Andrea Doria/La Vita/6

La Vita
Capitolo 6

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La Vita - 5 La Vita - 7

La conferma dell’Imperatore agli accordi stipulati - con la nomina a Capitano generale di mare - giunge ad Andrea Doria in un momento assai triste per lui: quando cioè le notizie che affluiscono al castello di Lerici da Genova, veramente desolanti, hanno raggiunto particolare gravità.

Il terrore della pestilenza è ivi aggravato dalla carestia e, più ancora, dall’oppressione francese. Nessuno più dalla campagna vicina osa avvicinarsi alla città, dove il morbo miete crudelmente, e la mancanza di quel rifornimento modesto ma quotidiano al quale Genova è da tempo abituata, diminuisce ogni giorno di più la resistenza al male. Famiglie decimate, timore panico di ogni contatto, di ogni avvicinamento, la vita ridotta agli atti essenziali, fra cui essenzialissimo il trasporto e l’allontanamento dei cadaveri. Il commercio, in tal contingenza, quasi più non vive: ognuno pensa solo al vivere immediato, alla forza di superare il tragico momento. Dalla stasi del commercio consegue la mancanza dei grandi rifornimenti, grani specialmente, e perciò la carestia.

Genova, centro di forze e di energie, cuore pulsante di attività. è ridotta a una città- di morti, e di vivi in attesa di morire, nella quale sull’animo dei cittadini affannati e terrorizzati ulla più fa leva: neanche il desiderio di vivere.

Su questa atmosfera tragica, unica forza viva, purtroppo, male più terribile della peste, l’odio delle fazioni serpeggia sempre: e di esso si giova il Trivulzio, governatore francese, per opprimere sempre più la popolazione stremata, e per imporre nuovi gravami e nuovi balzelli.

Queste notizie erano certamente tali da suscitare nel cuore generoso dell’Ammiraglio genovese un’impressione profonda.

Egli vedeva la sua città quale era stata nei secoli scorsi, dominatrice del Mediterraneo, centro marittimo d’Europa, confluenza di tutti gli affari importanti: la vedeva ardita e fiera dinanzi a tutti i pericoli, madre di equipaggi eroici che avevano portato lo stendardo di S. Giorgio verso la vittoria, nei combattimenti più famosi. E non sapeva capacitarsi che fosse caduta in tanto avvilimento. Ma nei nobili cuori, lo strazìo è capace di provocare reazioni decisive. Nella sua sofferenza, egli scelse e decise la sua strada. Bisognava ridare ai genovesi la fiducia negli uomini che li governavano, e perciò toglierli all’odio di parte e alle sue sinistre macchinazioni. Nuovi ordinamenti, nuove direttive, onestà di uomini e di intenti, far sì che ognuno dei preposti al bene pubblico solo del bene pubblico avesse a preoccuparsi.

In questo modo, e soltanto in questo, Genova avrebbe potuto riprendere il suo posto, nonostante le enormi difficoltà causate al commercio coi mercati mediorientali, dal nuovo regime politico e religioso, e nonostante la strapotenza della grande dominatrice dei mari, la Spagna. Anzi, l’Ammiraglio lo comprendeva, giocando nell’orbita imperiale, la Repubblica avrebbe potuto averne molto vantaggio. Egli sapeva altresì che moltissimi genovesi avevano grande simpatia per la Spagna, anche a cagione dei vasti interessi che li legavano a quel Paese, e questo stato d’animo avrebbe facilitato i rapporti fra Genova e l’Imperatore. Di tal sentimento fa fede anche Marino Sanudo che nei suoi Diarii scrisse che «il terzo di Zenoa è in Spagna, e vi sono 300 case di Zenesi che li reali rompeno... ».

Ma per raggiungere gli scopi nobilissimi che Andrea Doria si proponeva, per ridar la vita alla città, occorreva un gesto di ardire, un purissimo gesto di un uomo disposto a sfidare, per la purezza e la grandezza della sua vita, anche le interpretazioni più astiose e più sospettose del suo comportamento e delle sue mire.

Le sue veglie tormentate già lo avevano portato alla conclusione che un uomo solo avrebbe potuto giocare quella carta: e quell’uomo era lui. Di tale conclusione si era fatto forte nelle condizioni poste all’accordo con l’Imperatore, riserbandosi la scelta del momento.

Il momento era giunto. Dalla convinzione di ciò alla decisione eroica, non occorse molto. L’uomo dell’azione e del combattimento era poi spinto ad agire anche dall’altro uomo che era in lui: il saggio diplomatico, l’astuto negoziatore, e, perché no? da quel buonsenso caratteristico della sua terra, che gli faceva comprendere che quella era l’ora giusta, che quella era l’ora buona.

Approntate in breve tempo tredici galee, nell’avanzato pomeriggio del 10 settembre 1528, egli parte da Lerici, innalzando il vessillo della sua Casa. Il suo arrivo nel porto di Genova, determina uno spiegabile timore nelle truppe francesi, e nel governatore Teodoro Trivulzio, che sì rinchiude nel forte del Castelletto, sistemandosi a difesa: troppo grande è la fama dell’Ammiraglio, perché il Governatore non sappia qual sarebbe la sua sorte, se accettasse il libero combattimento. I genovesi, invece, pur nell’atmosfera di morte che li attornia, comprendono subito ch’egli non può portar loro che del bene. E quando, occupata con i suoi uomini la città, egli raduna, nella chiara mattina del 13 settembre il popolo a parlamento nella bellissima piazza di S. Matteo, ha dal suo popolo tutto il consenso e tutti gli onori. La città è libera, non riconosce più nessuna dipendenza dal re di Francia, annulla tutti gli accordi col Re stesso presi, dichiara decaduto ogni ordine del Governatore, e acclama l’Ammiraglio suo salvatore e padre della Patria.

Non si esalta egli nel trionfo, e dichiara pubblicamente di voler essere soltanto e sempre un cittadino devoto e null’altro: e così come ha rifiutato, la Signoria della città quando gli è stata offerta a nome dell’Imperatore, la rifiuta ora che è lo stesso suo popolo ad offrirgliela. A questo popolo tanto provato, ma ancora pronto a tanto osare al seguito di chi sia capace di farlo osare, egli chiede, per quanto ha fatto, una sola prova di gratitudine: sappia contro tutto e contro tutti conservare la sua libertà, e non ne faccia oggetto di basso mercato o di più basso appetito.

I genovesi, rientrando alle loro case già tanto colpite dalla sventura, e ancora sotto la minaccia del male terribile, hanno, quel giorno, una luce nuova negli occhi. La speranza è tornata nei loro cuori: la speranza, cioè la vita.

Cominciava la vita nuova: subito rifornita di viveri e di quanto le mancava, Genova riprese coraggio, e poté lottare vittoriosamente contro il morbo, che fu in breve debellato.

Intanto l’Ammiraglio radunava un’accolta di uomini probi, dai quali scelse i dodici magistrati che in poco tempo prepararono i nuovi ordinamenti della Repubblica, ch’egli approvò, dopo averli in molti casi ispirati. Riprendendo con saggia moderazione - e con una visione più originale e più adatta ai tempi - alcuni dei concetti che due secoli e mezzo prima avevano ispirato la Serrata del Gran Consiglio veneziano, stabilirono che il Doge, ad investitura biennale, e i suoi Consiglieri, dovessero essere scelti fra la nobiltà genovese, con una elezione concepita e realizzata con sufficiente larghezza di vedute. I quadri della nobiltà, si può aggiungere, non erano però talmente chiusi da impedire a chi, eccellendo per ingegno o per chiarissime azioni, si fosse messo in bella mostra, di giungere a farne parte. Questi quadri dividevano la nobiltà genovese in ventotto alberghi, o famiglie: Spinola, De Fornari, Doria, Dinegro, Usodimare, Vivaldi, Cicala, De Marini, Grillo, Grimaldi, Negrone, Lercari, Lomellino, Calvi, Fieschi, Pallavicino, Cybo, Promontorio, De Franchi, Pinelli, Salvago, Cattaneo, Imperiali, Gentile, Interiano, Sauli, Giustiniani, Centurione.

Il 12 dicembre 1528, tre mesi dopo il ritorno della libertà, veniva eletto il primo Doge biennale nella persona di Oberto Lazzaro Cattaneo: in soli tre mesi, i Genovesi - in quei tempi nei quali tutto si faceva con calma - avevano riacquistata la libertà, creati i nuovi ordinamenti dello Stato, ed eletto il nuovo Capo in applicazione di tali ordinamenti!

Così, sotto la guida dell’Ammiraglio, Signore senza corona, Genova si avviava sulla sua nuova strada, verso le nuove difficoltà che il destino e gli uomini le stavano preparando: ma con quale diversità di spirito e di volontà! e i primi frutti del nuovo spirito e della nuova decisione non tardarono a vedersi.

Due volte gli eserciti francesi tentano di giungere a Genova, ma mentre la prima volta, informati del nuovo stato d’animo della popolazione, non osano attaccare e si ritirano a svernare in pianura, la seconda si debbono contentare di appiccare il fuoco al palazzo del Doria, che è. fuori delle mura. Savona, attaccata dai fratelli Agostino e Bartolomeo, Spinola, capi del nuovo esercito genovese, si sottomette alla Repubblica, mentre i francesi sono costretti ad abbandonarla; il conte Antonio Guasco, signore di Gavi, col compenso di quattordici mila scudi, restituisce il suo territorio e il castello ai genovesi; e, nonostante l’ambiguo agire di Pietro Fregoso, anche Novi viene riconquistata con le armi. In brevissimo volger di tempo tutte le terre già della Repubblica sono riprese, e la voce di Genova torna a risuonare su tutti i suoi dominii vicini, con l’antica autorità.

L’azione di Andrea Doria a favore della libertà di Genova, e più ancora la nuova posizione che il Doria era venuto ad assumere, unita alla simpatia per quanto da lui già compiuto a favore del regno pontificio, indussero Clemente VII a rendergli specialissimo onore: e, così come allora si usava, il Pontefice lo invitò a segnalargli un componente della sua famiglia, al quale - per onorare in lui l’intero casato - sarebbe stata conferita la dignità cardinalizia. L’Ammiraglio, ringraziando dell’altissima benevolenza, segnalò Girolamo Doria, che per la sua bontà, la sua generosa ricchezza, e la sua saggezza, era molto stimato: e poco dopo, infatti, Girolamo ebbe la porpora.

Il 5 agosto 1529 - a seguito delle sconfitte militari francesi - venne firmata a Cambrai la «pace delle dame», così chiamata perché. mentre Francesco I vi era rappresentato dalla madre Luisa di Savoia, Carlo V aveva a ciò delegato la zia Margherita d’Austria. Negli accordi particolari si confermò quanto già convenuto nella tregua tra Clemente VII e gli spagnoli, e successivamente, e cioè che l’Imperatore sarebbe stato dal Pontefice incoronato a Bologna, alla presenza di tutti i principi italiani: ciò che avrebbe ridato a Carlo V tutti i crismi del Sacro Romano Impero e avrebbe annullato gli effetti dell’opposizione, che a suo tempo Leone X aveva fatto alla candidatura di Carlo I (così come del resto, a quella di Francesco I) all’Impero.

Con quel trattato Francesco I rinunciò a qualunque pretesa su Milano, Napoli, l’Artois, e dovette pagare due milioni di scudi per il riscatto dei figli. La pace, comunque, era la benvenuta per entrambi i contendenti, che ne avevano bisogno per curarsi le ferite della guerra.

Anche Carlo V, pur essendo vittorioso, dovette pensare a far fronte alle grandi spese sostenute e ai prestiti avuti dai banchieri genovesi e da quelli di altre città amiche. Genova non uscì bene da quella pace, perché la Francia - per rappresaglia contro di essa e contro il Doria - non volle riconoscerla partecipe delle pattuizioni, e continuò a considerarla nemica: tanto che l’Ammiraglio fu costretto ad intervenire presso l’Imperatore, che si trovava in Italia per l’incoronazione. Il 30 novembre gli scrisse infatti pregandolo di ottenere che nei capitoli della pace fosse aggiunto un preciso cenno della cessazione di ogni azione ostile contro la Repubblica, sia con le armi, sia soprattutto per quanto aveva riguardo alle persone e ai beni genovesi in Francia.

Dovendo raggiungere per i motivi detti l’Italia, l’Imperatore volle esservi condotto da una armata agli ordini del suo Capitan generale di mare, e il Doria, con tredici galee, nel giugno del 1529 ripartì da Genova e giunse a Barcellona, dove l’Imperatore lo attendeva. L’accoglienza fattagli dal. Sovrano fu degna dei due grandi uomini: da quell’incontro nacque quella reciproca fiducia e stima, che non fu mai più smentita. Piacque a Carlo la modestia del vestire e la saggezza del parlare di tanto uomo e, contro tutte le mormorazioni della Corte, gli diede le più alte prove della sua confidenza. Narra il Capelloni, che la corte si ribellava al pensiero che il sovrano dovesse affidarsi al Doria che già era stato al servizio della Francia, e che avrebbe potuto tradurre il sovrano stesso prigioniero a Marsiglia, con uno di quei voltafaccia ch’erano allora, come sappiamo, così comuni. Ma Carlo V, per far tacere queste voci, un giorno, prima dell’alba, si recò da solo a bordo della nave ammiraglia, e, avendo al fianco il Doria, passò in rivista la flotta. Il tuonare delle artiglierie e il suono delle trombe svegliò i Principi e i Cortigiani tutti che ancora stavano a letto, e che poterono così convincersi che il Doria, che godeva tutta. la fiducia dell’Imperatore, non era un traditore.

A provare che i dubbi su di lui serpeggiavano anche in altri ambienti responsabili spagnoli, esiste una lettera che don Gomez Soarez di Figueroa, ambasciatore di Spagna a Genova, mandò l’8 giugno di quell’anno all’Imperatore, pochi giorni prima della partenza del Doria. In essa il Figueroa - che pur divenne poi uno dei più devoti amici dell’Ammiraglio - con frasi molto ambigue, lascia capire, come giustamente parafrasarono gli ordinatori dei citati Documenti, che «il Doria è troppo potente perché non sia necessario alla causa di Spagna. Si blandisca dunque in aperto, ma non si ponga tanto facilmente a parte de’ segreti disegni. Così Cesare, mutando le circostanze, potrebbe senza molti ostacoli sbarazzarsene».

Ma Carlo V, giovane di 30 anni, nel fiore della vita e al colmo della potenza, non tenne conto dei sospetti altrui, e strinse in quei giorni un muto patto di amicizia, al quale non venne mai meno, col glorioso Capitano, che a sua volta vi si mantenne fedelissimo.

Genova, il 12 agosto 1529, accolse con trionfali onori l’Imperatore, riconoscendo in lui, signori e popolo, un amico che, per il tramite del Doria, garantiva la loro libertà e la loro esistenza, e off riva loro un periodo di tranquilla ed operosa serenità.

E quando, come annota lo storico spagnolo Edoardo Ibarra, da Genova l’Imperatore va «en verdadero viaje triunfal» a Piacenza, Parma, Modena, fino a Bologna, vuole che del suo seguito faccia parte l’Ammiraglio, che, per volontà imperiale sarà presente anche nel 1530 alla gloriosa incoronazione: presente, ai posti d’onore fra tutti i Principi dei paesi amici, visibilmente onorato di particolare condiscendenza.