Angelica (Aretino)/Canto primo
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1
Io vorrei dir la donna ch’ebbe il vanto
di leggiadra et angelica bellezza,
la qual l’amato ben sospirò tanto
che depose la gioia e l’alterezza,
et imparato a pianger con quel pianto
che ad altri insegnò già la sua durezza:
Medor pur chiama in suon languido e fioco,
che non l’ascolta e ’l suo mal prende a gioco.
2
Ma non lice ch’io scriva o ch’io favelle
se pria non porgo i caldi prieghi miei
al chiaro Alfonso, per sue opre belle
già nel numero eletto de gli dei,
che, asceso nel collegio de le stelle,
quel valor, di che lampa et idol sei,
sí come al mondo face alzar le ciglia,
cosí il cielo empierà di maraviglia.
3
O de i gentili spirti unica spene
e de le lor memorie alto sostegno,
che senza il favor tuo non si conviene
ne le carte spiegar penna d’ingegno,
come a bearti il dí prescritto viene,
in qual pianeta, in qual cielo, in qual segno
apparirai nel tuo lucente seggio,
a cui l’alma inchinar col mondo deggio?
4
Ciascuna stella vorrà loco farti
tosto ch’a gir lassuso il volo pigli:
se in vece de la Libra vuoi locarti
a sé ritirerà Scorpio gli artigli.
Ma devi, giunto a quelle sante parti
u’ gli eterni udirai di Dio consigli,
risplender dove i giusti prieghi e i voti
possa meglio ascoltar de i tuoi devoti.
5
Benché translato in ciel, forse vorrai
regger la terra o porre a l’acque il freno
(de l’abisso non parlo, che non hai
desio d’ivi regnar nel real seno).
Ma ora aita - qual che tu sarai,
che mortal uom non l’antivede a pieno -
l’umile musa mia fatta superba
per la divinità che il ciel ti serba.
6
Piovi, Signor, de la tua grazia rara
sopra me sí ch’io scorga quelle vie
dove debbo por giú con lode chiara
il fascio alter de le fatiche mie.
Or di ricever le mie note impara
ne le tue caste e grate orecchie pie,
acciò tu riconosca dal ciel poi
le voci ch’io ti porgerò fra noi.
7
Già sento un nuovo ardor ne l’intelletto
che ’l move a dir d’Angelica, che spinse
sé ad amar con tanto audace affetto
Medor, che sí di foco il cor le cinse
ch’al giogo marital sotto umil tetto,
qual piacque al ciel, seco s’offerse e strinse,
né avendo di lui piú caro pegno
li fe’ don del diadema del suo regno.
8
La Fama, vaga de sí nuova cosa,
tosto divolga in questa parte e in quella
come s’è fatta d’un vil moro sposa
Angelica e ciascun di ciò favella;
né si creda però che stesse ascosa
a i fidi servi suoi l’empia novella,
anzi l’udir tanto de gli altri in prima
quanto di lei fan piú de gli altri stima.
9
Ma il caso a passion varie movea
qualunche l’ode e seco ne bisbiglia:
chi per fama la donna conoscea
ha del fin del suo amor gran meraviglia;
chi la vide del ben ch’altri n’avea
meraviglia et invidia insieme piglia;
chi l’ama e intende di chi sposa ella era
n’ha invidia, meraviglia e doglia fera.
10
Quella fu doglia, quella invidia fue,
quella fu meraviglia che ne l’alma
ebber color che le bellezze sue
inchinar come cosa del cielo alma,
né gli ritenne alcun dubbio infra due
con sí e no, ma ne l’aperta palma
par ch’avesser il ver - cosí si crede -
dando a quel che n’udiro intera fede.
11
S’amanti provar mai tormenti fieri,
con lagrime provargli e con sospiri
d’Angelica gli accesi cavalieri,
che meritar corona di martíri,
quel dí che in mezzo de’ lor cori alteri,
già colmi di speranze e di desiri,
sonò come il felice e bel Medoro
sentiti i frutti avea del sudor loro.
12
Ma dentro a gli arsi e disdegnosi petti
l’amorosa et acerba pena dura,
benché egual fosse, fe’ diversi effetti,
forse perché diversa ebber natura.
Orlando, primo infra gli amanti eletti,
non come gli altri udí l’alta ventura
del garzon fortunato: ei vide espresso
quel che ’l fece uscir tosto di se stesso.
13
Ei vide l’antro ove a la donna piacque
bear chi ell’ama; ei lesse l’epigramma
in cui Medoro il suo gioir non tacque,
il suo gioir che altri a dolersi infiamma;
nel letto ei fu dove la coppia giacque;
egli udí, sé struggendo a dramma a dramma,
l’istoria dal pastor de la sua dea;
vide il cierchio ch’al braccio essa tenea.
14
Onde sí fiero duolo e sí possente
assalse il cor de l’infiammato conte,
che, mancatoli il pianto e ’l suon dolente
del sospirare e le querele pronte,
mosse in tanto furor che follemente
scoperse ignude le sue membra conte
e se pietà celeste non avia
cura di lui, restava in tal follia.
15
Ranaldo, mentre il comun grido ascolta,
in preda al duol qual l’inesperto Orlando
non diede sé, che esperienzia molta
avea in amar, però fu saggio amando:
ei pianse ben, no già con voce sciolta,
ma con suono interrotto sospirando;
premendo il duol che l’anima gli afflisse
con la lingua si tacque e col cor disse.
16
Fatto a la fin con la sua doglia tregua,
quasi uom ch’ha pur di sé qualche pietade,
" Sarà mai " dice " che piú ami o segua
donna che vive sol di crudeltade
e da gli uomini illustri si dilegua
perché goda de l’alta sua beltade
un garzon peregrino, un senza nome,
sol per aver begli occhi e belle chiome? ".
17
Cosí dicendo sente por la mano
del giusto sdegno nel suo nobil core
e per l’atto d’Angelica villano
svegliarne a forza il desleale amore,
né piú gli par che il dolce viso umano
vinca il lume del sol col suo splendore,
anzi non può soff[e]rir che alcuno dica
ch’ella fosse giamai bella o pudica.
18
L’ultimo a udire il fatto è Sacripante,
in cui fan nido i nobili costumi,
che né Marte né Amor si scorge inante
servo che il nome piú gli impenni e allumi.
Il sacro re, il singulare amante
sen gía solingo, ne i bei dolci lumi
d’Angelica il pensier fisso tenendo,
di gelosia come d’amor ardendo.
19
E mentre per drittissimo camino
va de la donna sua cercando l’orme,
un bel boschetto a sé scopre vicino,
che d’un picciol teatro ha natie forme
e s’alcun v’entra stanco e peregrino
ivi s’arresta, ivi s’adagia e dorme,
tosto ponendo ogni noia in oblio
al suon d’un chiaro e fresco e dolce rio.
20
Par che il bel rio col mormorar suo lento
chiami a posarsi ogniun ch’al bosco arriva
e par che da le frondi, u’ spira il vento,
piovino i sonni in grembo a l’ombra estiva;
arresta de gli augei l’almo concento
qualunque vien per la fiorita riva;
l’aria rider fa il luogo e il verde eletto
par s’offerisca e per seggio e per letto.
21
Giunto il degno et errante cavaliero
al bel boschetto verdeggiante e raro,
per quetar l’amoroso alto pensiero
a l’ombra fresca del bel sito caro
del caval smonta. Intanto ecco un corriero
che lo saluta con sembiante chiaro,
e ’l gentil Sacripante lo dimanda
chi egli è e dove va e chi lo manda.
22
- D’Angelica immortal messo son io -
l’uom fedel tutto lieto li rispose -,
che al mondo ho da far noto che d’un dio
s’è fatta sposa, come il ciel dispose;
e se l’effigie hai di veder desio
di quel ch’ella ama sopra l’altre cose,
io te la mostrerò, ma falle onore,
che l’ha con le man sue dipinta Amore -.
23
Cosí dicendo il naturale e vivo
essempio a sé trasse il corrier di seno,
il quale, per mostrar l’idol suo divo,
di leggiadria e d’alme grazie pieno,
e per far anco di speranza privo
color che tien con l’amoroso freno,
fa publicare Angelica e sol brama
che piú tosto lo veggia chi piú l’ama.
24
Quando gli occhi a l’imagine il re porse,
sparse le guancie di color di morte;
freddo sudor per le sue membra corse,
fe’ la bocca di fel, le labbra smorte,
il lume perde e di se stesso in forse
li mor la lingua e il cor li batte forte,
l’alma sua langue in passione accerba,
la lena manca, ond’ei cade in su l’erba.
25
Parve un uom che de subito s’accora,
novella udendo che non pensa udire,
che ad un tratto nel volto si scolora
e poscia cade vinto dal martíre,
stando senza potere un terzo d’ora
pur respirar, non che parola dire;
ma gli spirti a i suoi luoghi ritornando,
fa segno d’esser vivo sospirando.
26
L’altissimo signor con un sospiro
in sé riviene e fa di pianto un lago;
poi con incomprensibile martíro
prende tremando di Medor l’imago,
dicendo: - Pur l’umíl sembianza miro
di quel ch’è piú di me felice e vago,
non già piú degno. Eh! perché, crudo fato,
misero un re e un servo far beato?
27
Io mi credea che ’l valor, ch’è immortale
e non ha men che ’l sol lume né rai,
a la vaga beltà caduca e frale
si dovesse proponer sempre mai
e altier men giva di credenza tale,
che s’è valore in me tu, Albracca, il sai,
che te salvai d’Agrican fero e crudo,
del letto uscendo sol, ferito e nudo.
28
E benché lodar sé non sia permesso,
il dirò pur: dovea beato farme
Angelica per l’atto al mondo espresso
e per mille altri ch’io le ‹ho› mostro in arme;
ma, non che trapassar, non può gir presso
il valor mio a la beltà, che parme
qui sí vaga veder (se questa è vera),
di cui gioisce la mia donna fera.
29
E non s’acorge che i bei soli ardenti
di chi tanto ama e l’ostro, il qual colora
il puro latte, e i crin d’oro lucenti
e del bel viso e de la fronte ancora
l’aria e ’l sereno et i soavi accenti
che tra perle e rubini escono fora
son quasi un vago e delicato fiore
che con quel dí che nasce con quel more -.
30
Ciò detto, afflitto, mesto e lagrimoso,
dal messo, ch’ode la sua pena grave,
spia se ’l garzon piú ch’altro aventuroso
è tal qual la pittura mostra gli have;
et egli a lui: - Il giovan grazioso
che tien del cor d’Angelica la chiave
è senza par, né può la man de l’arte
tanta divinità ritrare in carte.
31
Come Angelica egli è tener d’etade,
lascivi ha gli atti, ha dolce il guardo amato
e, pien di grazie, è colmo d’onestade,
vezzoso ne l’andar, ne lo star grato,
parla soave, ha in fronte maestade,
Cupido par, anzi un angel beato,
ha d’or fino i capei, di rose il viso
et una aria che ride senza riso.
32
Medor suo nome dolcemente suona,
che tosto fia di real manto adorno,
tosto risplenderà de la corona
del gran Catai e già s’appressa il giorno.
Ma dove che io lasciai l’alta persona
d’Angelica soave in bel soggiorno
non posso dir, che mi impose al partire
che dove fosse io non ardissi dire -.
33
Chi vide uom mai vago d’intender cosa,
che teme di saperla e attento ascolta
ciò che udir non vorebbe, onde l’ascosa
picciola pena sua diventa molta,
vede il buon Sacripante, che non osa
piú il messo dimandar, con voce sciolta,
del suo cordoglio e tacendo s’accora,
che men certezza averne il meglio fora.
34
Pur sospirando alfin disse: - Riprendi
il bel ritratto e al mondo lo divolga
e tanto in ogni parte i passi stendi
che ciascuno in ver’ lui gli occhi rivolga.
S’ad Angelica poi te stesso rendi
le di’ (né ciò di mente te si tolga)
che Sacripante è de la vita privo,
che morto son bench’io rassembri vivo -.
35
Bascia il messaggio l’effigie divina
mentre il re gliela porge e con gran cura
la ripiega e ripone e poscia inchina
al cavaliere e in Francia andar procura
per ubbidir la singular reina.
Or l’amante, rimaso in pena dura,
dice non senza lagrime in suon pio:
- Chi mi consiglierà? Che far debbo io?
36
Io doverei tutto coperto d’arme,
non che al Catai (poco lontana parte),
ma in questo et in quel clima translatarme,
u’ non mai il caldo, ove il gel mai non parte,
e ’l mio aversario indi dal cor levarme
che di lei gode sí che io non vi ho parte,
mercé del ciel che a dar non si fu volto
il mio animo a lui e a me il suo volto.
37
Adunque il ciel, non la mia donna bella,
del terren paradiso unico sole,
ha colpa del mio male, e forse ch’ella
de mia speme tradita ora si dole,
perché mia sorte e sua perversa stella
ch’ella odi il gran valor consente e vole
et ami in terra beltà senza essempio.
Ma che non puote il ciel invido et empio? -
38
Spezzò un tal lamento un forte grido,
con note a l’aria dolorose e sole;
ond’ei, rivolto al suon ch’empie ogni lido,
vede uno a piè, mentre piú coce il sole,
che sen viene in ver lui e Amor infido
chiama a gran voce e sol d’Amor si dole.
Gli è Ferraú, il qual si scorge inante
quasi uom che spira il miser Sacripante.
39
Raffigurollo in farseli vicino
e nel veder come in su l’erba giace
disse ridendo: - O nobil saracino,
voi riposate a l’ombra e a l’aura in pace,
et un vil servo (ahi, nostro reo destino!
ahi, discortese Amor, crudo e fallace!)
gioisce in seno a l’empia donna nostra
e sé felice in ogni parte mostra.
40
Colei che ne fa il petto un mongibello
hassi per bel suo paradiso eletto
un servo, che solea di Dardinello
e spogliar e vestir la mensa e il letto.
Or mercé bella, or guiderdone bello
ch’ottien chi l’ama! - E mentre ha cosí detto
si morde il dito e disdegnato stride
e nell’ira e nel duol piangendo ride.
41
Ciò udendo il re, benché nel duol si stempre,
disse: - Nostra empia e sua benigna sorte
ardere et agghiacciar ne farà sempre,
né pace avrem giamai se non per morte -.
Ferraú, che con salde e saggie tempre
non regge sé, fece le luci torte,
dicendo: - In me non ha ragione alcuna
né cielo, né pianeta, né fortuna.
42
Puote il fato di voi fors’esser donno,
di me non già, ch’or al Catai men vado
perché dorma Medor l’eterno sonno,
de la malvagia Angelica mal grado;
e se in altrui le inique stelle ponno,
lor forza in un mio par puote di rado
e né uomo né dio cosa può farme
che pentir nol facessi con queste arme -.
43
E credendo del tutto essere armato
si vede a piè sin de la spada inerme;
et alquanto in se stesso ritornato,
tenea le luci al cielo attente e ferme,
perché strano furor l’ha trapportato
per dritte strade e per vie torte ed erme;
l’intender di Medor l’istoria vera
del suo sí lungo error la cagion era.
44
Quando egli udí l’altrui ineffabil gioco
mosse a piedi senz’arme, in furor volto,
qual pastor che la greggia lascia e il loco
dove giacea a guisa d’uomo stolto,
udito il tuon poi ch’egli ha visto il foco
del folgor che li cade appresso molto,
poi, dal timor riscosso e da l’affanno,
di se stesso s’avede e del suo danno.
45
In presenza del sir di Circassia
se riconobbe l’uom di Spagna ardito;
a cui disse con somma cortesia
il re del latte di Palla nodrito:
- Signor, colma di duol la doglia mia
l’intender io del caso ch’è seguito;
or ora han visto cosa gli occhi miei
che per piú non veder non gli vorrei.
46
Visto ho l’effigie di colui che nacque
in sí secondo favor de i pianeti
che possede colei che sol ne piacque
perché non abbiam mai, non dico lieti,
ma duo dí senza noia -. E qui si tacque
con sospiri cocenti et inquieti.
Avrebbe oltra parlato ma tacea,
ch’il duol gli veta ciò che dir volea.
47
In questo Ferraú con voce insana
il filo a la sua lingua a un tratto spezza
gridando: - Adunque una lascivia umana,
di leggiadria composta e di vaghezza,
che tosto sparirà qual ombra vana,
l’ingrata donna, me spregiando, apprezza?
Ahi, ria putta sfacciata, adunque tu
osi far tanta ingiuria a Ferraú? -
48
Poi tutto assalse col suo parlar empio
il vago de le donne amato stuolo
e fe’ del merto lor sí vile scempio
ch’Amor ne pianse per ira e per duolo.
E piangendo dicea: - Di doglia m’empio
con gran ragion perché, il collegio solo
non sendo de le donne, non potrei
or gli uomini domare, ora gli dei.
49
Lor mercede in su gli omeri ho queste ali,
la benda a gli occhi e in man questo arco franco;
mercé loro ho i piombati e gli aurei strali
e la faretra che mi pende al fianco;
del numer son de i sommi dei immortali
pur per mercede loro et ispero anco,
come per lor mercede io vivo e regno,
mercé lor farmi ancor del tempio degno -.
50
Mentre Amor duolsi, il re al guerrier crudo:
- È indegno - dice -, ch’un par vostro vada
senza caval, senz’elmo e senza scudo,
né al fianco avendo pur cinta la spada;
ma è ben degno ch’io, rimaso ignudo
d’ogni speranza, in questa alma contrada
de l’arme e del destrier privo rimanga
e a voi gli sacri e poi mia sorte pianga.
51
Il cavallo e la spada e l’arme a voi
consacro, a voi de gli alti onor figliuolo,
che far non ne potrei dono infra noi
ad uom piú degno, a cavalier piú solo.
Prendetel, ch’io de l’ordin de gli eroi
piú non mi appello; anzi con grave duolo
terminar vo’ questo mio viver fosco
in aspro, solitario e orribil bosco -.
52
Ciò detto l’arme spogliasi e ne veste
Ferraú, che del don grazie gli rende;
gli allaccia e cinge (pur con luci meste)
l’elmo e la spada, onde a cavallo ascende
l’ispano amante, ch’ora sol di queste
cortesie nuove alta letizia prende
e fa nel dipartir dal gran circasso
con gli sproni al caval veloce il passo.
53
Con quel furor che l’acqua, l’erba e l’ombra
lascia cervo assetato, ingordo e stanco
alor che nulla tema il preme o ingombra
et il ferro e ’l velen gli è giunto al fianco,
con quel furor Ferraú move e sgombra
il terren sí sopra il cavallo franco
che l’aria fende assai con minor fretta
alata, leve e pungente saetta.
54
Il furore, il cavallo et il desio
veloce il porta in ogni alpestro calle;
il gran fiume trappassa e il picciol rio,
quel piano, questo monte e quella valle;
ma Virtú, che da sé ’l vede in oblio,
perché le par che ’l sommo uom troppo falle,
ne la mente un pensier nuovo li cria,
il qual l’arresta in mezo de la via.
55
E li dice: " Esser può che un cavaliero
come il sol chiaro adopri spada e scudo
contra una donna e un giovanetto altero
e seco mostri uno animo sí crudo?
O nato de Lanfusa, ascolta il vero:
tua somma gloria fia se tutto ignudo
vinci la fera donna e spegni quello
a danno altrui sí aventuroso e bello.
56
Caso e fortuna sol per farti onore
ti fer dianzi obliar l’arme e ’l cavallo,
perché de gli occhi tuoi basta il terrore
a domar loro, e tutto il mondo sallo;
che non sol con i duo t’è disonore:
entrar dovresti fin con Marte in ballo
sol coperto d’orgoglio e d’arme privo,
perché tu sei fatato, s’egli è divo.
57
Ma quando fia che debbi andar armato,
dirà ciascun, là onde affretti il passo,
che furto sien, perché di gemme ornato
tengano il nome del gran re circasso.
E se tu giuri che il guerrier pregiato
sacre a te l’aggia e che, di gioia casso,
sia fatto cittadin d’un bosco folto,
questo è un ver ch’ha di menzogna il volto,
58
perché un tal re vie piú l’arme che ’l regno
sempre pregiò; e che si creda poi
l’alta desperazion del signor degno,
che difficil sarà giudicar puoi.
Or non far atto del tuo grado indegno,
e s’armato a la impresa andar pur vuoi
io non tel veto, ma tuo onor ben parme
che vi porti le tue, non l’altrui arme ".
59
Dal magnanimo e nobile pensiero
fedelmente ammonito e dal suo onore,
non replicando altra parola al vero,
sua ritrosa ira e suo natio furore
di render si risolve arme e destriero
d’i circassi a l’altissimo signore.
Ma lascio or lui, che mi convien seguire
Sacripante, che muor senza morire.
60
Ritorno a lui, che ciò che udí pur ora
l’ha cosí al vivo e trafitto et offeso
ch’uom saggio par ch’esce del senno fora,
né può del duol piú sopportar il peso
e lo stare e l’andar tanto l’accora
che in sé lo fa dubbiar tutto sospeso,
per ch’un pensier, che coi suoi pensier giostra,
l’insania del suo error chiaro li mostra.
61
Dice il pensiero a la sua mente: " Quanto,
quanto hai, non vi pensando, error commesso!
Tu eleggi consumar in doglia e in pianto
in solitario orror, miser, te stesso,
però ch’il caso temerario tanto
non fosse un dí ch’incontrar lunge o presso
ti facesse Medoro e darli morte,
poi armi un che ’l conduca a simil sorte.
62
S’Angelica tu hai sculta ne l’alma
sí come dici e dai colpa a le stelle
d’aver ella ad altrui dato la palma
di sue bellezze fatalmente belle,
perché a danno poi de la donna alma
ponesti l’arme in quelle mani, in quelle
empie et invitte mani? Or pensar dèi
che chi Medoro uccide uccide lei.
63
Ma questo è nulla. Andando ora al Catai
Ferraú, che fra i primi il vanto dassi,
che l’arme tue per viltà date gli hai
dirà ciascun che a mendar altri stassi;
e forse ancor maggior biasmo n’avrai,
che chi nel vede adorno a creder hassi
ch’ei t’aggia vinto e le porti per gloria
come vero trofeo de la vittoria ".
64
Queto il pensiero, ecco una donna afflitta,
vedova, sola, in panni oscuri avinta,
sí dolente, sí mesta e sí trafitta,
d’affanni carca sí, sí di duol cinta,
che tanti sospir crea, tanti ne gitta,
ch’avria per la pietade e mossa e vinta
qual sia piú indurata e fera voglia;
e piú si duol, piú del dolor s’invoglia.
65
La gran beltà, di che gí dianzi altera,
in lei non mostra piú di beltà segno;
nessuna fede fa di quel ch’ella era,
sí ’l duol le ha spento il natural disegno.
Statua in cui Fidia pose l’arte intera,
l’amor, lo studio e ’l celebrato ingegno,
guasta dal lungo andar de gli anni sembra,
che d’uomo non ha piú forma né membra.
66
De i duo, ciascuno misero e infelice,
parlarem poi, perch’or chiamato sono
de la reina del Catai, beatrice
sol di Medoro, a cui altero dono
ella fe’ di se stessa, onde il felice
seco stassi in Albracca e ’l dolce suono
de la celeste sua favella ‹’l› molce,
quando lieto lo move e quando il folce.
67
Poi che Medor con doglia immensa scorse
il suo signor quasi bel fior che langue
del vomero mercé, poscia ch’ei porse
umana aita al real corpo essangue,
poi ch’egli del fin suo si stette in forse
e dipinse il terren col giovin sangue,
poi che gli diè la donna, a lui sol pia,
e la vita e se stessa in cortesia,
68
si condusse in Albracca egli e colei,
che in lui la luce ha sempre fissa e intenta
(e, se non che non lice, io sembrarei
Angelica ad un’anima contenta,
che in contemplar lo dio de gli altri dei
de l’eterna vivanda s’alimenta).
Mentr’essa il mira le nodrisce il core
soave face di gentile amore.
69
Dopo lungo, gio‹io›so e consolato
dolce riposo, trasse per diletto
un dí la donna il caro sposo amato
dove tutto il valor del mondo eletto
già si mostrò con sua gran gloria armato.
Pria per la terra il mena ed hagli detto:
- Qui fu il tal fatto - e giunta a quella parte
dove Agricane aspre memorie ha sparte,
70
dice (e sospira): - Qui fe’ guerra dura
Agrican sol contra d’Albracca tutta;
questa poca di piazza è sepoltura
di gente molta da lui sol distrutta;
qui facea la sua forza oltra misura,
non lasciando di sangue fronte asciutta,
cose d’eterna e singular memoria,
se intoppo non avea sua tanta gloria.
71
Mentre la palma in fier sembiante crudo
stringer credea, qui apparve Sacripante,
tratto dal grido, sol, ferito e nudo,
del vile stuol che li fuggia dinante,
e svelto a l’altrui braccio un forte scudo,
al feroce uom che facea prove tante
qui s’interpose e qui adrieto ’l rivolse,
qui la palma di man gli scosse e tolse -.
72
Indi partiti e giunti a quella porta,
al valor d’Agrican già uscio e varco:
- Qui fu, - disse ella, - anco gran gente morta
da quel crudel, non mai di sangue parco;
qui entraro ed usciro in schiera accorta,
ciascun di fé, d’amore e d’arme carco,
dieci tuoni, anzi folgori di guerra,
che ’l ciel facean tremar, non che la terra.
73
Il magno padre mio, re Galafrone,
piú di senno e d’onor che d’anni pieno,
Brandimarte, il circasso e Chiarione,
Antifor, Adrian (che aveano in seno
l’imagin mia) ed Oberto e Grifone,
Aquilante e Torindo e quel che il freno
pone a i feroci e siede a gli altri in cima:
parlo d’Orlando, che dovea dir prima -.
74
Poi, trapassati al campo, Medor mira
i luoghi ove attendar schiere cotante;
con gli occhi or torna in dietro, ora gli gira
a le reliquie che si scorge inante;
l’ossa morte riguarda e ne sospira;
parte dà orecchie a le parole sante
di quella ch’è d’ogni suo ben radice,
che ’l sentiero gli addita e cosí dice:
75
- Vedete quelle pietre e quelle spine,
sanguigne ancora in questo e in quel camino?
Esse squarciaro e rupper le meschine
membra del miserabil Truffaldino,
ch’ebbe con brutto scorno orribil fine
dal gran Ranaldo, di Marte vicino,
con grave ira di quei ch’aveano il pondo
di salvare il vil re da tutto il mondo.
76
Vedete quindi ove son l’orme impresse
di duo cavalli e dove sparse in terra
son tante maglie et arme aperte e fesse?
Fu tra il conte e ’l cugino orribil guerra:
gelosia ed amor con ire espresse
comosse Orlando sí ch’ivi sotterra
Ranaldo estinto il suo furor ponea,
se la mia gran pietà nol soccorrea -.
77
Poi li mostra u’ del conte l’alta forza
trovò Marfisa, qual trova onda scoglio;
poscia di lei, che con la spada amorza
tutte le fiamme de l’umano orgoglio,
narrò il valor, con cui piú eroi sforza,
ch’a i suoi dí non ne vide il Campidoglio.
Medor, compreso il tutto, umíl s’affisse
e con suon dolce a la sua sposa disse:
78
- Con le sue gloriose et invitte arme
e Macedonia e Cartagine e Roma
che state sieno in questo campo parme
per impor l’una a l’altra servil soma -.
Rispose ella: - Col ver posso essaltarme,
non per ornar d’eterno allor la chioma:
l’opre si fer’, ma perché ogniun desia
sol trionfar de la bellezza mia.
79
Non vinse me l’empio Agrican gagliardo,
né Marfisa, né alcuno armato stuolo,
e Medor col soave e dolce sguardo
mi vinse a un tratto, e disarmato e solo;
non del mondo il coltel, d’Amore il dardo
a l’alterezza mia spennato ha il volo,
né mai quanto valor splende fra noi
mosse il mio cor, ma lo piegaste voi.
80
Non le palme, i trionfi et i trofei,
né le corone de l’invitto conte,
non di Ranaldo, onor de i semidei,
l’eterne e celebrate opere conte,
non la gloria de gli altri servi miei
mi scaldar mai con le lor virtú pronte,
ma voi tutta mi ardete, e non men pento,
sí è il cor del dolce suo foco contento -.
81
Medor, che con beltà senno anco avea,
di parole appagar li pare indegno
il magnanimo cor de la sua dea,
che in don li diè se stessa e ’l suo bel regno;
onde si tace e tacendo piangea
e con le calde lagrime fa segno
ch’altamente ringrazia la donna alma
con la lingua de l’animo e de l’alma.
82
Have acceso il bel viso di quel foco
ch’infiammar rosa dolcemente sole
quando s’apre vezzosa a poco a poco
tra il fin de l’alba e il cominciar del sole;
ella fiso lo mira et hanne gioco,
che ben s’accorge quel ch’esprimer vole
col suo silenzio lagrimoso, e in tanto
con le sue man gli asciuga il dolce pianto.
83
L’umor cortese e affettuoso asciutto,
inviarsi ove il misero Agricane
combattendo col conte in fero lutto
sentí del valor suo le forze vane;
intero ancor, ma disarmato tutto
al fonte di Merlin sol si rimane:
urna non chiude l’orrido suo velo,
che, invece al marmo, lo ricuopre il cielo.
84
Senza indugio il boschetto indi vicino
in atto trappassar dolce e lascivo
e giunti al fonte del mago Merlino
scorse il gran re simíle ad un uom vivo
che par morto dormendo; et il meschino
si giace in terra d’ogni pompa privo.
Com’ella il vide, cangiato il sembiante,
si ristrinse a Medor tutta tremante.
85
Non di rosa pallor né di viola,
che sole o pioggia affliga in loro stelo,
non pallidezza di leggiadra e sola
vergine pastorella che il bel velo
o tronco o sterpe fuggendo le invola,
veduto il serpe, quando avampa il cielo,
non languido color di fior reciso
rassembra quel de l’angelico viso;
86
ma, preso qualità dal corpo estinto,
il gentil volto candido e rosato
apparve di mortal color dipinto,
sí de le guancie il sangue è dileguato;
ond’egli, ch’è da un tenero amor vinto
per la pietà del viso suo cangiato,
da lo spettacol fer seco si tolse
e in piú gioconda parte i passi volse.
87
Indi partiro e giunser tosto in parte
ch’il timore e l’andar gli sgombra e affrena.
Mai di natura amor né studio d’arte
la piú nobil non fe’ né la piú amena.
Le gelide acque che la fonte ha sparte
creano un rio che se medesmo mena
nel suo bel grembo e chiaro si ripone
in bel gorgo ch’onora ogni stagione.
88
Non manca al luogo, che a lor tanto piacque
per l’eccellenzie sue nuove e feconde,
arbori, frondi, fiori, ombre, aure et acque;
ma fior, acque, aure, ombre, arbori e fronde
d’ogni altro sito al sito ch’ivi nacque,
nel qual continuo april suoi pregi infonde,
par che rendin tributo e sembra il nido
di colei ch’anco onora e Cipri e Gnido.
89
L’acqua pura, il bel verde e il fresco vento
vagheggion fissi i singulari amanti;
la bella donna fa con l’andar lento
l’erbe fiorir presse da i piedi santi;
meno allegro si mostra e men contento
l’anno di maggio e de’ suoi vari manti
che non fa il luogo de la copia bella
a cui s’inchina la stagion novella.
90
Di splendido contesto e terso argento
ornate avean le pargolette membra;
propio d’angeli è lor bel portamento
e del ciel cosa l’uno e l’altro sembra;
gli comparte il dolce oro il velo e il vento,
e chi veder giamai lieti rimembra
su i fior Cupido o su per l’erba dea
dica ciascuno " è tal ", non " tal parea ".
91
Or la sorte in un tempo ad ambo mostra,
perché posin le membra pellegrine,
quasi un bel‹l’›antro ne l’ombrosa chiostra
che senz’arte han composte alcune spine,
onde bianca e vermiglia altera mostra
fan le rose vezzose mattu‹t›ine
de le quali il pratel s’adorna e infiora,
poi che seco ha scherzato alquanto l’òra.
92
Ne l’antro, il cui secreto unqua non cede
del sole a i raggi, tra l’erbette e ’ fiori
corcarsi soli; intanto l’aura fiede
ne i lor bei volti e spira grati odori.
- Medor, ch’è nel cor mio, sasselo e vede
quanti ha da me sera e matina onori -
l’alma Angelica dice -, et ei sa come
riverisco et adoro il suo bel nome;
93
che non pur i desir de i casti petti
ponno scaldar vostri sereni lumi,
ma infiammerieno entro gli erbosi letti
sotto il ciel freddo i piú gelati fiumi,
perché d’Amor son chiari nidi eletti;
e se di voi scorgano i bei costumi
queste piante e quel rivo, io tengo certo
che gli arderete d’uno incendio aperto -.
94
Ed ei ne le parole ch’ella porse
gli spirti inebra e il cor fido consola;
poscia con la soave bocca corse
onde esce il suon de la favella sola;
e perché in lei celeste ambrosia scorse
in mezo a i labbri l’ultima parola
li bevve con un bascio ed umil disse:
- Vita et anima -. E qui tacque e s’affisse.
95
Quando Angelica il bascio dolce a pieno
gustò con l’alma, per la rosea bocca
stillando giú nel cor di desir pieno,
da un vital morir sentissi tocca,
tal che fore del tenero e bel seno
la dolcezza d’amor calda trabocca.
Ella parla e in lui tien le luci sole,
ch’han prestato piú volte il lume al sole.
96
Quegli occhi affige in lui, quegli occhi dove
il suo trono maggior Cupido tene,
quegli occhi in cui, tosto che ’l dí si move
per dar luogo a la notte, il sol sen viene,
quegli occhi a i quali fino al ciel di Giove
toglie il sereno ch’altero il mantiene,
quegli occhi ove han le Grazie alto soggiorno,
da cui chiara letizia prende il giorno.
97
Poscia ch’ebber di sguardi e basci grati
gli occhi e i labbri notriti a l’ombre sole
e gli orecchi attentissimi cibati
de la dolce armonia de le parole,
de l’Aure i lievi e graziosi Fiati,
da le rose, da i fior, da le viole
e da le frondi dipartirsi queti
e gli angelici crin disciolser lieti.
98
Disciolto l’ondeggiante oro sottile
e il vel che lo copria seco traendo,
questa Aura de un bel crin forma un monile,
il candido di lei collo cingendo;
quella dentro e di fuor del sen gentile
un altro aureo crin fa gir serpendo:
chi parte i bei capegli e chi gli preme,
altra gli sparge, altra gli accoglie insieme.
99
I dolci Sonni fra le frondi ascosi,
mentre scherzan co i crin l’Aure lascive,
del dolce vaneggiare invidiosi
le assalir le due stelle altere e dive;
e per farsi piú chiari e graziosi
si unir con l’Aure, non pur d’essi schive,
ma sí amiche ch’ov’è l’Aura è il Sonno
e insieme consolar l’anime ponno.
100
Tosto ch’i Sonni i begli occhi assaliro,
la donna ora gli mostra aperti or chiusi:
non han valor ch’allumi con un giro
l’aere d’intorno, qual di far son usi.
A tal sembianza il sol spesso rimíro,
che i suoi lucenti rai tutti confusi
lieto or ne porge e mesto ora ne cela
se nuvoletto alcun lo adombra o vela.
101
Poi nel serrar de i lumi, onde il sereno
perdette il dí, visibilmente Amore
basciolla, e il foco suo mísole in seno,
dileguò i Sonni e nel profondo core
discese il bascio di faville pieno.
Sí il disio le raccese et il fervore
che con strania lascivia pose al collo
le belle braccia al suo terreno Apollo.
102
Poscia, congiunto l’uno e l’altro petto,
si uniro insieme sí fervidamente
che d’ambo i cori con equale affetto
queti basciarsi incomprensibilmente
e i vaghi spirti, corsi per diletto
su le labbra, si bevver dolcemente;
poi lenti a un tratto cadder sospirando,
l’un l’altro in bocca l’anima spirando.
103
In questo il Sonno, lusinghier soave,
tra l’ombra e il verde senza impaccio apparve
e col favor de l’Aurette ch’have
ne i lor begli occhi entrò come a lui parve.
Ogni cura che punto il core aggrave
del Sonno a l’apparir da quelli sparve,
tal che, s’Amor non gli destava alora,
e l’uno e l’altro dormirebbe ancora.