Aminta (1590)/Prologo
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E sotto queste pastorali spoglie
Fosse nascosto un Dio? Non mica un Dio
Selvaggio, ò de la plebe de gli Dei;
Ma tra grandi, e celesti il più potente;
Che fà spesso cader di mano à Marte
La sanguinosa spada; & à Nettuno,
Scotitor de la terra, il gran Tridente;
Et i folgori eterni al sommo Giove.
In questo aspetto certo, e in questi panni,
Non riconoscerà sì di leggiero
Venere madre me suo figlio Amore.
Io da lei son constretto di fuggire,
E celarmi da lei, perch’ella vuole,
Ch’io di me stesso, e de le mie saette
Faccia à suo senno; e, qual femina, e quale
Vana, et ambitiosa mi rispinge
Pur trà le corti, e trà corone, e scettri;
E quivi vuol, che impieghi ogni mia prova;
E solo al volgo de’ministri miei,
Miei minori fratelli ella consente
L’albergar trà le selve, et oprar l’armi
Ne’rozi petti. Io, che non son fanciullo,
(Se ben hò volto fanciullesco, et atti)
Voglio dispor di me, come a me piace;
Ch’à me fù, non à lei, concessa in sorte
La face onnipotente, e l’arco d’oro.
Però, spesso celandomi, e fuggendo,
L’imperio nò, che in me non hà, ma i preghi,
C’han forza, porti da importuna madre,
Ricovero ne’boschi, e ne le case
De le genti minute; ella mi segue,
Dar promettendo à chi m’insegna à lei,
Ò dolci baci, ò cosa altra più cara:
Quasi io di dare in cambio non sia buono
À chi mi tace, ò mi nasconde à lei,
Ò dolci baci, ò cosa altra più cara.
Questo io sò certo almen, che i baci miei
Saran sempre più cari à le fanciulle,
(Se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo)
Onde sovente ella mi cerca in vano,
Che rivelarmi altri non vuole, e tace.
Ma per istarne anco più occolto, ond’ella
Ritrovar non mi possa à i contrasegni,
Deposto hò l’ali, la faretra, e l’arco.
Non però disarmato io qui ne vengo,
Che questa, che par verga, è la mia face:
(Cosi l’hò trasformata) e tutta spira
D’invisibili fiamme: e questo dardo,
(Se bene egli non hà la punta d’oro)
È di tempre divine, e imprime Amore
Dovunque fiede. Io voglio hoggi con questo
Far cupa, e immedicabile ferita
Nel duro sen de la più cruda Ninfa,
Che mai seguisse il Choro di Diana.
Nè la piaga di Silvia fìa minore,
(Che questo è ’l nome de l’alpestre Ninfa)
Che fosse quella, che pur feci io stesso
Nel molle sen d’Aminta, hor son molt’anni;
Quando lei tenerella, ei tenerello
Seguiva ne le caccie, e ne i diporti.
E, perchè il colpo mio più in lei s’interni,
Aspetterò, che la pietà mollisca
Quel duro gelo, che d’intorno al core
L’hà ristretto il rigor de l’honestate,
E del virginal fasto; et in quel punto,
Ch’ei fia più molle, lancerogli il dardo.
E, per far sì bell’opra à mio grand’agio,
Io ne vò à mescolarmi infra la turba
De’Pastori festanti, e coronati,
Che già qui s’è invitata; ove à diporto
Si stà ne’dì solenni, esser fingendo
Uno di loro schiera, e in questo luogo,
In questo luogo à punto io farò il colpo,
Che veder non potrallo occhio mortale.
Queste selve hoggi ragionar d’Amore
S’udranno in nuova guisa: e ben parrassi,
Che la mia Deità sia qui presente
In se medesma, e non ne’suoi ministri.
Spirerò nobil sensi a’rozi petti;
Raddolcirò de le lor lingue il suono;
Perche, ovunque i mi sia, io sono Amore,
Ne’ pastori non men, che ne gl’heroi;
E la disagguaglianza de’soggetti,
Come à me piace, agguaglio: e questa è pure
Suprema gloria, e gran miracol mio:
Render simili à le più dotte cetre
Le rustiche sampogne, e se mia madre,
Che si sdegna vedermi errar fra boschi,
Ciò non conosce, è cieca ella, e non io,
Cui cieco à torto il cieco volgo appella.