Libro primo - Capitolo XXXV
Assai avete potuto adunque comprender, o donne, per quello che udito avete, che cosa Amore si sia e quanto dannosa e grave; il quale, incontro la maestà della natura scelerato divenuto, noi uomini cotanto a lei cari e da essa dell’intelletto, che divina parte è, per ispeziale grazia donati, acciò che così, più pura menando la nostra vita, al cielo con esso s’avacciassimo di salire, di lui per aventura miseramente spogliandoci, ci tiene col piè attuffati nelle brutture terrene in maniera, che spesse volte disaventurosamente v’affoghiamo. Né solamente ne’ men chiari o meno pregiati così fa, come voi udite, anzi egli pur coloro che sono a più alta fortuna saliti, né a dorati seggi né a corone gemmate risguardando, con meno riverenza e più sconciamente sozzandogli, sovrasta miseramente e sopragrava. Per che, se la nostra fanciulla di lui si duole accusandolo, dee ringraziarnela Gismondo; se non in quanto ella contro così colpevole e manifesto micidiale de gli uomini porge poco lamentevole e troppo brieve querela. Ma io, o Amore, a te mi rivolgo, dovunque tu ora per quest’aria forse a’ nostri danni ti voli, se con più lungo ramarico t’accuso che ella non fece, non se ne dee alcun maravigliare, se non come io di tanto mi sia dalla grave pressura de’ tuoi piedi col collo riscosso, che io fuori ne possa mandar queste voci; le quali tuttavia, sì come di stanco e fievole prigioniere, a quello che alle tue molte colpe, a’ tuoi infiniti micidî si converrebbe, sono certissimamente e roche e poche. Tu d’amaritudine ci pasci; tu di dolor ci guiderdoni; tu de gli uomini mortalissimo idio in danno sempre della nostra vita ci mostri della tua deità fierissime e acerbissime pruove; tu de’ nostri mali c’indisii; tu di cosa trista ci rallegri; tu ogni ora ci spaventi con mille nuove e disusate forme di paura; tu in angosciosa vita ci fai vivere e a crudelissime e dolorosissime morti c’insegni la via. E ora ecco di me, o Amore, che giuochi ti fai? il quale, libero venuto nel mondo e da lui assai benignamente ricevuto, nel seno de’ miei dolcissimi genitori sicura e tranquilla vita vivendo, senza sospiri e senza lagrime i miei giovani anni ne menava felice, e pur troppo felice, se io te solo non avessi giamai conosciuto. Tu mi donasti a colei, la quale io con molta fede servendo sopra la mia vita ebbi cara, e in quella servitù, mentre a lei piacque e di me la calse, vissi buon tempo, vie più che in qualunque signoria non si vive, fortunato. Ora che sono io? e quale è ora la mia vita, o Amore? Della mia cara donna spogliato, dal conspetto de’ miei vecchi e sconsolati genitori diviso, che assai lieta potevano terminar la lor vita se me non avesser generato, d’ogni conforto ignudo, a me medesimo noioso e grave, in trastullo della fortuna lungo tempo di miseria in miseria portato, allo stremo quasi favola del popolo divenuto, meco le mie gravi catene traendo dietro, assai debole e vinto fuggo dalle genti, cercando dove io queste tormentate membra abandoni ciascun die, le quali, più durevoli di quello che io vorrei, ancora tenendomi in vita, vogliono che io pianga bene infinitamente le mie sciagure. Ohimè, che doverebbono più tosto, almeno per pietà de’ miei mali, dissolvendosi pascere oggimai della mia morte quel duro cuore, che vuole che io di così penosa vita pasca il mio. Ma io non guari il pascerò. -