Antonio Rosmini/XLI
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Quanto ai dolori dell’animo, non è già che il Rosmini non li sentisse, o volesse far le viste di non li sentire, sincero in ogni cosa, e da affettazione alieno; ma i suoi dolori eran altro da quel che potesse parere a taluni, per ciò stesso più profondi, ma insieme compensati da consolazioni più alte. Il buono ne’ dolori è non pure più tranquillo che altri non sia nelle gioie, ma è più felice; perchè ha le sue gioie ineffabili la sofferenza. Addestrato fin da giovane a patire il tedio, ch’è sorgente delle più acri infelicità; abituato alla signoria di sè stesso, alla libertà non pure dal giogo della materia, ma e dalla tirannia dello spirito proprio; e’ non avrebbe potuto persuadere a chi non sapesse indovinarlo, quanto i suoi fossero diversi dai dolori volgari. Uno appunto dei tedii delle anime forti è l’accorgersi ch’altri ti creda soverchiamente amareggiato e ne patisca per te, e tu patire della sua compassione e non trovar modo da dimostrargli che in quell’amaro è misto un dolce più puro d’ogni dolcezza; e intanto non sapere se la parola o il silenzio valgano meglio a disingannare chi t’ama. Da questo segreto impaccio dell’affetto il Rosmini si sviluppava col senno del cuore, e trovava parole poche e umili ma efficaci per significare sè non ingrato all’altrui pietà e non abbisognante di quella.
Un giorno a un suo intimo: non sono afflitto; non pensate a me: parole tanto più credibili quanto più semplici, e semplici perchè profonde. Il buono è dolente, ma non afflitto; fin negli spasimi non s’abbatte, e si regge sopra di sè; esercitando più vigorosamente la vita della virtù, sente più salda la virtù della vita. Nessun disinganno gli era toccato, perchè fin dagli anni delle illusioni egli aveva dimostrata ad altri e a sè la vanità angosciosa di quella speranza che è mantice agli affanni del timore, e da cui col timore insieme prorompono ira e odio; e fin negli anni che ad altri apportano la verità di ingrate esperienze, egli nutriva quella speranza fortemente tranquilla che il cristianesimo fece virtù, che unifica la fede e l’amore. Onde la speranza di lui era conciliata con la rassegnazione in modo divino, perchè non opera del filosofo o dell’uomo ma di quel Dio nel quale egli s’abbandonava. E, finchè i medici lo speravan essi, sperò di vivere per continuare i lavori e i patimenti; anche diffidato da loro, sperò nelle orazioni de’ buoni; quando vide di lontano venire la morte, venerò in essa Dio, e sperò di morire.
Diceva a’ suoi che, vivesse cent’anni, avrebbe sempre nuove opere da dettare: e chi vede nelle già scritte i germi di verità non isvolti ma compiutamente formati nell’essere loro, chi fruì de’ colloqui di lui, gliene crede. E i suoi dolori, fosser anco più acuti, e’ gli avrebbe vinti e sopiti con le gioie che provava indicibili dello scrivere, gioie sempre crescenti con la comprensione della sua mente e con l’amore alla sempreppiù degnamente contemplata verità. Per questo anzi poteva, se men rassegnato, essergli amara la morte, perchè l’umiltà non gli poteva nascondere la novità e l’importanza delle cose che Dio gli ispirava; era umiltà non di quella che bene egli chiama falsificata: sapeva che l’ingegno non è dell’uomo ma del cielo e della nazione e dell’aria e degli educatori, e che l’uomo da sè non saprebbe che sciuparlo e abusarne: sapeva che quel ch’è da meno, vede ciò che non vide quegli che sa di più; e che un fanciullo può benissimo notare l’errore d’un filosofo; ma vedeva insieme che i suoi concetti eran utili, sentiva il bisogno di compiere almeno l’Ontologia, e chiedeva otto giorni di tempo, e non li ebbe. E pure si rassegnò, forse pensando che altri avrebbe poi svolte le sue idee più liberamente, e però con più merito ed efficacia, accomodandole all’intelligenza de’ più e al bisogno de’ tempi. Non tutti i grandi fanno scuola, parecchi de’ più grandi non subito; nè egli sapeva o voleva o poteva farsi di molti seguaci, tropp’alto insieme e troppo umile. Ma certamente sentiva che, volendo Dio la sua morte, il meglio era morire; e diceva: s’io vivessi di più, non farei che male; conoscendo che il men bene, o il bene fatto troppo al medesimo modo e da un solo, può esser male anche quello.
Il suo vero dolore, il meno comprensibile a certuni, era il pensiero del danno che da certe differenze poteva esser fatto al culto della verità, e segnatamente a quello dell’idea cristiana: ma in questo pure aveva conforti sovrabbondanti a’ dolori. Perchè, quanto a’ suoi cari, egli li rimetteva nelle mani di Dio con tale fiducia che, contentandosi di raccomandarli all’affetto d’un amico privato, il prof. Corte, dotto e degno uomo ma senza autorità nè di chiesa nè di corte, pur come amici, contento di rammentare una volta il suo povero Istituto, non ne moveva parola se non interrogato, nè di quello, nè delle opere che lasciava imperfette; e ciò mentre ch’era tanto presente a sè stesso da voler sapere infino all’ultimo e delle lettere e degli ospiti che capitavano, raccomandando che a questi fosse usato ogni cura. E quanto alla sorte della Chiesa, la sua fede era ferma; e, malato, grave, dava a un amico per soggetto d’un libro la vita del Cristianesimo perpetua e sempre maggiormente feconda. Perchè erano sue massime, non solamente che l’uomo quanto a sè deve essere rassegnato e a breve e a lunga vita, che dee avere scritte nella mente le ragioni della propria insufficienza e inutilità, che tanto della privazione de’ beni anco spirituali dev’egli godere, se voluta da Dio, quanto del loro acquisto; ma ch’egli ha a tenersi in perfetta tranquillità, in gaudio pieno, senza ansietà, nè anche quella che par riguardare il solo bene della Chiesa, allorchè paia a lui combattuta ed oppressa. Anima tale aveva con che sostenere ogni assalto, come città che, dietro ai primi munimenti appena intaccati, altri più inespugnabili ne ha già belli e fatti. Poche le vite anco di lodati per interiore fortezza, così uguali a sè stesse; e che meglio avverino il detto: pace e concordia dell’animo, è grandezza con mansuetudine1.