Archimede (Favaro)/I
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Della più bella di tutte le isole, come chiama Diodoro la sua Sicilia, i miti, i poeti e gli storici narrarono fin dai più remoti tempi le maraviglie: ai Sicani ed ai Siculi, che primi la abitarono, vennero dai Fenici commerci, industrie e ricchezze, e i Greci vi trapiantarono l’ormai avita loro coltura.
Nella posizione tra le più favorite dell’isola, sulla costa più ridente, a cavaliere del bacino orientale e dell’occidentale del Mediterraneo, Siracusa, fondata secondo la tradizione nel 734 a. C., sconfitti che ebbe i Cartaginesi invasori e rimasta vittoriosa nella lotta contro Atene, divenne in men di tre secoli padrona del mare; e, secondata dalla favolosa fertilità dei terreni sui quali aveva esteso il suo dominio, crebbe così fiorente da divenire, se non la più cospicua, certamente una tra le più ragguardevoli colonie greche del mezzogiorno d’Italia.
E di pari passo con la potenza marittima, estesa alle coste del Tirreno non solo, ma a quelle pur dell’Adriatico, e con la floridezza dei commerci che si svolgevano financo nel bacino orientale del Mediterraneo, progredì la coltura scientifica e letteraria, favorita e tenuta in onore grandissimo particolarmente sotto il sapiente e paterno regime di Gerone II. Questi, benchè avesse sortiti modesti natali, poichè il padre suo, Ierocle, l’aveva avuto da una schiava, ebbe tuttavia brillanti occasioni di mostrare le altissime sue doti militari durante i rivolgimenti che accompagnarono la costituzione e lo sfasciamento del regno fondato in Sicilia da Pirro, e così salì rapidamente ai sommi onori: eletto stratega nel 275, volle l’elezione sua confermata dal popolo, e circondato dal favore di questo, salì al trono nel 269.
Mentre maggiormente ferveva la guerra, anzi nel più triste periodo dell’anarchia militare, quando cioè dopo la morte di Agatocle tiranno, l’isola era tutta sconvolta dalle guerre mosse dai Cartaginesi e dai Mamertini, sotto la signoria dello stratega Iceta, nacque in Siracusa Archimede.
Eutocio d’Ascalona nei commentarii ad un libro del Nostro scrive, ed in quelli ad un’opera di Apollonio ripete, che un Eraclide, nome comunissimo fra i Siciliani del tempo, probabilmente un discepolo, aveva scritta una «vita di Archimede»: era questo Eraclide forse lo stesso del quale il grande matematico scrive come di un amico di cui si serviva per trasmettere i suoi lavori a Dositeo: ad ogni modo questa «vita», come del resto quelle altre che noi sappiamo essere state scritte intorno a parecchi matematici dell’antichità, andò perduta. E perduta del pari, se pur mai la scrisse, andò la narrazione biografica che di Archimede troviamo affermato essere stata dettata da Proclo Licio.
Se tuttavia di Archimede si sa qualche cosa di più in confronto di ciò che è noto relativamente ad altri scienziati dell’evo antico, lo dobbiamo al trovarsi il di lui nome appresso gli storici per la parte che egli ebbe in grandi avvenimenti, ed ancora alla circostanza che nelle lettere premesse ai suoi lavori parla non di rado di sè medesimo. Così, per modo d’esempio, l’acuta e geniale interpretazione data or non ha molto ad un passo d’una di tali scritture, interpretazione o lettura confermata poco appresso da uno scolio a Gregorio Nazianzeno scoperto nella Biblioteca d’Oxford, permetterebbe di registrare il nome di suo padre, che sarebbe stato un Fidia astronomo, del quale è ricordata una determinazione del rapporto di grandezza tra il diametro del sole e quello della luna.
L’anno della sua nascita non ci è precisamente noto, e soltanto dal conoscere la data della sua tragica morte, che si collega ad un avvenimento storicamente bene accertato, e dal sapere d’altra parte ch’egli aveva raggiunto l’età di settantacinque anni, possiamo argomentare ch’egli abbia veduta la luce intorno all’anno 287 a. C.
Giulio Firmico, astrologo siciliano del terzo secolo dell’êra volgare, spinse i suoi vaneggiamenti fino a trarre l’oroscopo dalla nascita di Archimede, e secondo la positura dei pianeti nel momento in cui sarebbe nato (chè questo è l’elemento fondamentale dei temi astrologici), giunse a conchiudere, averlo preconizzato le stelle come ingegno eccellente nelle meccaniche. Soltanto conoscendo le fantasticherie dell’astrologia giudiziaria, si riesce a concepire come il Firmico potesse credersi in grado di argomentare quale fosse stata la congiuntura delle stelle nel momento della nascita di Archimede, scrivendone circa sei secoli dopo, mentre di tale nascita non possono dirsi sicuri nè il giorno nè l’anno.
Fra coloro che con maggiori particolari tramandarono memoria di Archimede è Plutarco, il quale tra altro ci fa sapere ch’egli fu consanguineo ed amico del re Gerone, e contro questa notizia, che fu raccolta da tutti i biografi del grande Siracusano, starebbe ciò che trovasi asserito da Cicerone: questi infatti, in un passo delle Tusculane, sul quale dovremo ritornare più innanzi, lo dice «umile omiciattolo», ponendo in certo qual modo in contrasto la bassa origine di lui con l’altissimo grado di rinomanza al quale era pervenuto; anche Silio Italico scrive che era senza beni di fortuna: sicchè le due affermazioni prese insieme parvero contraddire alla parentela regale asserita da Plutarco. Senonchè, riflettendo che Gerone stesso, se anche dal lato paterno poteva vantare chiari natali, pure da quello materno era di origine oscurissima, anzi servile, non appariscono inconciliabili le due circostanze dell’umile stato nel quale si trovava la famiglia da cui uscì Archimede e della sua parentela con colui che ai meriti proprii dovette principalmente d’essere giunto a cingere la corona regale.
Ma poichè siamo a dire della famiglia d’Archimede e dei suoi ascendenti, non vogliamo passare del tutto sotto silenzio due altre asserzioni risguardanti i suoi discendenti, per quanto strane le abbiamo giudicate fin dal primo momento che in esse c’incontrammo. Davide Rivault, che curò una edizione delle opere del sommo matematico, nella biografia premessavi, afferma essergli stato riferito da un eruditissimo greco, il quale dalla lingua ellenica aveva tradotto nella latina le vite delle sante e dei santi siciliani, che in quelle fonti è narrato, essere la vergine e martire Siracusana Santa Lucia discesa dalla stirpe d’Archimede; ma più strano ancora è che, dedicando l’autore l’edizione a Re Luigi XIII, ed avendo per certo fine cortigianesco voluto mettere in evidenza che il padre di lui era nato proprio nel giorno sacro a Santa Lucia, altri abbia così malamente interpretato il passo latino da far dire al Rivault ciò che mai eragli passato per il capo, cioè che la stirpe reale di Francia discendeva da quella di Santa Lucia, e quindi aveva nelle sue vene qualche stilla del sangue d’Archimede.
Poichè così poco ci è noto circa le origini del nostro matematico, non si dovrà attendere che positive notizie ci siano state tramandate intorno ai primi suoi anni ed all’avviamento ch’egli ricevette alle scienze. Se, come apparisce ormai indubitato, egli fu figlio di Fidia astronomo, è credibile che dal padre istesso gli sia stato istillato l’amore a quegli studii, ai quali però, per giungere, com’egli fece, a tanta altezza, dovette essere già dalla natura dotato di eccezionali disposizioni. Afferma il Linceo Mirabella che, essendo ancor giovine Archimede, venisse ripetutamente Platone in Siracusa al tempo di Dionigi tiranno, ed avendovi introdotto lo studio delle matematiche e della filosofia, contasse tra i suoi discepoli anche Archimede, il quale sotto la sua guida avrebbe fatto progressi mirabili, ed altri ripetè la medesima cosa, non riflettendo però che quando Archimede venne alla luce, Platone era già morto da circa mezzo secolo. Sicchè questa notizia potrebbe quasi fare il paio con quell’altra di origine araba, e secondo la quale il Nostro sarebbe stato figlio di Pitagora.
Sia stato però il padre soltanto maestro a suo figlio, o da altri ancora sia stato avviato alle matematiche, apparisce da quanto ci viene narrato che, particolarmente nella geometria, non solamente progredisse fin da principio in modo straordinario, ma altresì che ne fosse in così alto grado invaghito da trascurare per essa qualsiasi altra occupazione. Infatti, conforme riferisce Plutarco, ed è confermato da Massimo Tirio, a null’altro pensava che a questi suoi studii prediletti, e ciò di maniera che ovunque si ritrovava altro non facesse che tirar linee e disegnare figure geometriche, dimenticando talora perfino di prender cibo e di seguire quelle consuetudini che erano proprie degli uomini del suo tempo: ai bagni, per modo di esempio, non andava se non condotto quasi per forza, e non si assoggettava che a contraggenio alle unzioni che allora solevano praticarsi; eppure anche allora andava tracciando linee e figure nella cenere del vicino focolare, ed unto che fosse il suo corpo, seguitava sopra sè stesso a segnar figure col dito.
Non corse quindi lungo tempo ch’egli ebbe imparato tutto ciò che in Siracusa poteva essergli appreso, e le aspirazioni sue si volsero a quel gran centro di studii che esercitava una irresistibile attrazione sopra tutti gli spiriti illuminati e vaghi di coltura e progresso scientifico, cioè ad Alessandria.
Dopo la morte del magno fondatore della meravigliosa città, il vastissimo impero, ch’egli aveva conquistato con la spada, era andato diviso tra i suoi generali, e l’Egitto era toccato in sorte a Tolomeo Lago, il quale, animato da grande fervore per le scienze, dimostrò la maggiore inclinazione a proteggerne e favorirne i cultori, e così finirono per raccogliersi in Alessandria le membra sparse delle due celebri scuole, jonica e pitagorica. Ai generosi sforzi del primo dei Tolomei e dei suoi immediati successori si deve quindi se la loro capitale divenne il centro della universale coltura di quel tempo e fu la sede di quella prima scuola Alessandrina che segna una nuova êra nella storia delle scienze. Quivi infatti il famoso Museo, superbo edifizio consacrato fin dal 320 agli studii ed all’insegnamento e che si mantenne per ben nove secoli, e poco lontano da esso la grandiosa e celebre biblioteca nella quale si pretende finissero per raccogliersi ben quattrocentomila volumi.
Le matematiche, al cui progresso già a questo tempo aveva contribuito una eletta e numerosa schiera di scienziati e di filosofi, vi avevano culto particolare per merito precipuo di Euclide, il quale deve pur sempre essere considerato come il fondatore di quella gloriosa scuola, se anche non gli si voglia riconoscere originalità ed elevatezza di investigazione. Se veramente, come si trova in generale affermato, questo grande geometra visse intorno al 300 a. C., Archimede che, come narra Diodoro e confermano arabi scrittori, tra i quali Abulfaragio, visse lungamente in Egitto e vi formò la propria educazione, deve essere approdato ad Alessandria pochi anni dopo la morte dell’autore degli Elementi, e se non potè quindi esserne scolaro, fu, secondo ogni verisimiglianza, discepolo degli immediati discepoli di lui.
Perchè, sebbene nulla sappiamo di sicuro circa il tempo al quale assegnare questo primo soggiorno del Nostro in Egitto, non si va tuttavia molto lungi dal vero assumendo ch’esso abbia avuto luogo verso la fine del regno di Tolomeo Filadelfo e sotto quello di Tolomeo Evergete, cioè intorno alla metà del terzo secolo avanti Cristo. Probo infatti afferma ch’egli fu scolaro dell’astronomo e matematico Conone da Samo, ricordato anche da Virgilio, che viveva al tempo del secondo e del terzo Tolomeo: anzi è ben noto che intorno all’anno 243 a. C., subito dopo il felice ritorno di Tolomeo Evergete dalla campagna intrapresa contro Seleuco II re di Siria, finse trasportata in cielo la capigliatura che la sorella e moglie del re s’era recisa per propiziargli gli Dei, e intitolò una costellazione col nome che ancora porta di «Chioma di Berenice».
Di Conone, come pure di Dositeo, di Zeusippo e di Eratostene, è memoria, e per taluno di essi anco frequente, nelle introduzioni ad alcune fra le scritture di Archimede. Del primo egli fu verisimilmente, come s’è detto, scolaro e rimase poi sempre svisceratissimo: di lui deplora la morte dichiarandolo il solo dei suoi amici che ancora gli fosse rimasto, e tessendone l’elogio come di tale che nelle matematiche era dotato di mirabile sagacia: a proposito di un’altra delle sue scritture egli rimpiange di non averla resa di pubblica ragione durante la vita di Conone, perchè questi sarebbe stato in grado di darne giusto giudizio, e finalmente in altra occasione, accennando ad alcuni teoremi che gli aveva per lo addietro mandati, testualmente scrive: «Conone morì senza aver avuto il tempo di trovarne le dimostrazioni ed ha lasciati questi teoremi nella loro oscurità, ma se egli fosse vissuto le avrebbe indubbiamente trovate e con questa scoperta ed altre molte avrebbe allargato il campo delle cognizioni geometriche». E finchè Conone visse, Archimede gli fece sempre parte dei suoi lavori, anzi, siccome nessuno di questi è intitolato allo studioso per il quale professava così alta stima, è lecito presumere che soltanto in età avanzata egli siasi deciso a dar forma di trattati alle scoperte che veniva via via facendo nel corso dei suoi studii.
Dopo la morte del maestro, egli si rivolse a Dositeo, del quale verisimilmente era stato condiscepolo, ed anche a Zeusippo, ma nulla affatto di questi due, che saranno stati essi pure scolari del matematico da Samo, è giunto insino a noi.
Strabone asserisce, ed in questi ultimi tempi se ne sono avute ripetute conferme, che Archimede fu anche in relazione con Eratostene da Cirene, il quale da Tolomeo Evergete fu chiamato ad Alessandria per succedere al suo maestro Callimaco nella direzione della Biblioteca. Sarebbe difficile il determinare in quale ramo fosse maggiormente valente Eratostene. Chiamato «Beta», dalla seconda lettera del greco alfabeto, verisimilmente perchè giudicato secondo soltanto a Platone, gli scolari del Museo lo celebrarono con l’appellativo di «Pentathlon», cioè vincitore d’ogni sorta di ludi ginnici: così profondo negli studii di grammatica e di letteratura da voler essere per questi maggiormente celebrato, dettò trattati sopra gli argomenti più svariati: tentò, primo tra i Greci, la determinazione della grandezza della terra, e nelle scienze geografiche siffattamente si addentrò da dare, per giudizio dell’Humboldt, non solo una chiara descrizione di quanto esisteva, ma da esporre altresì ardite e felici considerazioni sopra la natura e la cagione dei mutamenti avvenuti: per quanto riguarda, finalmente, le matematiche propriamente dette, egli sembra non averne trascurato alcun ramo, ed il poco rimasto induce a deplorare maggiormente il molto perduto. Egli fu insomma e sotto ogni rispetto degnissimo che Archimede gli indirizzasse quella scrittura della quale diremo a suo tempo, e che venuta in luce più che venti secoli dopo la morte del suo autore, ha rivelato al mondo stupito un matematico ancor maggiore, se fosse possibile, di quello che le precedenti generazioni avevano ammirato.