Libro secondo - Capitolo I
A me pare, quando io vi penso, nuovo, onde ciò sia che, avendo la natura noi uomini di spirito e di membra formati, queste mortali e deboli, quello durevole e sempiterno, di piacere al corpo ci fatichiamo quanto per noi si può generalmente ciascuno, all’animo non così molti risguardano e, per dir meglio, pochissimi hanno cura o pensiero. Perciò che niuno è così vile, che la sua persona d’alcun vestimento non ricuopra, e molti sono coloro che, nelle lucide porpore e nelle dilicate sete e nell’oro stesso cotanto pregiato fasciandola e delle più rare gemme illustrandola, così la portano, per più di grazia e più d’ornamento le dare; dove si veggono senza fine tutto il giorno di quegli uomini, i quali la lor mente non solo delle vere e sode virtù non hanno vestita, ma pure d’alcun velo o filo di buon costume ricoperta né adombrata si tengono. Oltre a ciò sì aviene egli ancora che, per vaghezza di questo peso e fascio terreno, il quale pochi anni disciogliono e fanno in polve tornare, dove a sostenimento di lui le cose agevoli e in ogni luogo proposteci dalla natura ci bastavano, noi pure i campi, le selve, i fiumi, il mare medesimo sollecitando, con molto studio i cibi più preziosi cerchiamo, e per acconcio e agio di lui, potendo ad esso una capannuccia dalle nevi e dal sole difendendolo sodisfare, i più lontani marmi da diverse parti del mondo raunando, in più contrade palagi ampissimi gli fondiamo; e la celeste parte di noi molte volte, di che ella si pasca o dove abiti non curiamo, ponendole pure innanzi più tosto le foglie amare del vizio che i frutti dolcissimi della virtù, nello oscuro e basso uso di quello più spesso rinchiusa tenendola, che nelle chiare e alte operazioni di questa invitandola a soggiornare. Senza che, qualora aviene che noi alcuna parte del corpo indebolita e inferma sentiamo, con mille argomenti la smarrita sanità in lui procuriamo di rivocare; a gli animi nostri non sani poco curiamo di dare ricovero e medicina alcuna. Sarebbe egli ciò forse per questo che, perciò che il corpo più appare che l’animo non fa, più altresì crediamo che egli abbia di questi provedimenti mestiero? Il che tuttavia è poco sanamente considerato. Perciò che non che il corpo nel vero più che l’animo de gli uomini non appaia, ma egli è di gran lunga in questo da.llui evidentemente superato. Con ciò sia cosa che l’animo tante faccie ha, quante le sue operazioni sono, dove del corpo altro che una forma non si mostra giamai. E questa in molti anni molti uomini appena non vedono, dove quelle possono in brieve tempo essere da tutto ’l mondo conosciute. E questo stesso corpo altro che pochi giorni non dura, là dove l’animo sempiterno sempiternamente rimane, e può seco lunghi secoli ritener quello di che noi, mentre egli nel corpo dimora, l’avezziamo. Alle quali cose e ad infinite altre, che a queste aggiugner si potrebbono, se gli uomini avessero quella considerazione che loro s’apparterrebbe d’avere, vie più bello sarebbe oggi il viver nel mondo e più dolce che egli non è, e noi, con bastevole cura del corpo avere, molto più l’animo e le menti nostre ornando e meglio pascendole e più onorata dimora dando loro, saremmo di loro più degni che noi non siamo, e molta cura porremmo nel conservarle sane e, se pure alcuna volta infermassero, con maggiore studio ci faticheremmo di riparare a’ lor morbi che noi non facciamo. Tra’ quali quanto sembri grave quello che Amore addosso ci reca, assai si può dalle parole di Perottino nel precedente libro aver conosciuto. Quantunque Gismondo, forte da lui discordando, molto da questa openione lontano sia. Perciò che venute il dì seguente le belle donne, sì come ordinato aveano, appresso ’l mangiare co’ loro giovani nel giardino, e nel vago praticello accoste la chiara fonte e sotto gli ombrosi allori sedutesi, dopo alquanti festevoli motti sopra i sermoni di Perottino da’ due compagni e dalle donne sollazzevolmente gittati, aspettando già ciascuno che Gismondo parlasse, egli così incominciò a dire: