Capitolo XXXVII

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XXXVI XXXVIII


L’aspettare dagli uomini impulsi reiterati e chiamate da Dio più e più chiare, in uomo sì veggente del nuovo, sì innamorato del meglio, e abituato a esercitare autorità sopra altri uomini, dimostra e prudenza e astinenza rara, e un vero concetto del grande, e piena fiducia in Dio e nelle cose che son suo linguaggio, e anche coscienza delle proprie forze e della propria debolezza. Aveva già raccolto intorno a sè una Società il cui fine era il miglioramento del clero, per fare quasi saggio e d’altri e di sè. Sperimenti tali possonsi notare come legge alla vita degli uomini singolari, della cui grandezza è segno il non si affrettare troppo, il distendere sotterra le radici ben ferme innanzi di spandersi in rami fruttiferi. Aveva il Rosmini ricevuti anche da Pio VIII conforti, il quale gli confessava che la Chiesa presente scarseggia di scrittori sodi, e doversi nel nostro secolo prendere gli uomini con la ragione. Intendeva forse il Papa di dire che i sussidi del ragionamento e di tutte le scienze umane debbono essere non dispregiati da preti, anzi esse scienze dalla fecondità d’un fine universalissimo, d’una carità ingegnosamente magnanima e infaticabilmente animosa nobilitate e ampliate; non già che con sola la ragione possansi gli uomini guadagnare, non che all’esercizio del bene, alla venerazione del Vero; al che debbono insieme concorrere le forze del raziocinio e dell’affetto e sin della fantasia, e le civili benemerenze, e le stesse utilità materiali negli uomini propagate.

Nel vensette conobbe il Rosmini in Milano un prete Lorenese, disposto anch’esso a una qualche nuova istituzione; e quel Polidori che già indicai come vincolo tra Loreto e Sebenico, fece abboccarsi il prete Francese e il Roveretano; e s’intesero; e sul monte di Domodossola si posero insieme, incominciando l’opera dal voler migliorare sè stessi. Il Lorenese poi, quando si fu allo stringere de’ voti, si dileguò amicamente, temendo che quel legame gli togliesse libertà d’operare il bene da sè: ma dopo molti anni scriveva di Francia, d’avere una Casa di suo, profferirla al Rosmini e a’ suoi, contento d’una stanza e del potere nel loro consorzio finire la vita. Un terzo compagno nel trenta s’era aggiunto, il Molinari già prete, spacciato da’ medici; al quale il Rosmini, invitandolo, disse: vi curerò; per quella fiducia che l’affetto ispira, e per quel presentimento che fa il cuore presago e acuisce i consigli, e anco per quell’istinto d’osservazione che aiuta gl’ingegni rari a discernere fin nel mondo de’ corpi cose che i periti e gli scienziati di mestiere non veggono. Dal ventotto al trentatrè visse, tranne il soggiorno di Roma, il Rosmini in cima a quel monte, sotto un tetto mal difeso dalle intemperie, mezzo in ruina, visse in astinenza ancor più del solito austera, senza mostrare d’accorgersi per ben tre mesi di minestra non condita di sale, accomodandosi a spazzare la casa, come il Muratori la Chiesa. A un chierico infermiccio lavava con le sue mani i piedi, andava in cucina egli stesso con quel medesimo animo che faceva tutti i dì la sua ora di meditazione, inginocchiato, reggendosi sopra sè senza appoggiare le braccia. Ma quella soave intensione di mente a lunghi voli nell’alto dell’idea e dell’affetto (e anco chi non ci crede, deve pur confessare, quello che a lui pare vuoto, essere altezza), quella intensione gli faceva più agile la mente eziandio al discorso degli umani pensieri.