La Vita
Capitolo 4

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Francesco I di Valois, re di Francia, ch’era succeduto a Luigi XII, discese in Italia, si alleò con i veneziani, e combatté aspramente Spagnoli e Pontifici: riacquistò la Lombardia, cori una grande vittoria ottenuta il 13 settembre 1515 sugli svizzeri a Melegnano, ed esiliò Massimiliano che gli si era arreso.

Spagnoli e Pontifici, che avevano dato ad Ottaviano Fregoso il potere, nella nuova situazione creata dalla discesa di Francesco I in Italia chiesero un notevole aiuto di danaro alla Repubblica di Genova. Ma Ottaviano - che aveva forse ragione di lagnarsi di certi rapporti tra lo Sforza e gli Adorno - preferì trattare segretamente col Re di Francia, facendogli cessione della città di Genova della quale egli sarebbe rimasto solo il regio vicario. In compenso di tale vergognosa cessione, egli ottenne un assegno annuo, nonché il comando permanente d’un reparto di truppe reali.

Indignazione vivissima nel campo avverso. e propositi di castigare il traditore, ma la grande vittoria francese di Melegnano, mise Ottaviano al sicuro, e concesse comunque a Genova alcuni anni di operosa tranquillità. L’opera di Andrea Doria fu utilissima in quel periodo, specialmente per la repressione dell’attività corsara nel Tirreno.

Carlo I di Spagna, divenuto Carlo V nel 1519 per la morte di Massimiliano imperatore d’Austria, suscitò la gelosia di Francesco I, che fra l’altro pretendeva al titolo imperiale. Ne nacque una serie di guerre, che ebbero purtroppo il loro maggiore svolgimento sul territorio italiano.

Nel 1521 Pontifici e Spagnoli cacciarono da Milano i Francesi, che si ritirarono a Cremona, dando quindi il potere a Francesco Maria Sforza secondogenito di Ludovico il Moro, e si disposero a cacciare i Francesi anche da Genova. Il sennato parere di Ottaviano Fregoso per evitare alla città i tormenti dell’assedio e del combattimento, fu di sacrificare le proprie ambizioni e di parlamentare con Prospero Colonna, comandante delle forze pontificie. Né è inutile qui precisare che il rapido muoversi dell’esercito straniero contro Genova, si dovette anche quella volta alle insistenze degli Adorno e dei Fieschi, fuorusciti, fra i quali Gerolamo Adorno, che guidava le truppe.

Il marchese di Pescara, che comandava la colonna di destra, si ritenne offeso dal fatto che i parlamentari s’erano rivolti al Colonna; e, contrariamente agli accordi presi da questi, continuò la sua azione dalla parte di Polcevera, ed il 30 maggio 1522 entrò nella città, che fu abbandonata al saccheggio delle sue truppe, alle quali si aggiunsero ben presto quelle non più trattenute dal Colonna, provenienti da Val Bisagno.

Baldassare Olimpio degli Alessandri poteva a giusta ragione scrivere nel suo «Pianto d’Italia»: «Piangete voi, baroni italiani, - che Genova con tanto vituperio - è stata saccheggiata dai marrani; - quella che già del mar tenne l’imperio, - tolto le gemme sue, tolto l’onore, - non lasciando badie, né monasterio». (Lamenti storici dei secoli XIV, XV, XVI, raccolti a cura di Antonio Medin e Ludovico Frati, vol 3°, Bologna, Romagnoli, 1890).

Anche Francesco Guicciardini (Storia d’Italia, libro XIV, cap. 5) conferma che, con i già nominati, fra i marrani saccheggiatori di Genova, erano pure degli Adorni genovesi, che raggiunsero lo scopo prefissosi in quanto Antonio Adorno fu messo a capo della Repubblica, mentre Ottaviano Fregoso, imprigionato, fu mandato in esilio nei Paesi Bassi, e poi all’isola d’Ischia, dove morì.

Le galee di Andrea Doria, che ben poco aiuto avevano potuto portare, dato il carattere dell’azione guerresca, servirono ad imbarcare il cardinale Federigo, fratello di Ottaviano, con molti dei suoi, e a condurli in salvo. Il Doria, non potendo aderire alla nuova situazione, più non fece ritorno, e, con le sue quattro galee, si recò in Provenza per meglio poter servire il re di Francia. Quivi portò a sei il numero delle sue navi, e compie azioni degne della sua fama. Tra l’altro contribuì a liberar Marsiglia che, il 7 agosto 1524, era stata assediata dalle truppe del Connestabile di Borbone passato in quel tempo al servizio dell’Imperatore. Si racconta che il Connestabile, ingannato da una arditissima operazione di trasporto di truppe, compiuta dal Doria sotto l’azione delle artiglierie nemiche, e forse più probabilmente perché mancante di provvigioni e con le truppe colpite da epidemie, levò il campo e si ritirò in Lombardia, abbandonando anche la città di Tolone. Il Doria occupò in seguito Savona e Varazze, recando sempre grande disturbo a tutte le azioni e le posizioni avversarie: di ciò impensierito, il valoroso capitano imperiale don Ugo di Moncada, partì da Genova per riconquistare Varazze, ma, benché con forze minori, il Doria intervenne e mise in fuga le sue galee, facendo prigioniero lo stesso Moncada.

Ridisceso sulla fine del 1524 con nuovo esercito in Italia, Francesco I, assediò la città di Pavia che, difesa da Antonio de Leyva resistette saldamente, mentre in suo soccorso accorreva il Connestabile di Borbone. Il venerdì 24 febbraio 1525 la battaglia si accese accanitissima e si chiuse con una grave sconfitta francese; Francesco I, eroicamente accorso al combattimento, fu separato dalle sue truppe e, avendo avuto anche ferito il suo cavallo, si arrese a tre soldati spagnoli - Juan de Urbieta, Dàvila e Pita ai quali, per evitar di essere ucciso, si diede a conoscere.

La mala sorte del Re non permetteva ad Andrea Doria, in quel momento, alcuna speciale azione, ed egli si limitò a trarre in salvamento, con le sue galee, tutti i resti dell’esercito disfatto, a cominciare dalle più alte personalità, trasportandoli in Provenza, dove continuò a servire la corona francese.

Ma ben presto il suo carattere fiero, tipicamente ligure, si trovò a disagio, dinanzi al fare borioso e sprezzante dei ministri e degli uomini d’arme francesi, per i quali nulla v’era di bello e di grande se non quello da essi compiuto. Né potendo egli resistere oltre, prese congedo in modo regolare, dal servizio del Re tuttora prigioniero, e si recò a Roma, dove il Pontefice Clemente VII già lo aveva chiamato. Accolto con onore, ebbe subito la nomina ad Ammiraglio di Santa Madre Chiesa alla quale recò l’apporto delle sue sei galee. Accordatosi su ogni sua spettanza e su ogni suo dovere, iniziò senz’altro il suo nuovo compito.

In quel tempo le ruberie e le angherie degli spagnoli che - sovente non pagati - vivevano sul frutto delle loro prepotenze, avevano suscitato violenta opposizione in Italia; da questa nacque una nuova alleanza tra Milano, Venezia, il Papa e Firenze, alla quale aderì anche la reggente di Francia, Luisa di Savoia, madre di Francesco I. Questi, che il 14 gennaio 1526 aveva sottoscritto a Madrid un trattato di pace che comprendeva un atto di rinuncia ad ogni sua pretesa su Napoli, Milano e la Borgogna - a garanzia del quale aveva lasciato anche i suoi figli in ostaggio - appena libero, il 18 marzo dello stesso anno, venne meno alla promessa, e aderì alla nuova Lega, infirmando la validità del trattato cui era stato costretto ad addivenire.

Per sottomettere Genova, sempre in possesso degli Spagnoli, gli alleati decisero di assediarla, affidandone il compito a Pietro Navarra e ad Andrea Doria. Questi, con otto galee pontificie, sedici veneziane e altrettante francesi, si fortificarono a Portofino, rendendo difficilissima la vita della città, che priva di vitto, dovette sottoporsi a gravi sacrifici, vedendo imprigionare o affondare le navi che le portavano provvigioni. Tale situazione avrebbe avuto conseguenze tristissime per la città, se gli improvvisi accordi di tregua che il Pontefice - per evitare l’accendersi della guerra nei suoi territori - fu costretto a prendere con don Ugo di Moncada e col cardinale Pompeo Colonna (favorevole all’Imperatore) non avessero fatto cessare l’assedio e richiamare a Civitavecchia il Doria con l’armata pontificia.

Gli accordi presi dal Papa, non avendo egli voluto abbandonare la Lega, non allontanarono la guerra dal suo territorio, ché anzi proprio in Roma giunse, e - mentre Clemente VII stava rinchiuso in Castel Sant’Angelo - le truppe tedesche e spagnole del Connestabile di Borbone entravano in città il 5 maggio 1527. tutto saccheggiando e barbaramente distruggendo. Il Connestabile venne ferito a morte da una archibugiata sparatagli da Benvenuto Cellini, cui il Papa aveva affidato la difesa di Castel Sant’Angelo. Carlo V, alla notizia del sacco di Roma giuntagli a Valladolid il 22 giugno, subito dispose di sospendere ogni azione, di liberare il Pontefice, e ordinò alla Corte di mettersi in lutto. Clemente VII rimase in Castel S. Angelo fino al 6 dicembre, fuggendone poi travestito. Finalmente il principe d’Orange, in seguito agli ordini imperiali, - il ritardo nell’eseguirli si deve alla peste che infieriva in Roma facendo strage nelle truppe - fece allontanare dalla città i soldati, liberando il Pontefice.

Andrea Doria, con le sue galee alla fonda nel porto di Civitavecchia, si trovò nella materiale impossibilità di intervenire a Roma. Avrebbe potuto, in quei giorni, accordarsi con i rappresentanti dell’Imperatore che gli avevano fatto convenienti offerte, ma, per aderire al consiglio e al desiderio del Pontefice rifiutò tali offerte, e ritornò in rapporti col Re. La sua nuova attività egli intraprese, prendendo collegamento con le navi francesi che sostavano a Savona, ed operando con esse nella zona.

Sul principio del 1528, il Maresciallo del Re Odet de Loise, visconte di Lautrec, scende in Italia con un potente esercito e, subito, si accorda con Cesare Fregoso e con Andrea Doria per scacciare gli spagnoli da Genova, e liberare la Repubblica dal governo di Antoniotto Adorno: l’azione, combinata secondo i piani del Doria, riesce a perfezione, e governatore della città viene nominato dal Maresciallo il Trivulzio. Il Re di Francia nominò in quell’occasione Andrea Doria suo ammiraglio, e gli conferì l’ordine di San Michele in segno di riconoscenza. Il nuovo ammiraglio, per dimostrargli la sua gratitudine, partì subito con la sua flotta, per compiere in Sicilia opera di conquista e di disturbo, parallela a quella che Lautree, dopo essersi impadronito di Pavia, ed aver evitato Milano, stava preparando per via terrestre contro il regno di Napoli.

Ma la stagione avanzata e il maltempo non gli permisero di portare a compimento la missione, e dopo aver sostato in Sardegna, compiendo altre minori azioni, rientrò sulla fine dell’inverno a Genova. Quivi gli giunse l’ordine del Re di recarsi tosto a Napoli con la flotta: ma, per le condizioni di questa, preferì mandare solo otto galee fra quelle meno provate, agli ordini di Filippino Doria. La sua scelta fu ottima, perché questi si comportò con abilità e con astuzia tali da battere clamorosamente la flotta di don Ugo di Moncada, forte di ben ventidue vascelli. Nel combattimento il Moncada fu colpito a morte, e, tra i prigionieri si poterono contare - certo per volontà del destino, che a loro affiderà in seguito presso l’ammiraglio un compito decisivo - il marchese del Vasto e il principe Ascanio Colonna,

Avendo deciso di ammogliarsi, Andrea Doria, che aveva già superato i 60 anni, scelse una dama stimatissima, di altissimo sentire, e di poco più giovane di lui: Pieretta Usodimare Cybo, nipote di papa Innocenzo VIII Cybo. Pieretta, che era già vedova del marchese Alfonso del Carretto del Finaro, fu veramente la compagna ideale per l’Ammiraglio, che ne ebbe sempre saggio consiglio e amorevole conforto.