchiostri;
Né così ’l verde serva lauro o mirto,
Com’ei le forme d’ogni sua vaghezza;
E ho sì l’alma a questo cibo avezza,
Ch’a lei piacer non pò, né la desvia
Cosa che voi non sia
O col vostro penser non s’accompagne,
E quando il giorno breve
Copre le rive e le piagge di neve,
E quando ’l lungo infiamma le campagne,
E quando aprono i fiori,
E quando i rami poi tornan minori.

Gigli, caltha, viole, acantho e rose
E rubini e zafiri e perle e oro
Scopro, s’io miro nel bel vostro volto.
Dolce armonia de le più care cose
Sento per l’aere andar e dolce coro
Di spiriti celesti, s’io v’ascolto.
Tutto quel che diletta, inseme accolto
E posto col piacer, che mi trastulla
Se di voi penso, è nulla.
Né giurerei ch’Amor tanto s’avanzi
Perc’ha la face e l’arco,
Quanto per voi, mio prezioso incarco;
E or me ’l par veder, ch’a voi dinanzi
Voli superbo e dica:
Tanto son io, quanto m’è questa amica.

Né tu per gir, canzon, ad altro albergo,
Del mio ti partirai,
Se quanto rozza sei conoscerai.