Apologia
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S’io avessi a giustificar le mia azioni apresso di coloro che non sanno che cosa sia libertà o tirannide, io mi ingenierei di dimostrare e provare con ragioni (che molte ce ne sono) come gl’uomini non debbono desiderar cosa piú del viver politico, e in libertà per consiquenzia: trovandosi la politia piú rara e manco durabile in ogni altra sorte di governo che nella republica. E dimostrerrei ancora come, essendo la tirannide totalmente contraria al viver politico, che e’ debbono parimente odiarla sopra tutte le cose; e come gli è tanto prevaluto altre volte questa opinione che quegli che hanno liberate le lor patrie dalla tirannide sono stati reputati degni de’ secondi onori, dopo alli edificatori di quelle. Ma avendo a parlare a chi sa e per ragione e per pratica che la libertà è bene e la tirannide è male, presupponendo questo universale, parlerò particularmente della mia azione, non per domandarne premio o loda, ma per dimostrare che non solamente io ho fatto quello a che è obbligato ogni buon cittadino, ma ch’io arei mancato e alla patria e a me medesimo s’io non l’avessi fatto.
E per cominciarmi dalle cose piú note, io dico che non è alcuno che dubiti che ’l duca Alexandro, che si chiamava de’ Medici, non fusse tiranno della nostra patria; se già non son quelli che per favorirlo e per tener la parte sua ne divenivan ricchi: e quali non potevon però essere né tanto ignoranti né tanto accecati dalla utilità che non conoscessino che gli era tiranno, ma perché ne tornava bene al lor particolare, curandosi poco del publico, seguitavan quella fortuna; e quali invero erono uomini di poche qualità e in poco numero, talché non possono in alcun modo contrapesare al resto del mondo che lo reputava tiranno, né alla verità. Perché, essendo la città di Firenze, per antica possessione, del suo popolo, ne seguita che tutti quelli che la comandano che non sono eletti dal populo per comandarla, sien tiranni. Come ha fatto la casa de’ Medici, la quale ha ottenuta la superiorità della nostra città per molti anni con consenso e partecipazione della minima parte del populo, né con tutto questo ebb’ella mai autorità, se non limitata; insino a tanto che, dopo molte alterazioni e mutazioni di governi, venne papa Clemente VII, con quella violenzia che sa tutt’l mondo, per privar di libertà la patria sua e farne tiranno quest’Alexandro.
El quale, giunto che fu in Firenze, perché non si avessi a dubitare se egli era tiranno, levata via ogni civilità e ogni reliquia e nome di repubblica, e come se e’ fussi necessario per esser tiranno non esser meno impio di Nerone, né meno odiator delli uomini o lussurioso di Caligula, né men crudel di Falare, cercò di superare le sceleratezze di tutti. Perché oltre alle crudeltà usate ne’ cittadini, che non furon punto inferiori alle loro, e’ superò nel far morir la madre la impietà di Nerone: perché Nerone lo fece per timor dello stato e della vita sua, e per prevenire quel che dubitava che fussi fatto a lui, ma Alexandro commesse tanta sceleratezza sol per mera crudeltà e inumanità, com’io dirò appresso. Né fu punto inferiore a Caligula nel vilipendere e sbeffare e straziare e cittadini colli adulterî, colle violenzie, con parole villane e con minacce, che sono alli uomini che stiman l’onore piú dure a sopportare della morte colla quale al fine gli perseguitava. Superò la crudeltà di Falare di gran lunga, perché dove Falare puní con giusta pena Perillo del crudele invento per tormentare e far morire gli uomini miseramente nel toro di bronzo, si può credere che Alexandro l’arebbe premiato, se fussi stato a tempo suo: poiché lui medesimo excogitava e trovava nuove sorte di tormenti e di morte, come murare gli uomini vivi in luoghi cosí angusti che non si potessino né voltare né muovere ma si potevon dir murati insieme con le pietre e co’ mattoni, e in tale stato gli faceva nutrire miseramente e allungare l’infelicità loro piú che era possibile, non si saziando quel monstro colla morte semplice de’ sua cittadini.
Talché e sette anni che e’ visse in principato, e per libidine e per avarizia e per extorsioni, per crudeltà e impietà, si posson comparare con sett’altri anni di Nerone e di Caligula e di Falare, scegliendoli per tutta la vita loro e piú scelerati, a proporzione però della città e dell’imperio. Perché si troverà in cosí poco tempo essere stati cacciati della patria loro tanti cittadini, e perseguitati poi e morti sino in exilio; tanti essere stati decapitati senza processo e senza causa e solamente per van sospetti e per parole di nessuna importanza; altri essere stati avvelenati e morti di sua mano propria e da’ sua satelliti solamente per non aver a vergognarsi da certi che l’avevon visto nella fortuna che gli era nato e allevato. Si troveranno inoltre essere state fatte tante extursioni e prede, essere stati commessi tanti adulterî e usate tante violenzie, non sol nelle cose profane ma nelle sacre ancora, che gli apparirà difficile a giudicare chi sia stato piú: o scelerato e impio il tiranno, o paziente e vile el populo fiorentino avendo soportato tanti anni cosí grave calamità, essendo, maxime allora, piú certo ’l pericolo nello starsi che nel mettersi con qualche speranza a liberar la patria e a assecurare la vita loro per l’advenire.
Però quelli che pensassino che Alexandro non si dovessi chiamar tiranno per essere stato messo in Firenze dallo imperatore, quale è opinione che abbia autorità di investire delli stati chi li pare, si ingannano. Perché quando l’imperatore abbia questa autorità, e’ non l’ha a fare senza giusta causa, e nel particolare di Firenze non lo poteva fare in alcun modo, essendosi ne’ capitoli che fece col populo fiorentino alla fine dello assedio del ’30 expressamente dichiarato che non potessi rimettere quella città sotto la servitú de’ Medici. Oltre a che, quando bene l’imperatore avessi auto autorità di farlo e l’avessi fatto con tutte le ragioni e giustificazioni del mondo, talché fussi stato piú legittimo principe che non è ’l re di Francia, la sua vita dissoluta, la sua avarizia, la sua crudeltà l’arebbon fatto tiranno. El che si può manifestamente conoscere per l’exemplo di Ierone e di Ieronimo siracusani, de’ quali l’un fu chiamato re e l’altro tiranno: perché essendo Ierone di quella santità di vita che testifican tutti li scrittori, fu amato mentre che visse e desiderato poi che fu morto da’ sua cittadini; ma Ieronimo suo figliolo, che poteva parer piú confermato nello stato e piú legittimo mediante la successione, fu per la sua trista vita cosí odiato da’ medesimi cittadini che e’ visse e morì da tiranno: e quelli che l’amazzorono furon lodati e celebrati, dove se gli avessin morto il padre sarebbon stati biasimati e reputati parricidi. Sí che e costumi son quegli che fanno diventare e principi tiranni, contra tutte le investiture, tutte le ragioni e successioni del mondo.
Ma per non consumare piú parole in provare quello che è piú chiaro che ’l sole, vengo a rispondere a quegli che dicano, ancorché fussi tiranno, ch’io non lo dovevo ammazzare, essendo io suo servitore, del sangue suo, e fidandosi gli di me. E quali io non vorrei che portassino altra pena della invidia e malignità loro, se non che Dio gli facessi parenti, servitori e confidenti del tiranno della lor patria, se non è cosa troppo impia desiderar tanto male a una città per la colpa di pochi; poiché cercan d’obscurare la mia buona intenzione con queste calunnie, che quando le fussin vere non arebbon elle forza alcuna di farlo. E tanto piú ch’io sostengo ch’io non fu’ mai servitore di Alexandro, né lui era del sangue mio o mio parente; e proverò che non si fidò mai di me volontariamente.
In dua modi si può dire ch’un uomo sia servo o servitore d’un altro: o pigliando da lui premio per servirlo e per esserli fedele, o essendo suo stiavo; perché e sudditi ordinariamente non son compresi sotto questo nome di servo né di servitore. Ch’io non fussi stiavo d’Alexandro credo che sia assai manifesto, e manifestissimo è ancora a chi si cura di saperlo ch’io non sol non ricevevo premio o stipendio alcuno, ma ch’io pagavo a lui la mia parte delle gravezze, come gli altri cittadini; e se credeva ch’io fussi suo suddito e suo vassallo perché e’ poteva piú di me, e’ dovette conoscere che si ingannava quando noi fummo del pari. Sí che io non fu’ mai, né poteva essere, chiamato suo servitore.
Che non fussi della casa de’ Medici e mio parente è manifesto: perché gli era nato d’una donna d’infimo e vilissimo stato, da Collevecchi in quel di Roma, che serviva in casa ’l duca Lorenzo alli ultimi servizî della casa ed era maritata a un vetturale. E insin qui è manifestissimo. Dubitasi s’el duca Lorenzo, in quel tempo che gli era fuoruscito, ebbe a fare con questa serva; e se gli accadde, non accadde piú che una volta. Ma chi è cosí imperito del consenso delli uomini e delle legge che non sappia che quand’una donna ha marito, e che sia dove è lei, ancorché ella sia trista e che exponga el corpo suo alla libidine d’ognuno, che tutti e figli che ella fa son sempre giudicati e sono del marito? Perché le legge voglion conservar l’onestà quanto si può. Se adunque questa serva da Collevecchi, della quale non si sa, per la sua nobiltà, né nome né cognome, era maritata a un vetturale (e questo è manifesto e noto a tutto ’l mondo), secondo le legge umane e divine Alexandro era figliuolo di quel vetturale e non del duca Lorenzo. Tanto che non aveva meco altro interesse che non che gli era figliuolo d’un vetturale di casa Medici.
Che non si fidassi di me lo pruovo che non volse mai acconsentirmi ch’io portassi arme, ma mi tenne sempre disarmato come e’ facevon gli altri cittadini, i quali egli aveva tutti a sospetto. Oltre a questo, mai si fidò meco solo, ancorch’io fussi sempre senza arme e lui armato: ché del continuo aveva seco tre o quattro de’ sua satelliti. Né quella notte che fu l’ultima si sarebbe fidato, se non fussi stata la sfrenata sua libidine che l’accecò e lo fece mutare, contra sua voglia, proposito. Ma come poteva gli essere che si fidassi di me, che non si fidò mai d’uomo del mondo? Perché non amò mai persona, e ordinariamente gli uomini non si posson fidare se non di quegli che gli amano. Che non amassi persona e che gli odiasse ognuno, si conosce poiché gli odiò e perseguitò con veleni e sino alla morte le cose sua piú propinque e che li dovevano esser piú care, cioè la madre e il cardinale de’ Medici, ch’era reputato suo cugino.
Io non vorrei che le grandezze delle sceleratezze vi facessi pensare che queste cose fussin finte da me per darli carico; perch’io son tanto lontano da averle finte ch’io la dico piú semplicemente ch’io posso per non le far piú incredibili di quel che le son per lor natura. Ma di questo ci è infiniti testimoni, infinite examine, la fama freschissima; donde si sa per certo che questo monstro, questo portento, fece avelenar la propria madre non per altra causa se non che, vivendo, la faceva testimonianza della sua ignobiltà. Perché, ancora che e’ fussi stato molti anni in grandezza, egli l’aveva lasciata nella sua povertà e ne’ sua exercizî a lavorar la terra, insino a tanto che que’ cittadini che avevon fuggita della nostra città la crudeltà e l’avarizia del tiranno, insieme con quelli che da lui n’erono stati cacciati, volson menare all’imperatore, a Napoli, questa sua madre, per mostrare a Sua Maestà donde era nato quello el quale ei comportava che comandasse Firenze. Allora Alexandro, non scordatosi per la vergogna della pietà e dell’amore debito alla madre, qual lui non ebbe mai, ma per una sua innata crudeltà e ferità, commesse che sua madre fussi morta avanti ch’ella venissi alla presenzia dello imperatore. El che quanto li fussi difficile si può considerare immaginandosi una povera vecchia che si stava a filar la sua lana o a pascer le sua pecore; e se la non sperava bene alcuno piú dal suo figliolo, almanco la non temeva cosa sí inumana e sí orrenda. E se non fussi stato oltre al piú crudele e piú insensato uomo del mondo, e’ poteva pur condurla in qualche luogo segretamente, dove, se non l’avesse voluta tener da madre, la poteva tener almanco viva, e non volere alla ignobilità sua aggiungere tanto vituperio e cosí nefanda sceleratezza. E per tornare al proposito, io concludo che, poiché non amò né sua madre né ’l cardinale de’ Medici né alcun altro di quegli che si teneva piú congiunti, che non amò mai nessuno, e per consequenzia non si fidò mai di nessuno, perché, com’io ho detto, noi non ci possiamo fidare di quegli che noi non amiamo. Sí che io non fu’ mai suo servitore né parente; né lui si fidò mai di me.
Ma e’ mi par bene che questi che, o per esser male informati o per qualch’altro rispetto, dican ch’io ho errato a amazzare Alexandro, allegandone le sopradette ragioni, mostrino essere molto manco informati delle legge ordinate contro a’ tiranni e delle azioni lodate delli uomini, che hanno morti fino a proprî fratelli per la libertà della patria. Perché se le legge non sol permettano ma astringano el figliuolo a accusare el padre in caso che e’ cerchi d’occupare la tirannide della sua patria, non er’io tanto piú obligato a cercar di liberar la patria già serva colla morte di uno che, quand’e’ fussi stato di casa mia (che non era), ma a suo modo, sarebbe stato bastardo e lontano cinque o sei gradi da me? O se Timoleone si trovò a amazzare el proprio fratello per liberar la patria, e ne fu tanto lodato e celebrato che ne è ancora, perché aranno questi malevoli autorità di biasmarmi? Ma quanto allo amazzare uno che si fidi (el che io non dico di aver fatto; dico bene che, s’io l’avessi fatto, in questo caso ch’io non arei errato, e s’io non avessi potuto fare altrimente, l’arei fatto), io domando questi tali, se la lor patria fussi oppressa da un tiranno, se lo chiamerebbono a combattere, o se gli farebbono prima intendere che lo volessino amazzare, o se gli andrebbono deliberati per amazzarlo sapendo d’aver ancor loro a morire: o vero se e’ cercherebbono di amazzarlo per tutte le vie e con tutti li inganni e tutti li strattagemmi, pur che restassi morto e lor vivi? Quanto a me, io penso che non piglierebbon briga d’ammazzarlo né nell’un modo né nell’altro, né si può credere altrimente, poiché biasimano chi ha preso quel modo che era piú da pigliare. Se questo consenso e questa legge che è fra gli uomini santissima, di non ingannare chi si fida, fussi levata via, io credo certo che sarebbe peggio esser uomo che bestia; perché gl’uomini mancherebbono principalmente della fede, della amicizia e del consorzio, e della maggior parte delle qualità che ci fanno superiori alli animali bruti, essendo nel resto una parte di loro e di piú forza di noi e di piú vita, e manco sottoposta a’ casi e alle necessità umane. Ma non per questo vale la consequenzia che questa fede e questa amicizia si abbia a osservare ancora co’ tiranni; perché, cosí come loro pervertono e confondano tutte le legge e tutti e buon costumi, cosí gl’uomini sono obligati, contro a tutte le legge e a tutte l’usanze, cercar di levarli di terra; e quanto prima lo fanno, tanto piú son da lodare. Certo sarebbe una buona legge per e tiranni questa che voi vorreste introdurre, ma cattiva per il mondo, che nessuno debba offendere el tiranno di quegli in chi e’ si fida; perché se egli si fidassi d’ognuno, non potrebbe per vigor di questa vostra legge esser offeso da persona, e non arebe bisogno di guardie o di fortezze. Sí che io concludo che e tiranni, in qualunque modo si amazzino e si spenghino, sien ben morti.
Io vengo ora a rispondere a quegli che non dican già ch’io facessi errore a amazzare Alexandro, ma che io errai bene nel modo del procedere dopo alla morte. A’ quali mi sarà un poco piú difficile el rispondere che alli altri, perché l’evento par che accompagni la loro openione: dal qual loro si movon totalmente, senza avere alcuna altra considerazione, e ancorché gl’uomini savî sieno cosí alieni dal giudicar le cose dalli eventi che gli usino lodar le buone e savie risoluzioni, ancorché l’effetto sortisca tristo, e biasimar le triste, ancorché le lo sortiscan buono. Io voglio oltre a questo dimostrare non sol ch’io non potevo far piú di quel ch’io feci, ma ancora che s’io tentavo altro, che ne resultava danno alla causa, e a me biasmo. Dico adunque che ’l fin mio era di liberar Firenze, e l’amazzare Alexandro era ’l mezzo: ma perché io conosceva che questa era una impresa la quale io non poteva condur solo, e comunicarla non volevo per il pericol manifesto che si corre in allargar cose simili, non tanto della vita quanto del non le poter condurre in fine, io mi risolvetti di far da me insin ch’io potevo far senza compagnia, e quand’io non potevo far piú da me cosa alcuna, allora allargarmi e domandare aiuto. El qual consiglio mi successe felicemente sino alla morte d’Alexandro, e insino allora io solo ero stato suffiziente a fare quanto bisognava; ma d’allora in qua cominciai aver bisogno d’aiuto, perché io mi trovavo solo, senza amici o confidenti, e non avevo altra arme che quella spada con che io l’avevo morto. Bisognandomi adunque domandare aiuto, non potev’io piú convenientemente sperare in quegli di fuora che in que’ di dentro? Avendo visto con quanto ardore e con quant’animo lor cercavano di riaver la lor libertà, e per il contrario con quanta pazienza e viltà quegli che erono in Firenze sopportavano la servitú; e sapendo che gli eron parte di quegli che nel ’30 si eron trovati a difender cosí virtuosamente la lor libertà, e che l’eron fuorusciti voluntarî: donde si poteva piú sperare in lor che in quegli di dentro, poiché que’ vivevano sotto la tirannide, e questi volevon piú presto esser ribelli che servi; sapendo ancora che e fuorusciti eron armati, e que’ di dentro disarmatissimi; inoltre tenendo per certo che que’ di fuora volesseno unitamente tutti la libertà, e sapendo che in Firenze vi eron mescolati di quegli che volevono anche la tirannide? El che si vidde (poiché e’ vale a giudicare dalli eventi), che in tutta quella città, in tanta occasione, non fu chi si portassi, non dico da buon cittadino, ma da uomo, fuora che dua o tre.
E questi tali che mi biasimano, par che ricerchin da me ch’io dovevo andar convocando per la città el populo alla libertà e mostrar loro il tiranno morto; e voglion che le parole avessen mosso quel populo, el quale conoscano non essere stato mosso da’ fatti. Avev’io adunque a levarmi in spalla quel corpo morto a uso di facchino, e andar gridando solo per Firenze come pazzo? Dico « solo », perché Piero mio servitore, che nell’aiutarmelo amazzare s’era portato cosí animosamente, dopo il fatto, e poi che gli ebbe agio a pensare al pericolo che gli aveva corso e che ancor li parea correre, era tanto avilito che di lui io non poteva disegnare cosa alcuna. O non avev’io a pensare, essendo nel mezzo della guardia del tiranno, e si può dire nella medesima casa dove eron tutti i suoi servitori, ed essendo per sorte la notte un lume di luna splendidissimo, d’aver a esser oppresso e morto, prima ch’io avessi fatto tre passi fuora della porta? E s’io li avessi levato la testa (che quella si poteva celare sott’un mantello), dove avev’io a indrizzarmi, essendo solo e non conoscendo in Firenze alcun ch’io confidassi? Chi mi arebbe creduto? Perché una testa tagliata si trasfigura tanto che, aggiunto el sospetto ordinario che hanno gl’uomini di non esser tentati o ingannati, e maxime da me, che ero tenuto di mente contraria a quella ch’io avevo, io potevo pensare di trovare prima uno che mi amazzassi che uno che mi credessi. E la morte mia in quel caso importava assai, ché averebbi dato reputazione alla parte contraria e a quegli che volevon la tirannide, potendo parere che quel moto fussi in parte opresso e la morte di Alexandro vendicata; e cosí, procedendo per quel verso, io potevo piú nuocere alla causa che giovare. Però io fu’ di tanto contraria opinione a quella di costoro che, non ch’io pubblicassi la morte di Alessandro, io cercai d’occultarla el piú ch’io potetti in quello instante; e portai meco la chiave di quella stanza dove gli era rimasto morto, come quello che arei voluto, se fussi stato possibile, che in un medesimo tempo si fussi scoperto e ch’el tiranno era morto e si fussi inteso che e fuorusciti eron mossi per venire a recuperar la libertà. E da me non restò che cosí non fusse.
Certi altri dicano ch’io dovevo chiamar la guardia del tiranno, e mostrargliene morto, e domandar loro che mi conservassino in quello stato come successore, e insomma darmi loro in preda; e dipoi, quando le cose fusseno state in mio potere, ch’io avessi restituita la repubblica, come si conveniva. Questi che la discorrono per questo verso almanco conoscano che nel populo non era da confidare in conto alcuno; ma e’ non conoscon già che se que’ soldati in que’ primi moti, e pel dolore del veder là morto el lor signore, avessin morto me, come è verisimile che gli averebbon fatto, che io averei perso insieme la vita e l’onore; perché ognuno averebbe creduto ch’io avessi voluto far tiranno me e non liberar la patria: dal qual concetto cosí come io sono stato sempre alienissimo nel mio pensiero, cosí mi sono ingegnato di tenerne lontani e pensieri delli altri.
Sí che nell’un modo io averei nociuto alla causa, e nell’altro all’onor mio. Ma io confesserei facilmente d’aver errato non avendo preso un di questi o simil partiti, s’io non avessi auto da sperare che e fuorusciti dovessin finir meco l’opera ch’io avevo cominciata; perché avendoli io visti cosí frescamente a Napoli venir con tanta reputazione e con tanto animo e cosí unitamente a ridomandar la lor libertà in presenzia del tiranno, che era non sol vivo ma genero dell’imperatore a chi e’ la domandavano, oh non avev’io a tener per certo che, da poi che gli era morto e che l’imperatore era in Spagna e non a Napoli, che gli avessino a raddoppiare e la prontezza e l’animo ch’io avevo visto in loro, e che dovessin venire a ripigliar la lor libertà dove e’ non avevon piú contrasto? Certo e’ mi parrebbe essere stato maligno s’io non avessi sperato questo da loro, e temerario s’io non avessi preso questo partito prima ch’alcun altro.
Io confesso che non mi venne mai in considerazione che Cosimo de’ Medici dovesse succedere a Alexandro; ma quand’io l’avessi pensato e creduto, io non mi sarei governato altrimenti, dopo alla morte del tiranno, che come io feci: perch’io non mi sarei immaginato che gl’uomini ch’eron reputati savî dovessin preporre alla vera, presente e certa gloria, la futura, incerta e trista ambizione.
Egli è altrettanta differenza dal discorrere le cose al farle, quanta ne è dal discorrerle inanzi a dopo il fatto. Però quelli che discorrono ora cosí facilmente quello ch’io dovevo fare allora, se si fussin trovati in sul fatto, arebbono un po’ me’ considerato quant’era impossibile sollevare un populo sbigottito, avilito, battuto, disarmato, diviso, che si trovava in corpo una guardia e in capo una fortezza che gli era di tanto maggiore spavento quanto la cosa era tanto piú nuova e insolita a Firenze. E tanto piú era a me difficile, che oltre al portare el nome de’ Medici ero in concetto d’amator della tirannide. E cosí quelli che discorron le cose dopo el fatto, e veggono che le son mal successe, se mi avesseno auto a consigliare allora, quando gli arebbon visto da una banda tanta dificultà, dall’altra e fuorusciti con tanta reputazione, in tanto numero, così ricchi, cosí uniti per la libertà, come tutt’l mondo credeva, e che non avevano ostacolo alcuno al tornare in Firenze poi che ’l tiranno era levato via, io credo che sarebbono stati di contraria opinione a quella che e’ sono ora.
E insomma la cosa si riduce qui: che dove e’ volevono che io solo e disarmato andassi svegliando e convocand’l populo alla libertà, e ch’io mi opponessi a quelli che eron di contraria opinione (il che era impossibile), io lo voleva fare in compagnia de’ fuorusciti e col favore delli uomini del dominio, quali io sapevo che eron la maggior parte per noi. E se noi fussin tornati alla volta di Firenze con quella celerità e resoluzione che si ricercava, noi non trovavamo fattoci contro provedimento alcuno; né la elezione di Cosimo, che era cosí mal fondata e cosí fresca, ci poteva nuocere o impedire. Se adunque io avessi trovati e fuorusciti di quell’animo e di quella prontezza che dovevano essere (e che era però la maggior parte di loro, ma quegli che potevon manco) quando e’ non avessin auto altre qualità che esser fuorusciti, nessun negherà che la cosa non fussi successa a punto come io m’ero imaginato. El che si può provare e con molte altre ragioni che, per non esser troppo lungo, si lasciano, e per il caso di Montemurlo; perché, dopo molti mesi che e’ dovevano, e da poi che gli avevan lasciato acquistare alli adversarî, oltre alle forze, tanta reputazione quanta loro ne avrian presa, succedean egli di liberar Firenze se la malignità o l’inetta ambizione di pochi non avessi data alli adversarî quella vittoria che lor medesimi non sperorno mai. E quali, quando e’ si viddon vincitori, non potevono ancor creder d’aver vinto; tanto che e fuorusciti persono una impresa che da ognuno era giudicata che non si potesse perdere. Però chi non vorrà di nuovo giudicare secondo gli eventi, conoscerà che se allora gli arebbon rimesso Fiorenza in libertà (se si fussin saputi governare), tanto piú era la cosa certa se dopo alla morte d’Alexandro immediate gli avessin fatto la metà dello sforzo che feciono allora: el che e’ non feciono quando e’ dovevano perché non volsono, ch’altra ragione non se ne può allegare.
Ancor voglio io confessare a questi tali d’essermi mal governato dopo alla morte di Alexandro, se lor confessono a me d’aver fatto questo medesimo iudizio in quello stante che gli intesono ch’io l’avevo morto e ch’io m’ero salvo. Ma se e’ feciono allora iudizio in contrario, e se parve loro ch’io avessi fatto assai a amazzarlo e salvarmi, e se giudicorono subito, essendo fuora tanti cittadini cosí potenti e di tanta riputazione, che Firenze avesse riauta la libertà, io non voglio lor concedere ora che si ridichino, né che pensino ch’io mi partissi di Firenze per poco animo o per soverchio desiderio di vivere; con ciò sia che mi stimerebbono di troppo poco giudizio se volessino ch’io avessi indugiato insino a allora a conoscere che quello ch’io trattavo si trattava con pericolo. Ma se e’ considereranno tutto, e’ conosceranno ch’io non pensai mai alla salute mia piú di quello che è ragionevol pensarvi; e s’io me ne andai dipoi in Costantinopoli, io lo feci quand’io vidi le cose non solo andar a mal camino, ma disperate; e se la mala fortuna non mi avessi perseguitato insin là, forse che quel viaggio non sarebbe anche riuscito vano.
Per tutte queste ragioni io posso piú presto vantarmi d’aver liberato Firenze avendola lasciata senza tiranno, che non posson lor dire ch’io abbia mancato in conto alcuno; perché non solo io ho morto il tiranno, ma io sono andato io medesimo a exortare e sollicitare quegli ch’io sapevo che potevano, e pensavo che volessino, far piú delli altri per la libertà della patria loro. Che colpa è la mia adunque s’io non gli ho trovati di quella prontezza e di quello ardore che gli avevono a essere? Oh che piú ne poss’io? Guardisi in quel ch’io ho avuto a far da me e in quel ch’io ho potuto fare senza l’aiuto d’altri, s’io ho mancato. Nel resto non domandate dalli uomini se non quel che possono; e tenete per certo che se mi fussi stato possibile fare che tutti e cittadini di Firenze fussino di quell’animo inverso la lor patria che doverebbono, che cosí come io non ebbi rispetto, per levar via il tiranno (ch’era ’l mezzo per conseguire el fine propostomi), mettere a manifesto pericolo la vita mia e lasciare in abbandono mia madre, e mia fratelli e le mia piú care cose, e metter tutta la mia casa in quella rovina ch’ella si truova al presente, che per il fine stesso non mi sarebbe parso fatica spargere el proprio sangue e quello de’ mia insieme, essendo certo che né lor né io aremo potuto fornir la vita nostra piú gloriosamente che per servizio della patria.