Libro secondo - Capitolo X
Tacquesi, dette queste parole, Gismondo, e raccogliendo prestamente nella memoria quello che dire appresso questo dovea, prima che egli riparlasse, egli incominciò a sorridere seco stesso; il che vedendo le donne, che tuttavia attendevano che egli dicesse, divennero ancora d’udirlo più vaghe. E madonna Berenice, alleggiato di sé un giovane alloro, il quale nello stremo della sua selvetta più vicino alla mormorevole fonte, quasi più ardito che gli altri, in due tronchi schietti cresciuto, al bel fianco di lei doppia colonna faceva, e sopra se medesima recatasi, disse: - Bene va, Gismondo, poi che tu sorridi, là dove io più pensava che ti convenisse di star sospeso. Perciò che, se io non m’inganno, sì sei tu ora a quella parte de’ sermoni di Perottino pervenuto, dove egli, argomentando dell’animo, ci conchiuse che amare altrui senza passione continua non si puote. Il qual nodo, come che egli si stia, io per me volentier vorrei, e perdonimi Perottino, che tu sciogliere così potessi di leggiero, come fu all’antica Penelope agevole lo stessere la poco innanzi tessuta tela. Ma io temo che tu il possa; così mi parvero a forte subbio quegli argomenti avolti e accomandati.
- Altramente vi parranno già testé, Madonna - rispose Gismondo. - Né perciò di quello che essi infino a qui paruti vi sono me ne maraviglio io molto. Anzi ora, dovendo io di questi medesimi favellarvi, sì come voi dirittamente giudicavate, a quel riso che voi vedeste mi sospinse il pensare come sia venuto fatto a Perottino il poter così bene la fronte di sì parevole menzogna dipignere ragionando, che ella abbia troppo più, che di quello che ella è, di verità sembianza. Perciò che se noi alle sue parole risguardiamo, egli ci parrà presso che vero quello che egli vuole che vero ci paia che sia, in maniera n’ha egli col suo sillogizzare il bianco in vermiglio ritornato. Perciò che assai pare alla verità conforme il dire che, ogni volta che l’uom non gode quello che egli ama, egli sente passione in sé; ma non può l’uom godere compiutamente cosa che non sia tutta in lui: adunque l’amare altrui non può in noi senza continua passione aver luogo. Il che, se per aventura pure è vero, saggio fu per certo l’ateniese Timone, del qual si legge che, schifando parimente tutti gli uomini, egli con niuno volea avere amistà, niuno ne amava. E saggi sarem noi altresì se, questo malvagio affannatore de gli animi nostri da noi scaciando, gli amici, le donne, i fratelli, i padri, i proprii figliuoli medesimi, sì come i più stranieri, ugualmente rifiutando, la nostra vita senza amore, quasi pelago senza onda, passeremo; solo che dove noi, a guisa di Narciso, amatori divenir volessimo di noi stessi. Perciò che questo tanto credo io che Perottino non ci vieti, poi che in noi noi medesimi siam sempre. La qual cosa se voi farete e ciascuno altro per sé farà, da questi suoi argomenti ammaestrato, certo sono che egli a brieve andare non solamente Amore averà alla vita de gli uomini tolto via, ma insieme con esso lui ancora gli uomini stessi levatone alla lor vita. Perciò che cessando l’amare che ci si fa, cessano le consuetudini tra sé de’ mortali, le quali cessando, necessaria cosa è che cessino e manchino eglino con esso loro insiememente. E se tu qui Perottino mi dicessi che io di così fatto cessamento non tema, perciò che Amore ne gli uomini per alcun nostro proponimento mancar non può, con ciò sia cosa che ad amar l’amico, il padre, il fratello, la moglie, il figliuolo necessariamente la natura medesima ci dispone, che bisognava dunque che tu d’Amore più tosto ti ramaricassi che della natura? Lei ne dovevi incolpare, che non ci ha fatta dolce quella cosa che necessaria ha voluto che ci sia; se tu pure così amara la ti credi come tu la fai. Nella qual tua credenza dove a te piaccia di rimanerti, senza fallo agiatissimamente vi ti puoi spaziare a tuo modo, che compagno che vi.cci venga per occuparlati, di vero, che io mi creda, non averai tu niuno. Perciò che chi è di così poco diritto conoscimento, che creda, lasciamo stare uno che ami te, o amico o congiunto che egli ti sia, ma pure che l’amare un valoroso uomo, una santa donna, amar le paci, le leggi, i costumi lodevoli e le buone usanze d’alcun popolo e esso popolo medesimo, non dico di dolore o d’affanno, ma pure di piacere e di diletto non ci sia? E certo tutte queste cose sono fuor di noi. Le quali, posto che io pure ti concedessi che affanno recassero a’ loro amanti, perciò che elle non sieno in noi, vorresti tu però ancora che io ti concedessi che l’amare il cielo e le cose belle che ci son sopra e Dio stesso, perché egli non sia tutto in noi, con ciò sia cosa che, essendo egli infinito, essere tutto in cosa finita non può, sì come noi siamo, ci fosse doloroso? Certo questo non dirai tu giamai, perciò che da cosa beata, sì come sono quelle di là su, non può cosa misera provenire. Non è adunque vero, Perottino, che l’amore che alle cose istrane portiamo, per questo che elle istrane sieno, c’impassioni.