Asolani/Libro primo/XXI

Libro primo - Capitolo XXI

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Lasciando adunque da parte con Gismondo i silogismi, o donne, al quale più essi hanno rispetto, sì come a.llor guerriere, che a voi che ascoltatrici siete delle nostre quistioni, con voi me ne verrò più apertamente ragionando quest’altra via. E perciò che, per le passioni dell’animo discorrendo, meglio ci verrà la costui amarezza conosciuta, sì come quella che egli si trae dall’aloe loro, poi che in esse col ragionare alquanto già intrati siamo e a voi piace che il favellare oggi sia mio, il quale poco innanzi a Gismondo donato avevate, seguitando di loro vi parlerò, più lunga tela tessendovi de’ lor fili. Sono adunque, o donne, le passioni dell’animo queste generali e non più, dalle quali tutte le altre dirivando in loro ritornano: soverchio disiderare, soverchio rallegrarsi, soverchia tema delle future miserie e nelle presenti dolore. Le quali passioni, perciò che sì come venti contrari turbano la tranquillità dell’animo e ogni quiete della nostra vita, sono per più segnato vocabolo perturbazioni chiamate da gli scrittori. Di queste perturbazioni, quantunque propria d’Amore sia la primiera, sì come di quello che altro che disiderio non è, pure egli, non contento de’ suoi confini, passa nelle altrui possessioni, soffiando in modo nella sua fiaccola, che miseramente tutte le mette a fuoco; il quale fuoco, gli animi nostri consumando e distruggendo, trae spesse volte affine la nostra vita o, se questo non ne viene, a vita peggior che morte senza fallo ci conduce. Ora per incominciar da esso disiderio, dico questo essere di tutte le altre passioni origine e capo e da questo ogni nostro male procedere, non altramente che faccia ogni albero da sue radici. Perciò che comunque egli d’alcuna cosa s’accende in noi, incontanente ci sospigne a seguirla e a cercarla, e così seguendola e cercandola a trabocchevoli e disordinati pericoli e a mille miserie ci conduce. Questo sospigne il fratello a cercare dalla male amata sorella gli abominevoli abbracciamenti, la matrigna dal figliastro e alcuna volta, il che pure a dirlo m’è grave, il padre medesimo dalla verginetta figliuola: cose più tosto mostruose che fiere. Le quali, perciò che vie più bello è il tacersi che il favellarne, lasciando nella loro non dicevole sconvenevolezza stare e di noi favellando, così vi dico, che questo disio i nostri pensieri, i nostri passi, le nostre giornate dispone e scorge e trae a dolorosi e non pensati fini. Né giova spesse volte che altri gli si opponga con la ragione, perciò che quantunque d’andare al nostro male ci accorgiamo, non pertanto ce ne sappiam ritenere o, se pure alcuna volta ce ne riteniamo, da capo, come quelli che il male abbiam dentro, al vomito con maggior violenza di stomacho ritorniamo. E aviene poi che, sì come quel sole, nel qual noi gli occhi tenevamo stamane quando e’ surgea, ora dilungatosi fra ’l giorno abbaglia chi lo rimira, così bene scorgiamo noi da prima il nostro male alle volte, quando e’ nasce, il quale medesimo, fatto grande, accieca ogni nostra ragione e consiglio.