Alla Maestà di Vittorio Emanuele terzo re d'Italia
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- Alla Maestà
di Vittorio Emanuele terzo
Re d’Italia
Gabriele d'Annunzio |
Sire,
in memoria de’ nostri incontri di guerra, quando l’alta Vostra semplicità tendeva la mano — più tranquilla del sorriso — a una ferma semplicità senza parole, Sire,
io vi offro alcune pagine del mio Messaggio ai Latini di Francia; che già furono offerte al Presidente della Repubblica francese, durante la soperchieria odiosa e sleale tentata dall’Inghilterra sopra una Società delle Nazioni asservita come un branco di Dominii mal sorpresi e malissimo usurpati per opera lasciva di un certo signore Anthony Eden che un rimadore bernesco chiama
«il Bagascion della Diplomazia.»
È questa — che offro — la imitazione fedele di quel scritto che da quel Presidente — forse in officio di defunto o di venturo — non ebbe neppur il monosillabico segno di risposta largito a offeritori provinciali di «prodotti» dell’Indocina franca, del Cambodge, del Laos, dell’Annam.
Ma il nobile Ambasciatore della Maestà Vostra, avvertendomi di aver consegnato in quelle mani inerti o incerte il mio Messaggio, ebbe la grazia di giudicarlo «Vangelo del Patto latino».
Villania non importa. Follia non vale. Slealtà non cale.
Un duca della Vostra casa, della stirpe di Savoia, ebbe per motto ― in vecchio francesco ― questo: «Faictes moy raisun».
Molte pagine di questo messaggio sono composte appunto irreprensibilmente nella vecchia lingua di Francia: in quella delle Canzoni di gesta e delle Croniche.
Ma un Filiberto di Savoia s’ebbe per motto nel latino che io resuscito e invoco: «Infestus infestis».
Io pongo,
Sire,
nelle Vostre mani fide questo documentum ac monimentum amoris mentre un popolo settentrionale ― ingrandito come cinico banco isolano con violazioni antiche e novissime d’ogni Giustizia ― tenta ignobilmente di offenderci, di umiliarci e di defraudarci.
Non importa.
Oggi cade, o Vittorio Emanuele terzo di Savoia, infestus infestis, il decimo settimo anniversario della Vittoria che non fu conseguita se non per il nostro sforzo, per il solo sforzo d’Italia.
Sì, combattemmo senza aiuto, soli; solamente illusi dalle frodi risonanti.
A un Re combattente — che mi considerò compagno d’armi — io parlo chiaro come già parlai.
Se oggi noi siam costretti a misurare il nostro pane perchè ci duri, anche allora noi lo misurammo. Facemmo già la prova in servigio degli inghiottitori. Faremo la seconda per isvergognarlo. Praestantior animus fu il motto di un altro Filiberto, o re Vittorio.
Di errori, di colpe, di falsità, di viltà il popolo italiano esce mondo. Quel che fu fatto di bene, non fu fatto se non da lui: dal suo istinto, dal suo genio, dalla sua fortuna. Quella veste che sfolgora sul monte è la sua veste, «di un tal candore che nessun tintore su la terra sarebbe capace di produrre», come dice la Scrittura. I tintori paesani e stranieri, che oggi ritingono ogni cosa e anche la lor calvizie non veneranda, riesciranno a cangiarla o a macchiarla?
La guerra fu bandita dal popolo generoso, con un impeto di generosità fraterna che giunse a dimenticare ogni rancore ogni esperienza ogni diffidenza.
Dimenticammo Nizza e la Corsica, dimenticammo Mentana, dimenticammo l’amarezza di chi aveva combattuto e vinto a Digione, lo stupore di chi s’era lasciato prendere ingenuo nel laccio di Tunisi. Dimenticammo i fornimenti concessi contro di noi al nemico abissino, trasbordati a Marsiglia, sbarcati in Obuk. Dimenticammo le avversioni palesi e nascoste alla Gesta d’oltremare, all’impresa di Libia, e il contrabbando di guerra praticato ai nostri danni, e i carichi di cartucce tunisine per il Turco. Dimenticammo i nostri morti di Amba Alagi e di Adua, stesi nella sabbia dalle armi giunte in Etiopia attraverso i porti di Francia e d’Inghilterra. Dimenticammo anche l’episodio crudo delle due navi nel nostro Tirreno, delle quali una portava un nome che evoca la pertinacia ostile dell’antico censore. Tutto dimenticammo, per non ricordare se non il «latin sangue gentile» e per non obbedire se non alla necessità di salvare la Francia e l’Europa, come affermavano con salmi subitanei di amore e di lode quelli che oggi ci spogliano e ci vilipendono.
Quali premii non ci furono offerti? quali ricompense non ci furono vantate e promesse?
Riconosciuto il nostro diritto adriatico e mediterraneo, riconosciuta la nostra preponderanza nella Balcania, la nostra influenza nell’Asia minore e nell’Africa. Io stesso, il 25 e il 27 aprile 1915, feci publiche in Francia con la solita nettezza due dichiarazioni — delle quali l’una intitolata L’amarissimo Adriatico, l’altra intitolata Il cemento romano — determinando i nostri confini e i nostri diritti, tutti i nostri diritti, specialmente quelli che non considera il magro Patto della solita Banca di Londra e neppur la rattoppatura di Moriana.
Non fu, intorno a colui che partiva solo con la sua fede sincera nella Resurrezione latina, non fu se non un coro di consensi quasi ebro! Per prendere le armi, lottammo. Avendole prese, le moltiplicammo e le portammo alla vittoria: anzi alla sola vittoria di tutta la guerra, alla sola vittoria piena ottenuta in campo aperto. Non eravamo preparati. Non dovevamo levare un mezzo milione di uomini. Ne levammo cinque milioni, ordinati in un esercito gagliardo e flessibile che s’avanzava al modo romano — come oggi contro i mercanti di schiavi e di concubine — assodando le strade e combattendo «là dove non era pur giunto l’artiglio dell’aquila».
Il popolo italiano fu il legionario eroico.
Non avevamo se non scarse industrie a foggiare le armi e gli arnesi, non avevamo se non fiacche officine, confuse opere. E da per tutto si accesero i fuochi, la macchina e l’uomo si collegarono, l’ingegno allo sforzo sfavillò come l’acciaio sotto il maglio. L’invenzione fu un aspetto della prodezza.
Il popolo fu l’operaio eroico.
Non avevamo le materie brute, non miniere da forzare, non biade da accrescere, non alimenti da distribuire, non navi bastevoli al traffico; e dovemmo tutto comperare a caro prezzo dallo straniero, come oggi: come domani, o usurieri, o strangolatori.
Sopperimmo alla penuria con un regime così duro che ci diede anche il primato nel patimento e nella pazienza. Usurious deliverers, successors of Lord Cochrane the philhellenist hireling, noi ardemmo i tre quarti della nostra ricchezza. Potemmo vivere e combattere in terra e in mare, non consumando se non un terzo del carbone necessario ai bisogni. Per le nostre industrie, per le nostre navi, per le nostre locomotive non bruciammo più della quantità di carbone che serviva agli Alleati per riscaldare le case. Le nostre eran fredde.
Ogni attività non utile alla guerra fu soppressa, ogni comodità abolita. Una lunga disciplina silenziosa, una abnegazione oscura, una virtù inesauribile nell’esaurimento di tutto: quella di oggi, o balordi e furbi strozzatori, quella di domani, quella della implacabile lotta.
Sì, tutto il popolo fu il paziente eroico.
Sì, come allora, senza limite, senza ritegno, sopra alle fiacchezze ai dissensi alle frodi ai tradimenti, a tutti gli errori e a tutte le miserie, o carnefici ventruti, o bassi gesuiti spurii, sapremo creare ogni giorno il nostro coraggio la nostra arme il nostro utensile la nostra perizia il nostro credito il nostro numero, come il profeta inventa il futuro sotto l’inspirazione del suo dio accecato e falsato da John Milton.
Il popolo italiano ritrovò le migliori impronte della razza per ristamparsi in quelle. Poi respirò i quattro venti del mondo. E tutte le novità lo ebber pronto e spedito come se fosser nate dal suo stesso genio.
E così dico che decideremo le sorti ineguali di questa guerra tragicomica, con la nostra umanità novissima e con le nostre armi improvvise, come noi decidemmo le sorti della Grande Guerra non tre volte ma cinque.
Udite, udite, o Inghilesi assordati dalla indigena ovatta!
La prima volta quando rifiutammo di aggredire la Francia già invasa e le demmo il modo di compiere il suo miracolo della Marna.
La seconda quando entrammo nel gran gioco mentre i Russi da Leopoli a Riga piegavano all’urto austrotedesco che dal nostro accorrere fu menomato deviato interrotto.
La terza quando il tradimento e il dissolvimento della Russia ci lasciaron soli contro l'Austria intera; e non ci disanimammo, e ancóra avanzammo, e poi fummo di súbito percossi da un destino che non era davanti a noi ma dietro di noi; e soli ci ritrovammo al Piave e soli tenemmo quel confine tremendo, e soli ci dissetammo tutti di quell’acqua sapendo che non ce ne poteva essere altra per noi in tutta la terra, e soli nella nostra anima demmo il nome di Caporetto alla nostra «dodicesima vittoria», da scolpire sul frontone dell’Arco, la più severa dopo le più severe di Roma. E la quarta volta fu nel combattimento e nella mietitura del Solstizio, nella vittoria solare di giugno, quando la falce diede ai feriti la paglia fresca, e la baionetta protesse il pane novo. E la quinta fu l’estrema: fu la vittoria massima, fu la vittoria classica: la forza del cuneo romano che spezza l’avversario in due tronchi convulsi.
Mi guardo ben dal dire: «L’alleato britanno era là.»
No, secondo il suo stile, non era là, per testimoniare. Preferiva falsare le cifre, imbrogliare i conti.
Mi consenta Vittorio Emanuele di Savoia, mi consenta per ultimo il Re d’Italia che — avendo io d’improvviso nominato per acume d’ingiuria quel tal Lord Cochrane filelleno stipendiato — mi ardisca illuminargli l’oscurità dell’anglica nimicizia contro la nazione italica nella guerra etiopica.
Non si confessano, o molto creduli, non si dichiarano gli Inghilesi del mio Giovan Villani, non si confermano protettori purissimi degli oppressi non puri, difenditori d’un salomonico mercantante di nomade servitù e di bruna «puttanicizia», come direbbe il nostro Belli immortale?
Vi fu nel tempo romantico una passione più o men finanziaria della sciagura greca. Vi fu il Filellenismo, noto a noi spezialmente per l’ultimo errore e per la non eroica morte di quel Giorgio Byron paragonato a me dalla imbecillità litterata e ignorante.
Non mi dilungo a illustrare il commercio dei britanni filelleni.
La Grecia infelice, verso i tre primi decennii dell’Ottocento, aveva Miaulis aveva Sachtouris aveva Canaris cittadini e marinari di tal sublimità che si sarebbe di lor gloriata la virtù somma delle antiche Repubbliche.
Or v’era appunto quel Lord Cochrane «specializzato» ammiraglio di tutte le insurrezioni. E poggiava egli appunto sul sasso di Malta come su piedestallo di pomposa mostra, come su l’utile suo fulcro di ostentazione. Ebbene, o mio semplice Re combattente, il 17 agosto 1825 la sciagurata Grecia firmò un vero e proprio Contratto con Lord Cochraine che prometteva i suoi servigi filellenici sino al termine della guerra per la somma di Un milione e Quattrocentomila lire (trascuro il corso della moneta e i cambii della Borsa mediterranea) a patto che la metà del compenso gli fosse versata prima: anticipazioncella eroicòmica, o Maestà, Re nostro nel Mare nostro.
Dal Vittoriale: 4 novembre 1935.
Gabriele d’Annunzio
duca di Ragusa.